Lontano da Gerusalemme
eBook - ePub

Lontano da Gerusalemme

Cronache ebraiche contemporanee

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Lontano da Gerusalemme

Cronache ebraiche contemporanee

Informazioni su questo libro

Esplorazione allo stesso tempo reale e utopica dell'ebraismo, il libro racconta i luoghi della diaspora contemporanea. Dall'India agli Stati Uniti, passando per il Mediterraneo e per un'Europa densa di fulcri simbolici, Lontano da Gerusalemme è una cronaca appassionata e insieme una lettura per linee traverse del fenomeno giudaico. In alcuni casi l'autore mette a fuoco il volto ebraico di una città in cui ha abitato, come Gerusalemme, Berlino, Venezia; altrove misura assenze, come a Norimberga, Dresda, Cracovia, o segnala un declino, come a Cochin in India. L'itinerario tocca alcuni grandi centri di aggregazione del giudaismo novecentesco - Amsterdam, Parigi, New York - e si spinge poi in una dimensione piú remota, tra le architetture medievali di Praga e le vestigia del ghetto di Roma. Si addentra infine nelle memorie culturali dei cabbalisti di Mantova, degli stampatori ebrei di Soncino, degl'intraprendenti conversos di Ferrara e dei raffinati banchieri del Rinascimento pisano. I racconti non si limitano allo spazio esiguo del presente ma riportano alla luce, con le cadenze veloci di un diario, tutta la forza allegorica del passato ebraico.

Domande frequenti

Sì, puoi annullare l'abbonamento in qualsiasi momento dalla sezione Abbonamento nelle impostazioni del tuo account sul sito web di Perlego. L'abbonamento rimarrà attivo fino alla fine del periodo di fatturazione in corso. Scopri come annullare l'abbonamento.
Al momento è possibile scaricare tramite l'app tutti i nostri libri ePub mobile-friendly. Anche la maggior parte dei nostri PDF è scaricabile e stiamo lavorando per rendere disponibile quanto prima il download di tutti gli altri file. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Perlego offre due piani: Base e Completo
  • Base è ideale per studenti e professionisti che amano esplorare un’ampia varietà di argomenti. Accedi alla Biblioteca Base con oltre 800.000 titoli affidabili e best-seller in business, crescita personale e discipline umanistiche. Include tempo di lettura illimitato e voce Read Aloud standard.
  • Completo: Perfetto per studenti avanzati e ricercatori che necessitano di accesso completo e senza restrizioni. Sblocca oltre 1,4 milioni di libri in centinaia di argomenti, inclusi titoli accademici e specializzati. Il piano Completo include anche funzionalità avanzate come Premium Read Aloud e Research Assistant.
Entrambi i piani sono disponibili con cicli di fatturazione mensili, ogni 4 mesi o annuali.
Perlego è un servizio di abbonamento a testi accademici, che ti permette di accedere a un'intera libreria online a un prezzo inferiore rispetto a quello che pagheresti per acquistare un singolo libro al mese. Con oltre 1 milione di testi suddivisi in più di 1.000 categorie, troverai sicuramente ciò che fa per te! Per maggiori informazioni, clicca qui.
Cerca l'icona Sintesi vocale nel prossimo libro che leggerai per verificare se è possibile riprodurre l'audio. Questo strumento permette di leggere il testo a voce alta, evidenziandolo man mano che la lettura procede. Puoi aumentare o diminuire la velocità della sintesi vocale, oppure sospendere la riproduzione. Per maggiori informazioni, clicca qui.
Sì! Puoi usare l’app Perlego sia su dispositivi iOS che Android per leggere in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo — anche offline. Perfetta per i tragitti o quando sei in movimento.
Nota che non possiamo supportare dispositivi con iOS 13 o Android 7 o versioni precedenti. Scopri di più sull’utilizzo dell’app.
Sì, puoi accedere a Lontano da Gerusalemme di Giulio Busi in formato PDF e/o ePub, così come ad altri libri molto apprezzati nelle sezioni relative a Teologia e religione e Religione. Scopri oltre 1 milione di libri disponibili nel nostro catalogo.

Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806165840
eBook ISBN
9788858425213
Categoria
Religione

1.

Cochin. Una sinagoga accanto a Shiva

Sospese sui canali come velami smisurati, le reti quadrate dei pescatori annunciano già dall’alto dell’aereo la zona di Cochin, sulla costa del Kerala. Cresciuta a fior d’acqua, tra il mare d’Oman e un arcipelago d’isolotti e penisole, Cochin è una città non grande, per le proporzioni dell’India, formata da edifici bassi e antichi, ancora in gran parte affondati nella traboccante vegetazione tropicale. Il centro moderno – che porta il nome di Ernakulam – è separato da un largo braccio di laguna, cosí che la vecchia Cochin può ancora impigrirsi tra palazzi storici e sentori confusi di spezie. Le strade corrugate tradiscono l’eclettismo dei secoli passati, quando portoghesi e olandesi si mescolavano agli indú, a mercanti cinesi – che importarono le grandi reti da pesca – e anche agli ebrei, che si erano insediati qui forse già agli inizi dell’era volgare, lungo le rotte internazionali che conducevano all’Occidente le mercanzie indiane.
Arrivo a Cochin col volo del mattino da Bombay e chiedo una macchina veloce, che mi porti subito alla sinagoga. Considerato il senso indiano del tempo, il mio è un semplice tentativo di non rimandare la visita al pomeriggio. Ma evidentemente riesco a essere convincente e il portiere dell’albergo mi prende sul serio. Con una tempestività del tutto inaspettata, l’auto – una lucida Ambassador, vecchio modello – è già davanti all’entrata. L’autista scambia qualche battuta col portiere nella lingua locale, guarda l’orologio e si calca sulla fronte un berretto bianco.
L’antica sinagoga di Cochin è nel cuore del vecchio abitato, sull’isola di Mattancheri, opposta a quella di Willingdon, sulla quale si trova l’hotel. La distanza in linea d’aria non sarebbe molta, ma dobbiamo risalire un lungo tratto per raggiungere il grande ponte che collega i due quartieri della città, intasato da camion, da carri trainati da buoi e da biciclette e risciò di ogni tipo. Preceduto dal suono del clacson, il taxi scansa tutti gli ostacoli e supera indenne ogni incrocio. Raggiungiamo il centro antico in pochi minuti.
Gli ebrei di Cochin sono stati, per tradizione, intermediari tra due mondi. Tra la società indiana – di cui hanno condiviso in gran parte sia la rigida struttura gerarchica sia la vocazione alla ritualità – e la cultura delle genti straniere, che coi loro traffici hanno da sempre pervaso le coste del subcontinente. Della fase piú antica del loro insediamento non rimangono che vaghe memorie nelle tradizioni locali, anche se è verosimile che i primi nuclei ebraici derivassero in buona parte dalla diaspora mesopotamica. Certo è che le dinastie indú, che dal IX secolo si succedettero nel dominio della regione costiera, ebbero negli ebrei collaboratori ideali per instaurare rapporti d’affari con popolazioni d’altre lingue e di usi, che la mentalità indiana doveva trovare spesso di barbara arroganza.
L’arrivo delle potenze coloniali – i portoghesi nel 1498 e poi gli olandesi, agli inizi del XVII secolo – mutò anche gli antichi equilibri della Comunità ebraica. Al seguito degli europei giunse infatti un nuovo gruppo di emigrati, per lo piú sefarditi, che conquistò ben presto una posizione di preminenza, fino al punto di creare una «casta» separata di «ebrei bianchi», o «paradesi» (cioè «stranieri»), che si considerava superiore agli «ebrei neri», o «malabari», i quali rimasero tuttavia in maggioranza. I paradesi – che intrattenevano assidui rapporti con il resto della diaspora – collaborarono attivamente sia coi governatori olandesi sia col rajah di Cochin, costruirono una sinagoga da cui gli «ebrei neri» furono esclusi e fecero di tutto per avvicinare la propria immagine – e quindi il proprio status sociale – a quello delle caste alte indiane, ovvero i sacerdoti bramini, e i guerrieri ksatriya (chiamati nayar in Kerala).
In passato, si contavano nella zona una decina di sinagoghe. Di quelle appartenenti al nucleo originario di ebrei malabari, una è stata trasportata e ricostruita al Museo Israel di Gerusalemme, altre sono andate distrutte o trasformate. Ma il tempio principale degli «ebrei bianchi» è ancora qui, e rappresenta oggi uno dei maggiori tesori di Cochin.
L’edificio, la cui fondazione risale al 1568, si trova all’estremità della Synagogue Lane, nella cosiddetta «Jew Town». È una semplice costruzione a un piano, che si distingue all’esterno dalle altre case solo per il portico d’accesso e per la presenza di una bassa torre con l’orologio. Nel piccolo atrio, lo shammash mi fa cenno di togliere le scarpe. Non diversamente che in ogni altro luogo di devozione in India, una fila di calzature di fogge e misure diverse è disposta ordinatamente davanti all’ingresso della zona sacra del tempio. Aggiungo le mie ed entro nella sala di preghiera, fresca nel mezzogiorno tropicale, e luminosa per le ampie finestre sui lati. Lungo le pareti corrono semplici panche in legno, sul fondo si trova un aron ha-qodesh – l’armadio che contiene i rotoli della Torah – che pare settecentesco, dipinto in rosso e oro, e al centro campeggia una bimah a pilastrini dorati e a forma di ferro di cavallo. Il pavimento, vanto degli ebrei di Cochin, è ricoperto di piastrelle decorate con delicati paesaggi e figurette blu sul fondo chiaro: le portò direttamente dalla Cina, alla metà del secolo XVIII, un facoltoso mercante, che fece restaurare nell’occasione l’intera sinagoga, cosí da conferirle l’aspetto che ancora mantiene. Nella galleria in legno sopra alla parete d’ingresso vi è una seconda bimah, utilizzata nelle ricorrenze speciali – particolarità architettonica che le sinagoghe indiane condividono, chissà per qual motivo, con quelle lontanissime della Provenza – e dietro a essa le griglie del matroneo. Lampadari di fogge dissimili calano dal soffitto in file continue, come fragili bordure orientali.
Un piccolo gruppo di turisti parla sottovoce. Cerco un passaggio verso lo stretto cortile che circonda l’edificio. In parte murate sulla parete di cinta, in parte appoggiate al suolo, trovo numerose lapidi, fitte d’iscrizioni in ebraico. Scatto alcune foto e indugio a prendere qualche appunto. Vorrei ripercorrere, per quanto possibile, la storia di questa Comunità, approdata in terre tanto lontane.
Probabilmente stupito dalla visita prolungata e dal mio atteggiamento piú professionale del consueto, lo shammash si avvicina e attacca discorso. La dichiarazione della mia nazionalità non ne appaga, anzi forse ne acuisce, la curiosità. Azzarda qualche domanda, alcune parole in ebraico, mentre rispondo un po’ evasivo, cercando di indirizzare la conversazione sulla Comunità di Cochin e sulla sua storia. La sinagoga conserva un documento antichissimo, mi confida il custode, il cui sguardo s’illumina d’improvviso. Vorrei forse vederlo? Scompare per un attimo dietro una porta, torna con un mazzo di chiavi e apre infine una teca, dove sono conservate due lamine di rame che recano, incisa in antica lingua tamil, la ratifica dei privilegi attribuiti dal re Bhaskara Ravi Varman I (962-1019) al mercante ebreo Yosef Rabban. La concessione prevedeva, fra l’altro, diritti di proprietà, la riscossione di tasse, l’esonero dal tributo alla casa reale e l’autorizzazione a utilizzare un «tessuto su cui camminare», un «palanchino» e un «parasole», tutti anticamente simboli di nobiltà e potere. Sebbene questo testo appartenga con ogni probabilità agli inizi del secolo XI, gli ebrei di Cochin lo fanno risalire per tradizione addirittura al IV secolo, a testimonianza dell’antichissimo prestigio goduto nei territori dell’attuale Kerala. Mi può forse interessare un’edizione in facsimile del venerabile documento? L’acquisto di due esemplari della minuscola copia delle tavole, riprodotte su rigido cartone color rame, assieme a un’offerta per la sinagoga, rassicura definitivamente il custode sul mio conto.
Tornato sulla strada, mi accingo a esplorare la stretta e bassa Synagogue Lane, sperando di trovare ancora qualche traccia del passato ebraico. A eccezione tuttavia di alcune finestre, le cui grate sono decorate con grandi stelle di Davide, nulla sembra piú ricordare che questo fu un centro vivacissimo di vita ebraica. Tutte le famiglie della Comunità paradesi vissero per secoli lungo questa via che, come una sorta di orientale Judengasse, costituiva il simbolo dell’identità giudaica. Ancora oggi, gli ebrei di Cochin emigrati in Israele definiscono il proprio gruppo con un termine giudeo-malayalam che significa letteralmente «la strada». La Synagogue Lane faceva da cornice alla complessa vita rituale della Comunità, nella quale cerimonie e feste assumevano fra l’altro un preciso significato d’interazione con la maggioranza induista. Durante la festa di Pesach, per esempio, una strettissima osservanza delle norme alimentari permetteva agli ebrei di Cochin di far sfoggio di un codice di purità ancora piú rigoroso di quello dei bramini, e di ottenere cosí un consistente prestigio, in una società in cui la superiorità di casta è direttamente legata al concetto di non contaminazione. La ricorrenza autunnale di Simchat Torah era invece spunto per una celebrazione degli aspetti regali e gioiosi del giudaismo, con cui gli ebrei si avvicinavano ai modelli di comportamento dei nobili ksatriya, emulando nel contempo il carattere liberatorio di Holi, il carnevale indiano.
Oggi la Comunità di Cochin è quasi completamente scomparsa, dopo due fasi migratorie – agli inizi degli anni Cinquanta e verso il 1970 – che hanno portato in Israele gran parte dei discendenti di questo antico frammento della diaspora. Si è trattato in verità di un abbandono spontaneo, forse legato al desiderio di raggiungere un maggior benessere economico e all’entusiasmo per la costituzione del nuovo Stato ebraico. Se si eccettua un breve interludio di violenze, perpetrate dai portoghesi tra il XVI e il XVII secolo, il giudaismo indiano è infatti uno dei pochissimi che, nella sua storia secolare, non ha conosciuto persecuzioni.
Su entrambi i lati, la Synagogue Lane è attualmente fiancheggiata da un’ininterrotta fila di piccoli negozi, che offrono spezie e pezzi d’antiquariato di discutibile autenticità. S’incontrano in gran numero statuette di divinità del pantheon induista, mescolate a immagini cristiane e a porcellane e mobilia di evidente origine europea – a testimonianza dei trascorsi coloniali del luogo – ma nessun segno della passata vita ebraica, nemmeno un souvenir. Entro infine nella piccola libreria, dove scorgo in un angolo alcune kippot, copricapi in vendita per i fedeli di passaggio, e finalmente un libro – nella tipica carta rosata delle edizioni indiane – che raccoglie alcuni saggi sugli ebrei di Cochin.
Senza fretta torno alla piazzetta dove mi attende il taxi. L’autista è ora di umore piú ciarliero. Mi domanda se tutto è andato bene e pare soddisfatto. Imbocca una strada diversa da quella dell’andata e indugia in qualche spiegazione sugli edifici e la topografia della città. Un clangore di voci, di strumenti a fiato e di tamburi irrompe alla nostra destra. Un elefante parato con un telo rosso e un monile sulla fronte incede tra le case, circondato da un gruppo di fedeli, che cantano e recano tra le mani offerte votive. È giornata di festa in un tempietto di Shiva, che posso scorgere dietro l’angolo, m’informa l’autista, mentre spegne il motore e attende compiaciuto il passaggio della processione. È evidente che ritiene di poter adesso impiegare anche un paio d’ore per ritornare all’albergo.

2.

Gerusalemme. All’avanguardia con Scholem

Costruito sul lato occidentale della città, per difenderne quello che era considerato il fianco piú debole, il complesso di fortificazioni della Torre di Davide si trova proprio accanto alla Porta di Giaffa. Blocchi poderosi di pietra, levigati per rendere piú difficile la scalata in caso d’assedio, si aggregano in una muraglia scoscesa, sopra alla quale s’innalza la torre. Secondo una leggenda araba, ancora viva qualche decennio fa, fu da una di queste finestre che Davide gettò il suo sguardo peccaminoso su Betsabea e fu in una di queste sale rinserrate che compose i salmi piú ispirati. Piú tardi intervenne Erode, a rinsaldare le mura e ad ampliare, forse, la fortezza.
La cittadella domina la cinta muraria. Eppure non molti si concedono qui una sosta. I turisti s’affrettano piuttosto verso le strette vie della Gerusalemme vecchia, promettente labirinto di souvenir, mercato d’impallidito esotismo, ombreggiato da teli tesi tra i muri delle case. «Tanti passano – dice Shosh Yaniv, la direttrice – senza nemmeno accorgersi che c’è un museo. Persino molti israeliani restano stupiti e domandano da quando esiste». Forse a causa dell’offuscante biancore della pietra, la stessa in cui è tagliato l’intero perimetro delle mura, accade veramente d’ingannarsi sulle reali proporzioni di questa ridotta militare. Una volta penetrati negli spazi interni, tuttavia, la struttura si rivela nei suoi volumi soverchianti.
Tra le rovine di spalti e camminamenti, sotto i voltoni e sopra i terrapieni, l’artista americano Dale Chihuly ha inserito le sue sculture in vetro, installazioni sovradimensionate di colori accesi e forme agglutinate, la cui presenza pare ricomporre le forze implicite del luogo. Conoscevo Chihuly dagli interventi lungo i canali e nei campi di Venezia ma Gerusalemme pare conferire al suo lavoro una nuova pertinenza sperimentale. Queste piante algide, cactus e agavi diafane, queste bolle e meduse distorte s’integrano nelle vestigia della cittadella vicino-orientale con una tensione creativa piú spontanea e come esaltata dalla chiusa compagine dell’antico insediamento militare.
Donna minuta, con la voce appena cantilenante, Shosh Yaniv trasmette una sensazione di confidente energia. L’istituzione è nata circa dieci anni fa come Museo della storia di Gerusalemme, alla quale sono dedicate gran parte delle sale interne della fortezza, ma Yaniv ha deciso di renderla un luogo vivo e ha progetti per una serie di esibizioni di arte contemporanea. La mostra di Chihuly è nata quasi per caso. L’artista era a Gerusalemme solo per ventiquattr’ore, ma una visita alla Torre di Davide è bastata a convincerlo. «La prossima grande iniziativa sarà nel 2002», aggiunge Shosh Yaniv un po’ misteriosamente. Si scusa, deve intervenire a un incontro per problemi di energia elettrica. «Siamo allacciati a una centrale palestinese – sorride – naturalmente sarà una discussione tra tecnici. Io non capisco niente, però devo andare, perché è comunque un’occasione politica».
La grande installazione di Chihuly è il segnale piú chiaro, ma non l’unico, di una nuova apertura di Gerusalemme all’arte contemporanea. L’infittirsi delle gallerie d’arte e il visibile aumento di opere nelle collezioni contemporanee del Museo Israel confermano l’impressione di una città desiderosa di proporsi come centro d’innovazione artistica. Una Gerusalemme anche come luogo di utopia estetica, che si contrappone alla città dell’oleografia e dei colori tradizionali del quartiere ortodosso di Meah Shearim.
Lascio la città vecchia e scendo verso il centro moderno. Nemmeno i quartieri d’impronta coloniale si rassegnano a un ordine geometrico. Nonostante il loro orgoglio europeo, le strade che si allontanano dalla porta di Giaffa procedono per linee spezzate, raggruppandosi come in fasci nervosi e poi di nuovo divergendo verso il Parco dell’Indipendenza. Bastano pochi minuti per raggiungere la Hillel Street, dove si trova il Museo di arte ebraica italiana. Nella piazzetta davanti all’edificio si allestisce un palco. Alcuni operai provano i microfoni, dagli altoparlanti escono scoppi di suoni a gran volume. Si sta preparando una delle feste che in questi giorni richiamano gli adolescenti, con musiche disco assordanti, impensabili fino a pochi anni fa nella città religiosa per eccellenza.
L’interno del museo è però quieto e i muri spessi dell’edificio attutiscono i rumori. La giovane signora che mi accoglie preferisce parlare in inglese o in ebraico. Ha sposato un italiano, ma ha ancora qualche impaccio con la lingua. Dimostra nondimeno una sicura familiarità con la storia e i materiali del museo. S’inizia dalla sala in cui è ricostruito il tempio di Conegliano Veneto, minuto gioiello barocco trasferito in Israele nel 1952, e divenuto ora fulcro anche spirituale della Comunità italiana residente a Gerusalemme. Questa sinagoga è infatti tuttora officiata, secondo la liturgia italiana, orgogliosamente ritenuta la piú prossima al rito in uso in Palestina nel periodo del secondo Tempio.
Le altre stanze accolgono oggetti di vita quotidiana ebraica e arredi provenienti dall’Italia, in gran parte di qualità eccezionale – come l’armadio sacro che si trovava originariamente a Mantova e poi a Sermide, risalente al 1543, uno tra gli esempi piú famosi di arte ebraica rinascimentale. Il museo è oggi ambizioso centro d’attività, con una piccola biblioteca dedicata alla storia e ai beni culturali ebraici italiani. L’iniziativa forse piú sorprendente è il laboratorio di restauro dei tessuti e soprattutto degli arredi lignei. Fondata nel 1988 da Giuliano Orvieto, questa officina mantiene viva a Gerusalemme la grande tradizione italiana di restauro. Orvieto non ha perso il suo accento toscano. «Ho lasciato la mia ditta con duecentoventi operai – racconta – perché avevo voglia di fare la ‘aliyyah». Mostra le fotografie degli interventi piú importanti. Il ripristino non riguarda solo i materiali del museo ma anche i numerosi altri manufatti, che negli anni Cinquanta sono stati trasferiti dalle Comunità ebraiche italiane in Israele e che sono ora ambientati in varie sinagoghe e scuole del Paese. L’opera di restauro che si svolge qui pare corrispondere alla recente riscoperta dei beni ebraici in Italia. Dopo gli anni dell’innovazione dello Stato ebraico, si avverte ora la necessità di ridefinire l’eredità del passato, aggiungendo al valore religioso di questi oggetti la loro fondamentale prerogativa di testimoni culturali.
Ritrovo l’auto che ho preso a noleggio e mi sposto verso il campus universitario di Givat Ram. Nel quartiere residenziale di Rechavia il traffico si fa piú rado. La città pare qui meno austera, incline al verde dei giardini e a un tono compiaciuto di rispettabilità borghese. A un semaforo leggo un adesivo, sul vetro posteriore della macchina che mi precede: «Molta gente vuole la pace. Anch’io». Passo davanti alla bassa collina del Parlamento e percorro il lungo rettilineo di Ruppin Street.
Il fondo Scholem occupa parte del secondo piano nel compatto edificio della Biblioteca Nazionale, al centro del parco universitario. Grandi vetrate disegnate da Mordechai Ardon lasciano filtrare una luce pastosa, carica di rossi e di gialli. In due sale – che conservano l’atmosfera di uno studio privato – sono custoditi i libri raccolti da Gershom Scholem in oltre sessant’anni di lavoro. Lungo gli scaffali si allineano rare edizioni italiane del Cinquecento, accanto a fragili fogli usciti dalle tipografie chasidiche dell’Europa orientale. L’intero mondo del misticismo giudaico, fatto di solitarie avventure interiori non meno che d’illusioni sparse tre le pieghe della diaspora, è qui ricomposto e ordinato in una bibliografia a un tempo onnicomprensiva e visionaria. Le edizioni diverse di un medesimo testo, che solo in queste sale è possibile trovare raccolte su di un unico palchetto, rendono visibile e toccabile con mano lo sviluppo delle dottrine segrete del giudaismo. Inframmezzate alle rilegature dorate dei libri si scorgono le cartelle di appunti di Scholem. Per ciascun testo e autore, pagine e pagine di note, chiarimenti, dubbi o abbozzi di edizioni critiche, in parte mai pubblicate, rimas...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Lontano da Gerusalemme
  3. Introduzione
  4. Lontano da Gerusalemme
  5. 1. Cochin. Una sinagoga accanto a Shiva
  6. 2. Gerusalemme. All’avanguardia con Scholem
  7. 3. Gerusalemme. La pace può attendere
  8. 4. Istanbul. La nave della Torah e la moschea degli ebrei
  9. 5. Atene. L’acropoli ebraica
  10. 6. Roma. Il ghetto assente
  11. 7. Pisa. Fasto e tentazioni del Rinascimento ebraico
  12. 8. Ferrara. Talmudisti alla corte degli estensi
  13. 9. Venezia. Abitare di fronte al ghetto
  14. 10. Soncino. Stampatori di confine
  15. 11. Mantova. Officina dei cabbalisti
  16. 12. Breslavia, Cracovia e le rose di Auschwitz
  17. 13. Praga ebraica inattuale
  18. 14. Norimberga. Geroglifici antisemiti e farina di azzime
  19. 15. Berlino. Il labirinto della dimenticanza
  20. 16. Berlino. Nostalgia di espressionismo
  21. 17. Dresda. La sinagoga-fortezza
  22. 18. Amsterdam. Il Talmud di Rembrandt
  23. 19. Londra. L’esilio di Freud e i sefarditi della City
  24. 20. Parigi. La menorah di Paul Celan
  25. 21. Avignone. Gli ebrei del papa
  26. 22. Toledo. La sinagoga-poema del tesoriere del re
  27. 23. New York. Diaspora nella grande mela
  28. Tracciato bibliografico
  29. Glossario
  30. Il libro
  31. L’autore
  32. Dello stesso autore
  33. Copyright