I nostri inverni sono fedeli e infallibili e noi accogliamo ciò che hanno da offrire. L’ultima stagione, però, ha messo a dura prova anche i piú devoti tra noi. Il termometro fuori dalla mia finestra segna trentacinque gradi sotto zero. Due o tre gradi in piú rispetto a ieri, che è stata comunque una giornata piú calda rispetto a ieri l’altro. Lungo tutto il fiume Burnt Wood, si sente lo scricchiolio dei pini, il durame del legno che si fende e si riduce in polpa.
Come se il freddo non bastasse, la giornata di ieri ha portato con sé un’altra crudeltà. A portarmela fino a casa, per essere precisi, è stato Gustav Eide: si tratta del berretto di lana rossa che suo padre indossava praticamente ogni giorno; quel genere di copricapo che mettono i bambini quando vanno sul toboga. L’hanno trovato i gemelli Bargaard mentre pattinavano sul ghiaccio, oltre il frangiflutti.
Non è la prima volta che Gus ha bussato alla mia porta nel corso di quest’inverno. A novembre si era presentato con un altro cappello in mano, il suo. Gus, che ha gli stessi occhi malinconici e pigri del padre, era lí, con la testa scoperta e il cappotto abbottonato, davanti alla porta di casa mia.
– Mi dispiace piombare qui senza preavviso, Berit, – mi aveva detto.
– Da quando in qua ti formalizzi con me? Dài, entra.
E lui è entrato, ma è rimasto con la schiena contro la porta e lo sguardo fisso sui lacci degli scarponi. Le sventure che si sono abbattute su questa città io le conosco: le sue sofferenze e le sue tragedie me le ricordo tutte. Mentre aspettavo che Gus dicesse qualcosa, ho sentito sopraggiungere anche la mia imperitura tristezza.
– È scomparso stanotte, Berit –. Parlava senza alzare lo sguardo. – Non si trova piú.
Mi sono allontanata da lui e con passo cauto sono andata a sedermi sulla panca sotto la finestra.
– Abbiamo trovato delle tracce che andavano verso il fiume, – mi ha detto.
Ho alzato gli occhi: ora mi guardava. Ho ripensato alla sera prima quando, seduta al capezzale di suo padre, gli tenevo la mano, gli cantavo le canzoni. Pensavo al modo in cui Harry mi aveva guardato, come se io non fossi lí, come se contemplasse un passato che solo lui era in grado di vedere. Io sparivo piano piano dal suo campo visivo. Me ne rendevo conto.
Gus si è seduto accanto a me sulla panca. – È il nuovo sceriffo, Ruutu, a dirigere le ricerche. Ci siamo inerpicati piú su delle cascate inferiori. I cani hanno perso le tracce all’altezza della Bocca del Diavolo. Ruutu è a Gunflint in questo momento, sta cercando rinforzi.
Gus mi ha preso la mano, un gesto che di sicuro aveva imparato da suo padre, un gesto che mi ha tranquillizzata, al tempo stesso familiare e straordinario. Gli Eide hanno profondità insondabili. So che è vero per Harry e ora so che è cosí anche per Gus; ma quella mattina di novembre, Gus mi conosceva molto meglio di quanto io conoscessi lui.
– Non lo troveranno, Berit.
Mi ha lasciato la mano, si è allontanato leggermente da me e ha cominciato a massaggiarsi le guance contro il freddo.
– Perché dici questo? Non può essere andato lontano, – ho detto, ripensando a quella strana luce negli occhi di Harry.
– È una storia che già conosciamo, non ti pare?
– Parla piú chiaro, se non ti dispiace. Fallo per questa povera vecchietta.
Gus allora mi ha guardato come se non fossi lí, proprio come aveva fatto suo padre solo poche ore prima. – Da queste parti, quando uno scompare non viene ritrovato. Non nei nostri boschi –. Ha chiuso gli occhi e ha scosso la testa come se volesse scacciare un pensiero. – Ti va di mettere su un caffè? Ora ti racconto come sono andate le cose.
Ho fatto come mi chiedeva. Sono andata in cucina e ho messo il bollitore sotto il rubinetto. Mentre l’acqua scorreva guardavo verso la sorgente del fiume; è da allora che praticamente ho gli occhi puntati in quella direzione. Quel giorno di novembre sono cominciate due storie. Una nuova, l’altra vecchia come questa terra. Entrambe le ha portate il fiume.
Per un’intera settimana, Ruutu e i suoi vicesceriffi, e poi Gus, sua sorella Signe e la brava gente di Gunflint si sono mossi tutti alla ricerca di Harry, inoltrandosi ogni mattina all’alba verso un nuovo vicolo cieco nelle terre selvagge, e riemergendo all’ora del crepuscolo, stanchi, infreddoliti e senza aver trovato nemmeno una traccia. Ogni sera Gus passava da casa per dirmi dove avevano cercato, dichiarandosi certo, ogni volta, che non l’avrebbero mai trovato. Ciononostante, la mattina dopo tornava a cercare con gli altri. A volte c’erano tre o quattro squadre che seguivano tre o quattro piste diverse. Alla fine si sono arresi, ma solo perché Gus ha insistito. Signe è tornata a Minneapolis, dove vive. Gus al suo lavoro di insegnante di Inglese e Storia alla Arrowhead High School. Ruutu ai reati minori e alle infrazioni stradali della nostra cittadina.
E io? Io ho continuato a cercare Harry, a modo mio. La prima mattina sono andata al suo letto vuoto. C’erano la testiera di ferro, le lenzuola di flanella e la trapunta, ammucchiata ai piedi. Harry aveva sempre caldo. Il cuscino aveva ancora l’impronta della sua testa. Sul comodino, accanto alla radio e al bicchiere d’acqua bevuto per metà, c’erano le sue medicine. La cassettiera di fronte al comodino era vecchia e malandata come la parte di Harry che custodiva i suoi ricordi. Ho aperto il primo cassetto in alto e ho subito notato l’assenza del suo berretto di lana. La cosa strana era che il pompon invece era lí.
La sera precedente era stata per me come tante altre prima di quella: l’ho passata seduta al capezzale di Harry, a ricordargli chi eravamo stati, e ogni tanto avevo l’impressione che non fosse solo nell’oscurità della sua mente che stavo scomparendo, ma dal mondo in generale. Quella sera vedere un uomo ancora robusto diventare di nuovo bambino non mi è sembrato meno strano di quanto lo fosse all’inizio della sua malattia. Non meno strano, né meno insopportabile.
Ripensando all’ultima notte che abbiamo trascorso insieme, non mi pare che lui abbia mostrato segni di voler scomparire, nessuna parola o nessun gesto che mi abbiano dato da pensare. Non ha fatto niente che potesse configurarsi come un campanello d’allarme. Quella sera io speravo solo, come ogni sera, che quando finalmente si fosse addormentato potesse essere accompagnato da una qualche consapevolezza del mio amore per lui, e che i suoi eventuali sogni fossero pieni di pace.
È stata la dottoressa Ingebrigsten – che è cresciuta nella zona di Misquah, ha studiato Medicina a Minneapolis ed è tornata nella contea di Arrowhead perché, parole sue, i malati di questa zona avevano bisogno che fosse una persona del posto a prendersi cura di loro – a illustrare a me e a Gus come si sarebbero evolute le cose per Harry. «Io e voi, – ci ha spiegato, – vediamo il nostro passato come una luminosa giornata d’estate. Gli alberi verdi, i fiori in boccio, l’acqua di un azzurro scintillante. Harry comincerà a vedere sempre meno del suo passato, finché, purtroppo, gli sembrerà di essersi perso in una tormenta di neve, di notte, nel cuore dell’inverno». La dottoressa ha detto queste cose una mattina di settembre, mentre fuori gli alberi erano nel pieno del loro splendore autunnale – l’autunno, qui da noi, è la stagione piú bella – e io ho pianto al pensiero che, se anche avesse vissuto altri dieci anni, l’uomo che amavo non avrebbe mai piú visto tanta bellezza.
Quella mattina, la dottoressa Ingebrigsten mi ha detto anche che la cosa migliore che potessi fare per Harry era stare con lui. Sedermi al suo capezzale, parlargli e dirgli che lo amavo. Trattenerlo qui con noi quanto piú a lungo possibile. E cosí ho fatto. Cosí ho fatto, sí.
Ora che è trascorso mezzo inverno da quando Harry è scomparso, posso finalmente concedere un po’ di tregua ai miei pensieri. Dovrei sentirmi sollevata. Questo lo so. Ma sapete cosa si prova ad avere tra le mani nude la prova tangibile dell’ultimo dolore che si proverà nella vita? Non lo sapevo nemmeno io fino a ieri mattina, quando Gus mi ha portato il berretto rosso di lana di Harry, con un galleggiante di sughero cucito al posto del pompon.
I racconti di Gus, e quel dannato berretto che mi ha consegnato come un responso finale e a cui non abbiamo piú fatto riferimento da allora: queste cose hanno devastato il mio cuore come l’inverno fa con i pini dalla corteccia crepata, in riva al fiume.
Gus ha aspettato che versassi il caffè prima di sfilarsi i guanti e sbottonarsi il cappotto. Aveva gli occhi fissi sulla finestra della cucina, occhi che non lasciavano trapelare nulla, sebbene la loro tristezza fosse palese. Fuori, la prima nevicata della stagione, iniziata nella notte, cominciava finalmente ad attenuarsi.
Io pensavo agli abitanti del posto che s’intabarravano e spazzavano via la neve dalle loro auto. Ci tenevano ad arrivare in tempo per la funzione delle nove alla Immanuel Lutheran Church: mille volte meglio il freddo e la neve del fuoco dell’inferno. Famiglie che entravano solennemente in chiesa e andavano a occupare i loro posti sulle panche, con la schiena dritta. Le mogli e i bambini incantati dalle devote parole del pastore Nils. Gli uomini seduti accanto, con il capo chino o rivolto verso il cielo. Sentire la sua voce durante gli inni era tanto facile quanto sentire le sue preghiere silenziose. Io vivo in mezzo a questa gente da piú o meno sessant’anni, tutta la mia vita da adulta, cioè, e l’ultima parte della mia adolescenza. Conosco il modo che ha la gente di qui di farti aspettare.
E cosí io ho aspettato Gus, riscaldandomi le mani attorno alla tazza di caffè. Dopo un po’ ha staccato gli occhi dal soffitto e si è sfilato il cappotto.
Parlava lentamente, quasi come se avesse provato prima quel discorso, anche se naturalmente non era cosí. – Tu l’hai reso molto felice, Berit. Hai dato un senso alla sua vita –. Si è interrotto e mi ha guardato. – Ma nello stato in cui era, be’, che senso poteva avere? Al suo posto me ne sarei andato anch’io, sapendo quello che il futuro aveva in serbo. Cavolo, sí, mi sarei impiccato al soffitto del capanno da pesca –. Si è portato il caffè alle labbra, senza berlo. – Mi dispiace, – ha detto da dietro il bordo della tazza. Ha bevuto un sorso, poi ha continuato. – Evidentemente ho preso da lui l’abitudine di dire la prima stronzata che mi passa per la mente –. Ha provato a sorridere, ma non c’è riuscito. – Da un po’ di tempo mi chiedo spesso che genere di ricordi gli fossero rimasti. C’erano cose che gli riaffioravano alla memoria? – S’è interrotto di nuovo e ha fatto una specie di sorriso. – Se c’era qualcosa che ricordava, erano i bei tempi passati con te.
– Non c’è bisogno che m’indori la pillola, Gus. So com’era fatto.
Gus ha continuato, come se io non avessi detto niente. – Quando Tom e Greta erano piccoli, li facevo addormentare tenendoli in braccio mentre camminavo. In pratica la notte me ne andavo in giro per casa sussurrando paroline all’orecchio dei miei figli, cantandogli le ninnenanne, rassicurandoli. Mi piaceva pensare che fossero in grado di capirmi, che la mia voce riuscisse a placarli, a farli smettere di piangere e addormentarsi –. Gus ora sorrideva. – Ovviamente non capivano un accidente. Sapevano solo di essere stanchi e contrariati –. Ha fatto un respiro profondo e ha scosso la testa. – Quanto vorrei che avesse detto anche solo una cosa prima di andarsene. Una cosa sola, porca miseria.
– Io sto seduta qui a guardarti, Gus, e penso che sei il suo ritratto spiccicato. Ma se c’è una cosa che di sicuro non hai ereditato da lui è la schiettezza, vero?
– Mi devi scusare, Berit. Non sono molto lucido ultimamente.
– Hai detto che non lo troveranno.
– No, infatti.
– Bene, posso starmene seduta qui con te tutto l’inverno, – gli ho detto.
Lui mi ha guardato e ha sorriso e con un gesto da prestigiatore ha posato sul tavolo una cartellina in pelle di alce. – Forse sí, a questo punto, – mi ha detto lui. – Ruutu ha trovato questa vicino al fiume –. Ha fatto scivolare la cartellina sul tavolo.
– Cos’è?
– La prova che non ha trovato quello che cercava.
L’ho presa, l’ho aperta alla prima pagina, e ho visto una mappa della costa del lago Superiore disegnata a mano.
– Non so come affrontare l’argomento. Non so se è una cosa sensata o se anch’io sto cominciando a perdere il lume della ragione. Ma forse tu, Berit, puoi aiutarmi a capire.
– Capire cosa, Gus?
– Perché se n’è andato. Cosa si è lasciato dietro –. Ha scosso la testa. – Cosa è successo quell’inverno, quando ero ancora un ragazzino.
– So cos’è successo quell’inverno.
– No, non lo sai. Non del tutto, almeno.
Mi sono alzata con l’intenzione di andare a prendere dell’altro caffè, ma mi sono subito riseduta e ho detto: – Stamattina c’è gente che non è andata in chiesa per cercare tuo padre; il pastore Nils sta pregando per un vecchio che si è perso nella neve, e invece tu te ne stai qui a raccontare storie alla sua innamorata.
– Te l’ho detto, non lo troveranno. Non lo troveranno e basta. Il pastore Nils è un brav’uomo. Un uomo eccezionale. Ma le sue preghiere non aiuteranno mio padre –. Gus aveva lo sguardo vitreo. – E tu? Tu eri piú che la sua innamorata. Lo sai benissimo quanto me. È per te che ha rinunciato ad andarsene, trent’anni fa. Stammi a sentire, Berit. Non credere nemmeno per un secondo che mio padre ora non abbia finalmente trovato pace –. Ha chiuso gli occhi, poi mi ha guardato. – Sempre che sia la pace, quello che ha trovato laggiú.