Ero preoccupato di non riconoscere i volti. Peggio, di ritrovare lineamenti vagamente conosciuti ma di non riuscire ad abbinarli ai nomi.
Prima di partire, avevo confrontato una per una le facce di quella foto in bianco e nero della quinta elementare con i profili Facebook che avevo trovato (in fondo quel social – pensavano quasi tutti – non era nato apposta? per far ritrovare i vecchi compagni di scuola?) Lo avevo fatto meticolosamente. Piú che memorizzarle, memorizzare gli abbinamenti bambino-uomo, avevo cercato di carpire, nei lineamenti di quei ragazzi invecchiati, i tratti caratteristici, quelli che non si perdono con l’età, quelli che alla fine rendono un volto unico e diverso da ogni altro e che ti permettono di rintracciare appunto tra tanti cambiamenti ciò che rimane immutabile.
Ventuno con me. In quinta elementare eravamo ventuno. Diciassette quelli che forse avrei rivisto. Ventuno meno me venti, meno Tonino e Riccardo diciotto, meno Denis, lo davo per scontato, diciassette.
Dodici avevano un profilo Facebook. Alberto, Alfredo, Luigi, Umberto, Valerio, Maurizio, Francesco, Olmo, Loris, Ivan, Ferruccio, Ermes. Mancava Franco, me ne ero accorto subito, uno di quelli di cui volevo avere notizie e che volevo assolutamente incontrare. Avevo visto i loro volti di oggi, e ricostruito un po’ di biografie. Quanti abitavano ancora al paese. Tutti meno due, incredibile, nella città vicina si erano trasferiti solo Alfredo e Umberto. Cinque non erano su Facebook: Franco, appunto, poi Enea, Pietro, Angelo e Mauro. Cinque di cui non sapevo nulla. Nemmeno se fossero ancora al mondo. Questo pensiero – e il fatto che non mi fosse venuto in mente prima – mi aveva procurato una fitta allo stomaco.
A parte Riccardo, naturalmente. E a parte Tonino. Due in una sola classe. Molto, molto sopra la media. Chissà cosa significava, se pur significava qualcosa. Ma la mia domanda in realtà era un’altra. Chissà se voleva dire quello che pensavo io. No, sarebbe stato troppo ottimistico.
Il primo era stato Tonino, a vent’anni, un anno dopo la mia partenza. Il mio compagno di banco, quello che mia madre – che conosceva bene la maestra al punto da permettersi di umiliarsi (umiliava me, ma pensava di umiliare se stessa) – aveva chiesto mi fosse tenuto vicino. «Sa, mio figlio è molto timido, ha paura degli altri bambini, non ho mai capito perché, le ho provate tutte, sa che l’ho dovuto tenere a casa dall’asilo, lo trovavo sveglio nel letto prima che lo chiamassi, gli occhi sbarrati, a supplicarmi di non portarlo. Ho dovuto tenerlo a casa perché non si ammalasse».
Tonino era quello che avrebbe dovuto togliermi la «timidezza». Lui si sforzava, ma nel tirarmi in mezzo – ai giochi, agli scherzi, alle chiacchiere, al cinema la domenica pomeriggio, dove lui entrava gratis perché suo padre vendeva gelati e bibite – mi faceva piú paura di tutti. Tonino in ogni caso avrebbe dovuto insegnarmi a vivere. E sembrava il compagno giusto, quello piú intraprendente, navigato, esperto, pieno di iniziativa, quello che non aveva paura neanche del diavolo, che conosceva tutto, conosceva tutti, andava dappertutto.
Dopo la terza media, il primo ad avere la ragazza, anzi piú ragazze, il primo ad avere una chitarra, quello che conosceva la musica piú nuova, che sapeva ballare, il primo a fondare una band, chitarra, basso, batteria, tastiere. Facevano le prove in uno scantinato, erano già stati a suonare in qualche locale, addirittura venivano pagati. E lui era il cantante, il trascinatore, il leader, lo sbruffone anche, lasciava il palco per scendere a ballare e rimorchiare ragazze sempre nuove.
Tonino.
Tonino non c’era su Facebook.
A vent’anni un pomeriggio di primavera, solo in casa, si era steso sul letto e si era sparato un colpo al cervello.
Non un biglietto, non un segnale (ma era davvero cosí?), niente di niente. E che avesse una rivoltella nessuno lo aveva mai saputo, neanche vagamente sospettato.
Neppure Riccardo era su Facebook.
Riccardo era il nostro compagno piú silenzioso. Raro sentirlo parlare. Ma non aveva l’aria triste o assente. Era molto intelligente. La calma fatta persona. La sicurezza fatta persona. La gentilezza fatta persona.
Riccardo era riuscito ad arrivare ai venticinque anni. Ma non uno di piú. La ricostruzione non aveva lasciato dubbi. Una sera d’autunno aveva abbandonato la macchina sul lido deserto del fiume e si era buttato nella corrente gelida.
Due su ventuno.
A me sembrava un’enormità.
Mi era difficile credere al caso.
Restava il mistero.
Me l’avevano detto al telefono i miei. Li sentivo, anche se i rapporti si erano interrotti definitivamente con la mia partenza. Avevo voluto rompere drasticamente con tutto e con tutti. Loro compresi. Loro per primi.
Non erano mai venuti a trovarmi. Io non ero tornato in Italia neppure una volta. Rimandavo. Rimandavo. Dentro di me sapevo che quel viaggio non lo avrei mai fatto.
Poi loro erano morti, insieme, sul colpo, in un incidente stradale. Avevo ventisei anni. Ero lontano e non li vedevo da sette. Avevo deciso di non tornare per il funerale. Non avevo fratelli. Strano, in una famiglia contadina come la mia negli anni Cinquanta. Strano sí. Ma mia madre aveva rischiato di morire partorendomi. I medici le avevano assolutamente proibito di avere altri figli. Un’altra gravidanza e lei è spacciata, le avevano detto. Era quasi impazzita, mio padre era disperato.
Li avevo sentiti, ancora anni dopo, sussurrarne con l’arciprete che era venuto da noi a cena e io avrei dovuto essere a letto da un pezzo, invece me ne stavo a origliare al buio quei discorsi dei grandi seduto sul terzo gradino della scala che portava al primo piano.
– Buongiorno.
– Buongiorno.
Ieri pomeriggio alla reception avevo visto un ragazzo biondo, e un signore di mezza età. Piú tardi, il portiere di notte (che però non stava in piedi tutta la notte, dormiva sul retro e rispondeva, nel caso, al telefono), un uomo gentilissimo, di colore, che mi aveva sorpreso. Non lo immaginavo, in un paesino cosí. Adesso c’è una signora bionda – penso la madre del ragazzo, ma chissà – e una ragazza giovanissima, sí e no vent’anni.
– Il signore pranza qui?
La voce mi arriva che sono già sulla porta.
– Non lo so, – dico, colto di sorpresa, – bisogna prenotare?
– No, non importa. L’aspettiamo. Non si preoccupi.
Non si preoccupi se non vado o se vado tardi? Mi aspettano anche se non vado? In ogni caso faccio come hanno detto, non mi preoccupo. Ho ben altro per la testa. E l’hotel sembra vuoto.
Esco. Lentamente. Cerco di avere il passo fermo. Gli occhi dritti davanti a me.
Attraverso il parcheggio, poi la strada che circonda il paese, proprio come cinquant’anni prima, un anello di un paio di chilometri, non di piú.
Oltrepassata la strada, finalmente un segno dei tempi nuovi. Sulla sinistra c’è un grande – grande per un posto piccolo – Palazzo dello sport.
Piego verso destra, le scuole elementari in perfetto stile fascista sono ancora lí, identiche a se stesse, immutabili, e cosí le piú recenti scuole medie, proprio di fronte. Le supero, sulla destra la Rocca, il monumento ai caduti, il piccolo parco, la Montagnola, dietro deve esserci il campo di calcio, ma non si vede da qui e chissà se c’è ancora.
Taglio direttamente sulla piazza, la vecchia chiesa sconsacrata dedicata alla Vergine è sbarrata come già allora. Alla mia sinistra ricordavo vecchie case popolari. Queste non ci sono piú, adesso c’è un altro parcheggio, molto grande, uffici, un supermercato. Ma la piazza è davvero uguale. Il tempo sembra essersi fermato, si dice cosí.
L’edicola, e di fronte, sotto i portici, il bar Centrale. Sembra tutto immobile, uguale, ma è solo un’impressione.
Mi fermo a qualche metro dalla porta a vetri del bar. Ricordo i negozi di un tempo uno a uno.
Sulla sinistra, farmacia, barbiere, tabaccheria, fornaio, cartoleria, negozio di bottoni, orologiaio e via cosí giú giú fino alla chiesa.
Sulla destra, solo pochi metri e i portici e i negozi finivano subito. E in quei pochi metri c’erano la signora che vendeva la lana e il papà di Franco che di colpo aveva smesso di fare il meccanico e aveva aperto un ristorantino-bar assai curioso per i tempi. Piccolo, ma che ricostruiva nei dettagli – utilizzando attrezzi in disuso della campagna – un saloon da film western. Un grande successo dell’epoca, il primo vero segno di modernità.
Ed ecco la seconda farmacia. Questa è rimasta uguale a se stessa, barattoli di vetro e mobili in legno di una volta, una bellezza, da lustrarsi gli occhi. Tutto attorno oggi vedo quasi solo negozi di vestiti. Jeanseria, vestiti eleganti per bambini, vestiti alla moda per ragazzini, un Benetton, un Intimissimi. Poi un negozietto pretenzioso di erboristeria, una gioielleria, una profumeria. Anche negozi di una volta, rimessi completamente a nuovo. Ferramenta, ottico, fruttivendolo, elettrodomestici, calzolaio (ma con grandi scritte che elencano una quantità di servizi: affilatura coltelli, cornici per quadri, accessori, cerniere, borse, rivetti, bottoni automatici). Un negozio di tende. La Banca Popolare.
Si dice, si pensa a volte, che è come non essere mai andati via. Nonostante ricordi ogni cosa, a me pare semmai il contrario. Mi sento come uno che non è mai stato qui.
Dietro il banco del bar, tre cinesi, padre madre e figlio, sembrerebbe.
– Ciao, – mi dice il padre.
Ciao va bene, anzi mi piace. Ma per adesso dico Buongiorno. Ciao magari quando esco. – Un caffè macchiato, per favore.
Ed eccolo.
La sorte ha deciso. E ha deciso bene. Buon segno, mi dico.
È Alberto, non ho il minimo dubbio, e non solo perché è uno di quelli su Facebook. L’avrei riconosciuto fra mille. La faccia è la stessa. L’espressione, i famosi lineamenti caratteristici, gli occhi. Quel bambino di mille anni fa, identico a se stesso, solo molto piú grasso.
Lui, invece, non mi riconosce subito. Come potrebbe? Non avevo detto che sarei venuto alla cena, non avevo neanche risposto. Doveva essere una sorpresa totale. Poi oggi è il 4 aprile, la cena è solo il 12, manca piú di una settimana.
Mi guarda un attimo, come si guarda incuriosito uno sconosciuto che entra per la prima volta nel nostro bar, poi torna a parlare con l’amico che sta di fianco a lui. Passano un paio di secondi e si volta di nuovo verso di me. Questa volta di scatto, un’espressione piú che incredula negli occhi.
La voce stenta a uscire.
– Ma… ma… sei proprio… tu?
– Ciao Alberto, come stai? È un po’ che non ci si vede.
– Non posso crederci, non posso crederci –. Continua a ripeterlo. Io invece non stento a credergli, non solo perché lo vedo cosí colpito, ma perché capisco bene – e ci contavo – cosa significa trovarsi davanti improvvisamente un compagno delle elementari che non vedi da una vita e che immagini – se pur lo immagini – in una città a un centinaio di chilometri da New York. Cerco di toglierlo dall’imbarazzo.
Adesso ha piantato in asso il suo amico e mi è vicinissimo, quasi in...