Non mi piaceva.
Non mi piaceva niente.
Non mi piaceva il modo facile e rapido con cui il mio capitano aveva ottenuto il permesso di partire e non mi piaceva il modo rapido e facile con cui gli spagnoli avevano accettato di favorirci, fornendoci una copertura, un mezzo e una scorta fino a Madrid, dove gli agenti segreti della Quinta Colonna franchista ci avrebbero aiutato a trovare notizie sull’amico compagno, vivo o morto che fosse.
Il conte Cicci aveva chiamato il generale Roatta che aveva chiamato il colonnello Peruzzi che aveva chiamato un maggiore del servizio segreto italiano. Se è soltanto per togliervelo dai piedi che lo lasciate andare, avevo detto al maggiore segreto in un orecchio, posso farlo io appena fuori Sigüenza. Ma lui mi aveva guardato di traverso, con un sopracciglio alzato, e allora io avevo saputo per certo che gli accordi presi a Teruel valevano ancora, che ero ancora l’attendente del mio capitano e che la mia vita, purtroppo, ancora dipendeva dalla sua.
Ma non mi piaceva.
Non mi piaceva niente.
A questo io pensavo, cupo e scuro, mentre seduto nel cassone di un piccolo autocarro mi stringevo tra le braccia per combattere il freddo del mattino. Davanti a me, felice e dritto sul sedile, gli occhi attenti fuori dal finestrino, sedeva il mio capitano, vestito da borghese a coste di velluto e lobbia grigia. I documenti dicevano che era un periodista, corrispondente estero di un giornale francese vicino ai comunisti e io il suo fotografo, ma non avevo una macchina per scattare né lui sapeva una parola di francese.
E anche la scorta che ci avevano dato mi suonava strana. Seduto uno al volante, e l’altro accanto a me, nel cassone, anche lui sotto al telo, che mi guardava fisso, riccio e nero come un moro questo e l’altro magro e sfregiato in volto. Periodistas anche loro, secondo le carte, nella vita disertori della Catalogna passati coi fascistas.
Parlavano tra loro un catalano silenzioso, stretto e duro, che non riuscivo a capire.
Si chiamavano Rosencranz e Guilderstein.
Il cielo, dall’altra parte, era rosso ancora prima dell’alba.
Al buio e a fari spenti, rullavamo su una strada tutta buche che correva lungo il fronte e si addentrava tra i barranchi corrosi e spellati dalla guerra. Da uno strappo nel telone io guardavo fuori nella terra di nessuno. C’erano alberi, pochi e senza foglie, che sembravano mani piantate nella terra con le dita aperte e storte contro un cielo color sangue. C’erano campi piatti, velati da una nebbia rossiccia e bassa, che si perdevano nel nulla e c’erano case sventrate e senza tetto, dalle travi irte sulle mura come capelli dritti di paura e buchi alle porte e alle finestre, come bocche e occhi spalancati. E a mano a mano che nel cielo si alzava un sole rossastro e venato apparivano visibili nei fossi le sagome ocra dei muli scannati dalle schegge di granata, con le zampe irrigidite, aperte come in croce e il ghigno ossuto scavato sulle loro facce equine e tonte, di somari morti. Coperti di formiche rosse e brulicanti, sembrava che fremessero, ancora vivi, scossi da un tremito continuo di febbre cavallina.
Le avevo viste tutte quelle cose e le conoscevo bene per essere passato molte volte di qua e di là dal fronte. Cosí, al bivio del Muerto, dove sotto il tronco bruciato di una quercia stava insepolto il corpo di un soldato marocchino, mi sporsi dal cassone per toccare la spalla dell’autista, che annuí perché anche lui sapeva. I suoi piedi scalzi, morti e secchi, arcuati come quelli di una scimmia, indicavano la strada per Madrid.
Mi ero assopito, appena e con un occhio solo l’altro mezzo chiuso, quando un sospiro del mio capitano mi svegliò del tutto proprio mentre il camion nostro attraversava un borgo diroccato e rosicchiato dalla guerra. Dentro una buca ancora aperta, steso nel cassone di una pendola, c’era il corpo di un soldato senza testa e quando ci passammo accanto un contadino che teneva riparata sotto il braccio una vecchia curva in uno scialle nero, alzò il pugno e ruggendo in castigliano maledisse il cielo.
Alzai lo sguardo e vidi che il mio capitano si stropicciava gli occhi, voltato sul sedile. Mi disse cribbio, Stella, ho fatto un sogno spaventoso. C’era Vittorio nascosto in una buca al cimitero, con gli occhi cosí aperti che ci si vedeva la luna riflessa nel bianco. Teneva in grembo la testa di un ragazzo e la testa gli parlava.
A un chilometro nella Spagna Rossa incontrammo una colonna del battaglione Largo Caballero. Tutti in fila, uno per uno, i miliziani tenevano i fucili sulla spalla, come fossero vanghe e attorno al collo, tutti, portavano un fazzoletto rosso, proprio come i contadini. Cantavano Los Quatros Generales e quando ci passammo accanto el comisario che chiudeva la colonna salutò col pugno chiuso.
– E cosí questi sarebbero i rossi, – mormorò il mio capitano, dietro un sorriso sprezzante da guerriero. Aveva allargato le spalle, rigido sul sedile e per un attimo temetti che si sarebbe lasciato sfuggire un saluto alla visiera del cappello. Chiuse il pugno, invece, sfilando il braccio fuori dal finestrino, ma dritto, come se indicasse di voltare e poi era il destro.
Disse un po’ di mimetismo, Stella… in fondo siamo quasi delle spie calandosi la lobbia sulla fronte. Allora io lo vidi, il guizzo di un sorriso nella coda dell’occhio del catalano che guidava, e sentii anche il suo sussurro, soffiato forte all’angolo della sua bocca stretta, da moro imbastardito: niño, crío, chicillo. L’altro sorrise, seduto nel cassone, ma dopo mi guardò come se attendesse un mio commento, impenetrabile sotto lo sfregio che gli solcava il volto.
– Niño, – dissi io annuendo, – niño, – ragazzino, e piegando il capo da una parte indicai il mio capitano, che ci osservava incerto.
– Già, – ringhiò, fingendo di capire e non capendo, – puoi ben dirlo, Stella. E rise, assieme a noi, di gusto, anche se io, malfidato come sempre, come sempre ridevo un po’ meno.
Ma fu alla prima sosta che ne ebbi la certezza. Ci eravamo fermati in un calanco, dietro un dosso della strada e io vuotavo la vescica dentro il fosso, con un fiotto denso e scuro e un piacere intenso, che mi faceva sospirare. Accanto a me, ma voltato di tre quarti, il mio capitano cercava di pisciare, rosso in volto, sbrirciandosi alle spalle se qualcuno lo guardava. Il camion era lontano, quasi oltre il dosso perché io mi ero slacciato i pantaloni appena sceso dal cassone ma il mio capitano si era allontanato, vergognoso e avevo dovuto seguirlo. I catalani li avevamo lasciati in cabina, a bere vino da un fiasco impagliato.
– Non ci riesco, con tutto questo spazio aperto davanti… – diceva il mio capitano, – e ho le reni spezzate da quel sedile maledetto. I nostri amici si sbagliano o forse loro ci sono abituati ma questo viaggio non è una passeggiata.
Finii di scrollarmi e rimasi a godermi il fresco del vento sulla punta mentre col pollice a uncino mi accarezzavo i peli arricciati sotto al ventre. Poi mi venne in mente una cosa e lo rimisi dentro.
– Una passeggiata, signor capitano? Perché dite cosí.
– Perché va bene, ammetto di non consocerlo molto, lo spagnolo, ma qualche parola la capisco anch’io. Nel ’32 ho avuto un flirt con la figlia di un ambasciatore argentino che chiedeva sempre che la portassi a passeggiare… oh Stella, per carità! Non pensare male, non è mai successo niente… però quella parola, paseo, quella me la ricordo bene e so che vuol dire passeggiata.
– E i catalani cosa c’entrano? Vi hanno chiesto…
– Ma no, Stella… – voltò la testa sulla spalla, con la faccia rosso fuoco, – non mi hanno chiesto niente, a me. Parlavano tra loro, prima, quando sei sceso a controllare la ruota. Non ho capito niente perché parlavano in dialetto ma ogni tanto ci infilavano un po’ di spagnolo e che ci davano un paseo, a noi due, quello l’ho capito.
– Hanno detto proprio cosí, signor capitano? Dar el paseo?
– Sí… ma scherzavano, sicuramente, perché questo viaggio è un inferno. Ho la schiena a pezzi, ho bisogno di fare un bagno e non riesco neanche a pisciare…
Ma io non lo ascoltavo piú. Di traverso, abbottonandomi la patta, sbirciavo i catalani che bevevano dal fiasco. Sotto il giubbotto, sganciai il fodero di legno della Mauser, per averla sempre pronta all’occorrenza.
Dar el paseo, nel gergo della guerra, significava ammazzare a tradimento.
– ¡Papagayos! – urlò il catalano al volante e io alzai la testa, cercando nel cielo oltre il parabrezza uno degli aerei color verde pappagallo dell’aviazione repubblicana. Era un Messerschmitt nero dell’aviazione nazista, invece, ma non aveva importanza, perché ci puntava addosso, dritto per dritto e ci sparava.
– Che cribbio… – iniziò il mio capitano, scuotendosi dal sonno un attimo prima che la raffica facesse esplodere il parabrezza, riempiendo la cabina di schegge di vetro spesso e polveroso. Il catalano al volante gridò, troncato a metà sul sedile da tre ogive da 22 e l’urlo fu coperto dal rombo dell’aereo che ci passava sopra. Schiacciato giú, sulle assi del cassone, lo vidi virare lontano e tornare indietro, nello spicchio di cielo inquadrato dal telone. Non aspettai che aprisse il fuoco, perché con le mani aprii lo squarcio nel telo e mi gettai fuori con un tuffo, mentre il camion, esaurito l’abbrivio della corsa, si era fermato al centro della strada.
Volai nel fosso e l’altro catalano che mi cadde accanto, mancandomi d’un soffio, mi fece ricordare del mio capitano. Allora tornai fuori e mentre le pallottole fischiavano dappertutto, alzando sassi, terra e polvere di strada, salii sul predellino e aprii la portiera del camion, afferrando per un braccio il mio capitano, che ancora dritto sul sedile armeggiava con la giacca per estrarre la pistola. Lo tirai fuori con uno strappo e lo precipitai nel fosso, a testa in giú, come per un colpo di lotta giapponese. Poi saltai anch’io, con un balzo lungo che mi portò oltre il fossato, sulla terra fangosa di un campo, e lí cominciai a correre come un coniglio, perché ero allo scoperto. Quel jodido pilota doveva avermi sotto mira perché me lo sentivo dietro, e infatti c’era, cabrón mierda de perro e arava il campo con le mitragliere scavando un solco che mi passò di fianco, coprendomi di fango. Curvo in avanti, con le mani strette sulla testa e la testa stretta tra le spalle, mi infilai dentro un rudere bruciato in mezzo al campo, dietro un angolo di muro, premuto contro il sasso come un riccio chiuso a palla. Avevo un po’ di tetto sulla testa, abbastanza da non farmi mitragliare, ma sarei morto se l’aereo fosse tornato indietro a sganciare la bomba, cosí non alzai la testa quando la sentii fischiare, acuta e sempre piú veloce. L’esplosione mi tappò le orecchie coprendomi di schegge d’intonaco e di sasso ma non sentii il calore, da che compresi che il pilota, tra me e il camion, aveva scelto il camion. Solo allora, forzando sui tendini del collo, alzai la testa.
Ero in una chiesa, una piccola cappella di campagna, distrutta dal fuoco che l’aveva ripiegata su se stessa. Tra i muri nudi, spaccati e curvi come le ossa dello sterno di una carogna, c’era pochissimo spazio, tutto occupato dallo scheletro carbonizzato di un confessionale di legno che il fuoco aveva coperto di scaglie lucide e nere, come le squame di un coccodrillo. C’era anche la statua lunga di un Cristo crocifisso, castrato da un proiettile sparato da vicino e dietro il Cristo vidi il catalano sfigurato, anche lui rannicchiato e chiuso a palla.
Lo guardai e da come mi guardò guardarlo capii che aveva capito che avevo già capito anch’io.
Fui piú veloce. Estrassi la Mauser e gli sparai in un occhio.
Il mio capitano era ancora nel fosso, steso immobile come se fosse morto, con gli occhi spalancati contro il cielo rosso della Sierra. Aveva le braccia rigide lungo i fianchi e le gambe un po’ flesse, con le ginocchia che piegavano di lato. Ebbi paura, finché non ...