Alcuni giorni erano passati. L’aria era piú distesa, serena.
Dopo la furia dei giorni appena trascorsi, la gente, timorosa di credervi, cominciava a rendersi conto che la guerra era davvero finita.
Una gioia, una frenesia, un amore immenso ci affratellava.
Ci si baciava e abbracciava e per le strade e le piazze la gente cantava e ballava.
Il grande incubo era finito e tutto il nero passato era già lontano. C’era fretta di dimenticare, di ricominciare a vivere: liberi!
Anche il Michele era uscito dal suo nascondiglio, pallido come un fantasma, ma gli occhi fondi ridevano.
Una mattina arrivarono una ventina di partigiani dalla Val d’Ossola. Avevano piazzato a riva un cannone e sparavano sull’altra sponda, dove pochi tedeschi resistevano ancora: erano le ultime scaramucce.
Veri partigiani cosí da vicino non ne avevo mai visti: i capelli lunghi fin sulle spalle, erano forti e asciutti, con i visi segnati e abbronzati dalla vita dura sui monti.
Avevano al collo un fazzoletto rosso: come erano belli! Mi innamorai di tutti: «Da grande, mi sposo un partigiano!»
Quel giorno era il 1º maggio, e nel pomeriggio vi fu una grande sfilata con in testa i partigiani, il CLN, e poi la musica e molta gente e uno sventolare di tante bandiere.
Noi ragazzi c’eravamo tutti e cantavamo a squarciagola Bandiera rossa.
Il corteo fece due giri intorno al paese e poi cominciò lentamente a sciogliersi.
Era rimasto solo un gruppo di anziani con le bandiere, e noi ragazzi al seguito.
A forza di cantare, le gole erano riarse e fecero la prima tappa a un bar. Noi ragazzi attendevamo fuori, di guardia alle bandiere.
Un bicchiere di vino, e via a marciare e cantare fino alla prossima osteria, e cosí di seguito da una all’altra.
Si era già fatta sera. Noi ragazzi attendevamo ancora di guardia alle bandiere, davanti all’ultima osteria sulla strada alta del paese.
Aspetta e aspetta, gli ultimi quattro vecchietti non volevano più saperne di uscire. Socchiusi l’uscio: erano lí, i gomiti e la testa affondati sulla tavola, addormentati!
Tre ragazze della valle
ci han portato
la polenta, la farina,
e una maglia di bucato.
La più bella delle tre
mi ha innamorato.
Nelle trecce aveva il fior
che mi ha donato.
Bianca, bianca sopra il monte
mi parevi addormentata:
eri stata fucilata,
piano il vento ti cullò.
Fu per colpa che mi hai dato
la polenta, la farina
e una maglia di bucato.
Bianca, bianca sopra il monte
sta sciogliendosi la neve.
Dell’aprile il vento lieve
una storia ti dirà.
Il treno che ci portava in città era vecchio, malandato e traballante, con le panche di legno e la locomotiva a vapore.
Partiva alle cinque e dieci dal mio paese sul Lago Maggiore, poi sbuffando, arrancando, fermandosi a tutte le stazioni, arrivava finalmente a Gallarate.
Qui si cambiava treno ed erano corse affannose per prenderlo per la coda o lunghe attese fra le gelate del mattino.
Cinque ore di viaggio al giorno. Avevo sempre il naso rosso per il raffreddore e un gran sonno: bastava un momento di quiete e mi appisolavo anche in piedi; ma la quiete non c’era quasi mai.
Su quel treno si cantava, si giocava, e qualcuno riusciva anche a studiare.
Ad ogni stazione salivano altri amici ed erano richiami e saluti.
A gara si faceva posto sui sedili, togliendoci i cappotti e stringendoci.
A Besozzo saliva la mia compagna di scuola, la «Marisa del tubo», perché portava sempre il tubo coi disegni.
A Ternate Luisa, che sedeva sempre, chissà perché, vicina a mio fratello Fulvio, e alla stazione dopo il Franco e la Clara. La Clara non sedeva allora accanto a Fulvio, ma se lo è poi sposato.
Quando finalmente si arrivava a Milano, ognuno prendeva la sua strada e il suo tram.
Fulvio studiava alla Bocconi, io e mio fratello Dario a Brera, lui all’Accademia e io al Liceo.
Fra treno, tram e un pezzo di strada a piedi, per quanto mi affannassi a far presto, arrivavo sempre a scuola in ritardo.
Nella prima ora si faceva lezione di figura: sgusciavo senza dare nell’occhio nella grande aula piena di luce per il soffitto a vetrate.
Disposte qua e là c’erano statue di nudi e, intorno ad ognuna, dei cavalletti dove gli allievi lavoravano a riprodurle.
Cosí davanti a un cavalletto ancora vuoto mi mettevo anch’io al lavoro con carta e carboncino; ma, ultima arrivata, trovavo sempre libero quello dietro alla statua e mi toccava disegnare sederi e sederi.
Il lunedí invece la prima lezione era di disegno geometrico, ed io, come al solito in ritardo, entravo in aula a testa bassa, incontro alle furie del professore.
Non mi lasciava nemmeno aprir bocca che già mi assaliva urlando: – Non interessano le tue scuse e da dove vieni, e il treno e il tram. Alla mia lezione si arriva in orario!
Il grande cartoncino grigio sul tavolo inclinato, la riga T, i compassi, il tiralinee, e la lavata di capo, mi facevano perdere la testa, e cosí confusa, non riuscivo nemmeno a fare la quadratura del foglio.
– Mi raccomando, – diceva la voce del professore, – appoggiate appena il compasso. Tanti piccoli fori vi possono far sballare il disegno di qualche decimillimetro.
Altro che millimetro, i disegni geometrici erano la mia spina nel fianco, e li finivo addirittura a mano libera.
Qualche volta, preso un poco dai rimorsi, il professore si sedeva al mio posto, e con la scusa di spiegare, terminava lui il mio disegno.
Un antico convento con lunghi corridoi a volta, fatti d’ombra e di luce, e un portico tutt’intorno al cortile dove trionfava una grande statua di bronzo. Questa era Brera, la mia scuola.
La guerra ci aveva lasciato il segno e ora i muratori lavoravano a ricostruire il tetto e le scale della Pinacoteca.
Di fronte alla scuola le case erano completamente distrutte: dappertutto si toglievano macerie, lentamente si cominciava a ricostruire.
Fra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio ragazzi, muratori e professori ci ritrovavamo tutti a mangiare dalle sorelle Pirovini, la latteria in via Fiorichiari: lunga come un budello e tutta piastrellata di bianco.
Anche i tavoli erano lunghi, e con le panche, per starci in molti.
I più fortunati prendevano i posti migliori, quelli accanto alla grande stufa di terracotta.
In fondo a quel locale, scesi quattro scalini, si apriva la grande cucina rotonda, con un bel camino, dove le sorelle Pirovini cuocevan la polenta.
Qui, tutt’intorno alla parete c’erano altri tavoli un po’ più riservati e tranquilli, dove di solito sedevano i professori.
Il budello era casa nostra e ci facevamo tutto il baccano che volevamo. Stavamo in allegria anche davanti a una malinconica minestra.
Una volta, quando i muratori finirono il tetto, si fece tutti festa e si mangiò il risotto alla milanese, quello giallo, con lo zafferano; e sopra il tetto si mise la bandiera e un ramo di pino.
Nel budello delle Pirovini Gianni Dova appendeva i suoi primi collages sopra le piastrelle, e sperava di venderli.
Il Dova era inseparabile dal Crippa.
Brontolavano sempre tra loro come se litigassero, ma erano sempre insieme: Dova, romano, biondo, spilungone e Crippa, lombardo, tarchiato, sicuro, con ai piedi un paio di pantofole rosse come quelle del vescovo.
E poi c’era il Morlotti, magro e inquieto, che compariva di rado perché frequentava un’altra latteria, la «Giamaica», con Aimone e un altro gruppo di pittori.
E Peverelli, Cassinari, Cavaliere, Parzini, Baj e tanti altri ancora, fino a quelli già grandi allora: Funi, Messina, Carpi, che era appena tornato, malridotto, dalla Germania, dal campo di Gusen, e stavamo lí seduti accanto a loro, davanti a quei piatti magri.
Finalmente si andava ad abitare a Milano.
Trovare casa in quegli anni non era facile, poche erano le case abitabili in mezzo alle macerie, ma ci venne incontro la fortuna; ora si dovevano affrontare nuove spese e un affitto salato, e ci saremmo dati da fare anche noi lavorando e studiando, insieme, adesso che non c’era più da viaggiare.
La nuova casa era una villetta in fila con altre, tutte uguali, in via Sant’Eusebio 25.
Una strada breve quasi al...