La notte ha la mia voce
eBook - ePub

La notte ha la mia voce

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La notte ha la mia voce

Informazioni su questo libro

Una giovane donna ha perso l'uso delle gambe in seguito a un incidente. Abita un corpo che non le appartiene piú e si sente in esilio dal territorio dei sani. Poi incontra la Donnagatto, e il suo modo di guardare se stessa, e gli altri, cambia. La prima cosa che arriva di Giovanna è la voce: argentina, decisa, sensuale. Fa pensare a qualcuno che avanzi sulle miserie quotidiane come un felino. Ecco perché, fi n da subito, l'io narrante la battezza Donnagatto, sebbene Giovanna sia paralizzata, proprio come lei. Al contrario di lei, però, rivendica il diritto a desiderare ancora, sfi dando l'imperfezione del mondo. La Donnagatto nasconde un segreto, e forse ha trovato una persona cui confessarlo, consegnandole la propria storia. Una storia dove è solo apparente il confi ne tra la condanna e la grazia. «È di libertà che si dovrebbe parlare, quando si parla di corpi. Ma come si fa, se non ce li scegliamo nemmeno alla nascita? I nostri corpi sono già passato, eredità elargita da chi ci ha generato e preceduto nella tirannia combinatoria dei geni».

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806232016
eBook ISBN
9788858424926
Parte seconda

L’aria

Nella mia carne vedrò Dio.
Giobbe 19.261
1. La citazione è tratta da Giobbe 19.26, in La Sacra Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, nuova Diodati, revisione 1991.
Sul lavoro è Veronica. È stata la prima regola che le hanno spiegato, per la privacy ovviamente, ma anche perché dandosi un altro nome è piú facile calarsi nella parte.
Ricordati che qualsiasi cosa tu stia vendendo, una polizza assicurativa un aspirapolvere il futuro nelle carte o una scopata, sei al sicuro, non rischi niente, purché non riveli dettagli con cui possano risalire a te o a questo posto. Vedrai, con un altro nome è piú facile.
Ho le gambe lisce, lunghe e muscolose. Ho tolto i collant, mi sto versando olio al profumo di cocco, per massaggiarle. Vuoi che ti stringa, le senti? Senti le mie gambe?
Ascolto la voce incantatrice della Donnagatto e la guardo tamburellare con la mano libera sulla protesi. Le parole fluiscono come correnti, smuovono e passano, anche se la Donnagatto e il cliente al telefono non condividono la stessa aria. Non so come, ma ogni mia difesa è sparita. È la prima telefonata, non sento quasi nulla della voce maschile dall’altra parte della cornetta, mi lascio scivolare, come quando da piccola a lezione di danza, tra un esercizio e l’altro, ascoltavo seduta a terra le chiacchiere di un’amica che mi teneva un braccio e ci tracciava sopra ghirigori con due dita, mentre io dimenticavo perfino dov’ero.
Cosí mi senti?
Scendo dentro di me e mi ritrovo stesa su un letto ospedaliero.
Un medico sta in piedi di fianco, ha la mia cartella clinica che riporta grado e livello della lesione midollare, ma deve verificare di persona, da quando mi hanno operata potrebbero esserci cambiamenti nei parametri motori e sensitivi, magari in meglio, mi ha annunciato prima di iniziare la visita. Un infermiere mi spoglia la parte sotto, lasciandomi senza slip.
Apra le gambe, dice.
E io mi gonfio in uno sforzo pauroso che non porta a nulla.
Pieghi il ginocchio destro, dice impassibile.
E io guardo la gamba stesa davanti a me rimanere immobile.
Provi a dare un calcio, dice.
E vorrei poterlo fare, anche solo per colpirlo.
Adesso muova i fianchi, dice.
E qualcosa riesco a muovere, non so se per traino della parte superiore o per miracolo.
Bene, fin qui ci siamo. Ora chiuda gli occhi, ordina.
E io obbedisco.
Cosa sente?, chiede.
Nulla, rispondo.
Apra gli occhi, prosegue.
Obbedisco e vedo che la sua mano è sulla mia coscia e fra indice e pollice tiene un batuffolo di cotone.
Ora li richiuda, ordina.
E io obbedisco.
Cosa sente?, mi chiede.
Nulla.
Li riapra.
Eseguo e vedo che con un punteruolo metallico sta tracciando righe sulla pianta del mio piede.
Richiuda.
Faccio buio di nuovo.
Li apra.
A partire dal ginocchio vedo una striscia d’acqua che arriva fino all’inguine e mi fa la pelle lucente e piú scura. L’ha tracciata con un batuffolo di cotone, forse quello di prima, imbevuto di un liquido che sgocciola sul lenzuolo, mentre lui lo tiene sospeso in aria.
Deglutisco e spero che sia finita lí. Invece ricevo un nuovo ordine.
Tiri su la maglietta. Vediamo fin dove arriva.
Il soggetto mai pronunciato è: la sensibilità. Il medico sta eseguendo l’esame della sensibilità. Io lo so e la parola mi martella la testa.
Chiuda di nuovo gli occhi, dice.
Io li chiudo e mi viene il dubbio che anche quello che credo di sentire sulla pancia sia uno sforzo di finzione.
Cosa sente?
Qualcosa di leggero, rispondo, per non sbilanciarmi troppo.
Apra gli occhi.
Li apro e vedo che le sue dita impugnano una penna d’oca appoggiata all’altezza del mio ombelico.
Li tenga aperti, ora, e mi dica se sente.
Vedo la penna scendere verso l’inguine e piú la fisso piú scompare il suo tocco dalla percezione.
Non sento piú niente, dico, implorando con gli occhi che la finisca.
Ma dopo la penna è la volta del punteruolo e dell’acqua, che tracciano un’incerta linea di confine sotto l’ombelico, fra il regno della Sensibilità e quello dell’Insensibilità in cui sono inghiottiti il peritoneo, gli obliqui addominali, gli anelli inguinali.
Apra e chiuda.
Cosa sente, dove sente e dove non sente.
Sarà durata meno di venti minuti, ma mi ritrovo spossata come se avessi vissuto senza sonno per un mese. Il mio corpo è lí tutto intero, ma mi tocca starci dentro senza piú sentirne i confini, le funzioni precise. Questo pensiero mi spacca la testa, mi rende furiosa.
Quando l’infermiere si avvicina per rivestirmi, gli dico: faccio da me, sebbene la schiena sembri lacerarsi ogni volta che ruoto, anche di poco, a destra o a sinistra, e per infilarmi le mutande e i pantaloni del pigiama devo farlo.
Il medico, che ha un cognome come Cobalti o Basalti, non ho capito bene, scarabocchia su un foglio che aggiunge alla mia già voluminosa cartella.
Fra una ventina di giorni ripeteremo l’operazione, dice prima di andarsene.
L’infermiere mi rivolge uno sguardo che dissimula il trionfo. È lui che alla mattina mi pulisce, perché ancora non so alzarmi da sola e raggiungere il bagno, e quando mi lamento che mi ha fatto male, o sfregato troppo forte, dice: ma sei propria sicura di sentirci?
La Donnagatto ha posato il telefono e si tormenta l’angolo di un’unghia.
Profuma di cocco l’Arbre Magique che ha appeso alla lampada, sulla minuscola scrivania davanti a lei. La disinfetta con spray all’Amuchina, insieme al telefono e agli auricolari. Lo fa ogni volta, non si sa mai chi ci sia stato prima. Oggi la Donnagatto non ha avuto il tempo di farlo, perché si è attardata a darmi spiegazioni. Ne approfitta ora, in attesa della prossima telefonata. Per il resto evita di toccare i posacenere dove stagnano cartine di caramelle, le pareti insonorizzate con materiale spugnoso di colore grigio, e le piante finte del cubicolo dove lavora. D’abitudine, cerca di arrivare qualche minuto prima dell’inizio del turno per poter aprire la finestra e cambiare aria. Tiene un pacchetto di caramelle e uno di chewing gum alla menta a portata di mano, in borsa una barretta ai cereali e al cioccolato. Nel corridoio c’è un distributore di bevande, calde e fredde. Qualche volta prende un caffè, ma cerca di evitarlo nonostante le piaccia, perché a quell’ora le fa venire la tachicardia, sarà per via del ritmo circadiano manomesso dalla veglia notturna. Ha sempre un taccuino sul tavolo e una penna, mentre parla disegna: fiori, arabeschi, quando riesce a essere molto concentrata schizza polpacci in tensione, scarpe da punta o scarpe da tango. Nei suoi disegni compare spesso una sigaretta accesa. Nel cubicolo in realtà non si può fumare. Nei fogli che a volte conserva, e piú spesso straccia, si arrampica di lato scritto in caratteri svolazzanti anche il suo nome, anzi i suoi due nomi.
Perché proprio Veronica?, le chiedo. Giovanna non sa quando sia nata Veronica. Probabilmente non in una volta sola, non in un’unica occasione. Quando si trovava ancora in sala rianimazione, il respiro legato a cannule infilate nelle narici, le braccia percorse di aghi e l’odore di etere e di lattice che emanava dal suo corpo, chi era?
Non c’era nessuno al suo fianco quando si svegliò dall’anestesia, nella penombra di una stanza dove gli altri corpi stesi sui letti, se erano vivi, non sembravano esserne coscienti, intubati come lei e immobili, per quel che aveva potuto vedere sollevandosi di poco con la testa, per poi ricadere subito sul cuscino piombata dalle vertigini.
Era arrivata un’infermiera e senza dirle nulla aveva cominciato a lavarla. Giovanna percepiva lo sgocciolio di una spugna passata e strizzata, ma faticava a tenere aperti gli occhi, come fossero allagati da un liquido denso, e non distingueva tra il suono del proprio respiro e il sibilo delle macchine a cui era attaccata, a cui erano attaccati gli altri corpi. Spostandosi sul lato sinistro l’infermiera aveva detto: qui si fa prima, c’è solo mezza gamba.
In questo modo Giovanna aveva appreso di aver subito l’amputazione. Si era alzata su un gomito ed era rimbalzata indietro: a sinistra, al posto della gamba, c’era un moncone fasciato.
Ha ancora in mano la bottiglietta dell’Amuchina quando arriva la seconda telefonata.
L’appoggia sul tavolo e inarca la schiena, immagino sia lo sforzo di adattarsi a una nuova situazione, a una persona diversa dall’altra parte del microfono. Si vede, perché Giovanna si attorciglia i capelli a un dito, finisce per strapparne alcuni, si massaggia il mento. Ma nella voce non si sente.
È come uno specchio che si deforma al tocco altrui, e rimanda visioni.
Chi sei? Non vuoi dirmi il tuo nome, dunque. Come preferisci.
Slacciati. Chiudi gli occhi. Ti sto spogliando. Concentrati su quello che senti.
Ma è normale che non senta niente?, avevo chiesto al Dottor G, durante la sua prima visita, dopo l’intervento, e lui aveva annuito con quei suoi occhi scuri cerchiati dalle molte ore passate al microscopio.
A ogni esame dovevano trasportarmi in un reparto diverso, staccandomi dalla pompa della morfina. Il lettino-barella scorreva nei corridoi rimbalzando sui dossi del pavimento che coprivano grappoli di cavi elettrici, ed era come se pietre aguzze s’incuneassero fra le vertebre.
Dopo una settimana era arrivato un urologo a misurare la pressione della vescica, il tempo di riempimento, la capacità e lo svuotamento. Mi avevano riempita e svuotata di liquidi, con un catetere collegato a una macchina che produceva un rumore come di fontana. L’acqua che colava era l’unica cosa che avessi percepito distintamente, mentre l’infermiere toglieva una sonda e ne inseriva un’altra nell’uretra dopo averne lubrificato l’estremità con un gel trasparente. All’inizio e alla fine le solite domande: cosa sente? Si concentri su cosa sente. Gatti che pattinano lungo pareti invisibili, vetro che scorre su vetro, ma niente di simile a una sensazione, una di quelle cose rotonde che dicono con rozza precisione: caldo, freddo, asciutto, bagnato.
A giorni alterni un infermiere si presentava di mattina presto, per somministrare un clistere. Piazzava un tessuto assorbente sotto il bacino, mi girava sul fianco destro, intimandomi di massaggiarmi la pancia in senso orario, mi ricopriva con un lenzuolo. Fra dieci minuti sono qui, diceva, e si dirigeva verso un altro letto per compiere la medesima operazione. Il fetore era l’unico segnale. Quando l’infermiere tornava per raccogliere e pulire, tutto si svolgeva in un silenzio carico di disgusto e vergogna.
A metà mattina cadeva l’ora della visita del primario coi dottorandi. Durante una delle prime aveva proiettato l’immagine del mio rachide e del tronco prima dell’intervento. Aveva chiesto agli studenti cosa notassero, a parte la frattura vertebrale. Con un puntatore fisso sullo schermo il primario aveva indicato una massa scura nella gabbia toracica, là dove c’era lo stomaco.
La paziente aveva lo stomaco pieno e in digestione, al momento del trauma, aveva dichiarato. La paziente, non io, col mio nome e cognome, non la persona che era davanti a loro.
Qualcuno degli studenti aveva spostato lo sguardo dall’immagine in bianco e nero a quella reale nel letto, distogliendolo subito come se la trasparenza grigia degli organi e la faccia di chi li conteneva non avessero nessuna relazione fra di loro. Il piú ardito aveva osato un commento sulla forma del pancreas che il primario aveva respinto come non pertinente, passando al lettino successivo.
Un’altra volta erano state le lastre dei miei polmoni a retroilluminarsi, per mostrare due piccoli fori dovuti all’urto delle costole. Questa è la ragione per cui la paziente respira male, ha un polmone pieno di acqua che occorre drenare. E ora faremo un drenaggio. Cosí, senza preavviso, un dottorando dalle mani tremanti mi aveva fatto un’iniezione anestetica e mi aveva praticato un’incisione poco discosta dall’incavo dell’ascella per inserire un catetere drenante. L’incertezza dell’operazione era stata ripresa dal primario col risultato, visibile mesi dopo, di una cicatrice grumosa di larghezza eccessiva per una sonda di mezzo centimetro di diametro. Per tutto il tempo di quell’operazione nessuno mi aveva mai chiamata per nome.
A un certo punto avevo deciso di fingermi addormentata, durante quelle visite, per rannicchiarmi nel presente delle sensazioni, cercare solo quelle buone, anche solo il sollievo del cuscino fresco sotto la guancia, perché oltre non era possibile andare, né in avanti né all’indietro, né pensare di vivere in quelle condizioni, né ricordare come ero stata. Sotto l’irresistibile montata di velluto della morfina si agglomeravano immagini, spesso ricorrenti. Ero ancora in piedi di spalle, stringevo i glutei, alternavo il peso ora su un fianco ora su un altro, i tacchi sotto i talloni, le ginocchia salde, il peso di mia figlia appoggiato sull’anca. Che certezza. Perduta.
Adesso l’unica cosa certa sui cui contare era la morfina con le sue ali d’angelo, bianche e carezzevoli.
Alla figlia di Morfeo, dio del sonno, rivolgevo la mia preghiera: prendimi fra le tue braccia, compi su di me la tua metamorfosi, fammi dormire, fammi dimenticare, fa’ che non sia piú io, ma chiunque altro. Chiunque al mio posto. Chiunque potrebbe essere la proprietaria di un paio di polmoni bucati, di uno stomaco ingombro, di una spina vertebrale incrinata, di una vescica che non risponde, di gambe inerti. Prenditi tutto questo.
Nel reparto c’era anche un’infermiera gentile che mi chiamava per nome. Mi chiedeva come stavo ogni volta che doveva farmi un prelievo e cambiarmi la sacca di raccolta delle urine. Si prendeva cura di quello che usciva dalle mie vene, dai miei orifizi. Io guardavo il liquido giallo e quello rosso cupo, entrambi prelevati dal mio corpo, allontanarsi da me. A quella dispersione avrei voluto ne seguissero altre, fino a cancellare la cosa mostruosa che sentivo di essere diventata.
La Donnagatto scosta di poco il ricevitore da cui esala un gemito, poi un click, come il tappo a corona di una bottiglia di birra stappata.
Inginocchiati e leccami i piedi, prima il destro, poi il sinistro. Soffermati sulla caviglia sinistra.
La Donnagatto impartisce ordini, come per automatismo. Anche l’accento metallico e distante della sua voce si adegua. C’è sempre qualcuno che vuole essere dominato, obbligato a fare cose. E vuole che una voce costruisca questa fantasia che da solo non è in grado di abitare. Sulla scrivania ci sono i testi di dialoghi telefonici inseriti dentro carpette plastificate e trasparenti. Giovanna pulisce anche quelle con lo spray all’Amuchina.
I generi sono banalmente prevedibili: romantico, porno, sadomaso, soft, roba cosí. Scene fisse che fanno da guida e che si possono variare con dettagli a piacimento, in base all’ispirazione, alle richieste. Giovanna non sa chi abbia scritto i testi. Ha il sospetto che siano stati presi da qualche sito web, alcuni forse stralciati e pasticciati da libri tipo Harmony. I testi hanno una durata che cambia, a seconda che si tratti di una telefonata da sei minuti o da dodici. Dipende da qual è stata l’opzione del cliente, i soldi che è disposto a spendere. I clienti pagano per la sua voce.
Continuo a sentire solo le prime parole della conversazione, poi mi perdo. Faccio confusione con le parole che negli intervalli ci scambiamo io e la Donnagatto. Mi racconta quello che non mi ha mai raccontato.
Adesso la vedo. L’avevano appena trasferita dalla rianimazione in reparto, e nel lettino di fianco c’era una signora con il cranio rasato e ricuc...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La notte ha la mia voce
  4. Parte prima. La terra
  5. Parte seconda. L’aria
  6. Parte terza. L’acqua
  7. Il libro
  8. L’autrice
  9. Della stessa autrice
  10. Copyright