Il labirinto misura 2500 metri quadrati. Il Destin Management Group ha piantato le siepi ancora prima di iniziare la costruzione dell’hotel, poiché, al contrario degli operai, le piante non possono essere pagate per fare in fretta. Sono alte tre metri e mezzo, lussureggianti, di un verde scuro che a quest’ora è quasi nero, arrotondate e lisce come se ci avessero passato sopra la carta vetrata. L’hotel invece è monolitico, bianco e squadrato, delle dimensioni di un intero isolato. Sorge in una zona pianeggiante della spiaggia di Santa Barbara. È il tipo di edificio che ispira discussioni: le sue linee semplificate rappresentano un grande balzo in avanti nel design architettonico, oppure avrebbe potuto disegnarlo anche un bambino con un pennarello sul tovagliolo, in attesa del suo formaggio grigliato da cinque dollari? Lo si scorge addirittura dalla statale, la Pacific Coast Highway. Il viale d’ingresso è piuttosto lungo, per poter ospitare il labirinto di siepi, grande come mezzo campo da football, che ora si fa sempre piú scuro, immerso nell’ombra dell’hotel.
Al centro del labirinto, le rose rosso scuro sono perfette, grazie a quattro ore di lavoro e forse al fatto che Sid, un giardiniere obeso e lentigginoso, canta loro Danny Boy con la sua dolce voce da tenore. Ha spiegato all’architetto paesaggista che le rose sono fragili, hanno bisogno di sapere di essere amate, e che le serenate romantiche sono il segreto per coltivare rose rosse prive di imperfezioni. All’architetto ha detto anche che odiava l’hotel, e che avrebbe accettato il contratto solo a condizione di non dovervi mai entrare. «Sembra un dente, cazzo, – aveva detto. – Un dente strappato via e piantato sulla spiaggia». Poi lo aveva indicato, sputando nella sua direzione. «Pronto a morderti appena ti distrai un attimo».
Il Manderley Resort somiglia davvero a un dente, anche se nei dépliant pubblicitari sono state usate metafore piú gentili, come «gioiello» o «vela». E le pubblicità su tutti i media hanno fatto in modo che l’hotel fosse l’argomento di conversazione del momento, in questa zona. Un cartellone ogni tre, a Los Angeles, mostra una citazione dalla rivista «Travel» su come il Manderley sarà speciale, opulento, elegante, quando aprirà in agosto. Ora siamo a metà luglio. Ieri nelle case dell’élite di Los Angeles sono stati consegnati inviti eleganti e opulenti. Sarà il party dell’anno, c’è scritto sull’invito. Charles Destin, proprietario del Destin Management Group e quindi del Manderley Resort, non potrebbe dare una festa che non sia il party dell’anno.
Il padre di Destin, Lamont, era un diplomatico, morto in un hotel della Sierra Leone perché un cameriere aveva accettato di portare nella sua stanza un vassoio con una bomba incollata sotto. L’ordigno era fatto con materiali casalinghi, e il cameriere si era prestato alla bisogna per la cifra di diciassette dollari americani. Charles Destin aveva dieci anni. Era venuto a sapere della morte del padre dopo una partita di lacrosse. Che aveva vinto. È un particolare che non dimentica mai di menzionare, quando la morte di suo padre viene fuori durante una conversazione. Dice sempre anche che si trattava di una bomba da quattro soldi, e in quei momenti la pelle dall’abbronzatura artificiale intorno ai denti incapsulati si irrigidisce, come se essere inceneriti da una bomba costosa fosse in qualche modo meno offensivo.
Nel labirinto, l’orologio al polso di Sid emette un bip, segnalando la fine della giornata lavorativa. Lui canticchia nell’aria profumata di rose il penultimo verso: – For you will bend…1
Allo stesso tempo sforbicia dentro la siepe, in modo che l’assenza di un bocciolo perfetto non si noti tra il fogliame. Poi infila le grosse cesoie in un anello alla cintura e ne prende un paio piú piccole, per spuntare le spine dallo stelo della rosa che ha reciso. Quindi si avvicina alla fontana al centro del labirinto. È un’opera monumentale, in pietra scolpita, che rappresenta un tema di frutti e colibrí. Intorno all’ampio bordo ci sono i residui del lavoro di Sid: grumi di foglie e rami spinosi che traboccano da un secchio nero, sacchi di plastica pressati insieme in una gavetta arrugginita. Sid prende la rosa tra pollice e indice, posandola sul bordo della fontana con cura esagerata, mentre canta in un pianissimo sentimentale l’ultimo verso della ballata. Prende il secchio, chiude la gavetta e si allontana dal centro del labirinto, imboccando la prima svolta a destra. È la sua strada preferita per uscire, ma non la piú breve.
Al diciannovesimo piano, uno squillo dolce segnala a Tessa che l’ascensore è arrivato. Il suono raggiunge il soffitto della sala da ballo, a nove metri di altezza, e rimbalza sulla pittura murale che lo copre: un cielo al tramonto in toni di rosa e arancione, sul quale si stagliano una dozzina di cherubini sottilmente moderni. I loro visi carnosi guardano in basso, anziché in alto. Le enormi finestre a ovest della sala riflettono invece l’inizio di un vero tramonto. Fasci di luci e ombre illuminano tavoli apparecchiati con porcellane finissime e tovaglioli bianchi piegati a forma di cigni, magnolie, conchiglie. Solo pochi sono piegati a forma di tovagliolo. Su ogni tavolo campeggia un centrotavola composto da un mazzo di rose rosse e, nel caso un ospite lo chiedesse, lo staff confermerà che le rose vengono dal giardino del Manderley, anche se non è vero. La scorsa settimana, Tessa si è accordata con un fiorista per la consegna di cinquanta dozzine di rose ogni lunedí.
Con lo stivale destro Tessa mantiene aperte le porte a vetri dell’ascensore e lancia un’ultima occhiata verso l’angolo della sala: Jules tiene ferma la base di una scala a pioli alta sei metri, mentre Justin, suo marito e socio nella ditta di catering, finisce di comporre una piramide di mille flûte di champagne, cominciata alle sette del mattino. Al party dell’anno, Charles Destin salirà su quella scala e stapperà una bottiglia di champagne, versandolo nel bicchiere in cima e facendolo traboccare nei quattro al disotto e cosí via. Lungo la piramide si arrampica un sottile tubo di plastica, collegato a una stanza di servizio dove quattro grossi serbatoi pieni di champagne finiranno il lavoro iniziato da Destin, fino a riempire tutti e mille i bicchieri. Destin ha paragonato l’illusione di una sola bottiglia di Cristal che riempie mille bicchieri al miracolo compiuto da Gesú quando diede da mangiare a tutti i suoi seguaci con cinque pani e due pesci. Al sentire quel paragone, Tessa di scatto ha alzato gli occhi al cielo, tanto che le è uscita una lente a contatto.
Entra in ascensore e preme il bottone per l’undicesimo piano. Le porte a vetri si chiudono, il diciannovesimo piano scivola via e Tessa tira il fiato, rilassando le spalle. È bella, ma non in modo troppo evidente. Al college aveva tentato la carriera di modella («Perché sono magra come uno stelo», ha spiegato una volta) ma secondo i fotografi riusciva ad avere un buon look solo di tre quarti, a causa di un viso leggermente troppo lungo, con mento e zigomi poco pronunciati. Tessa è il tipo di persona che si aggrappa con piacere alle critiche e tratta i complimenti come fossero insulti. Esasperante.
Mentre le passa davanti il diciottesimo piano, traccia un segno di spunta sul portablocco, poi un altro al diciassettesimo. L’ascensore è lentissimo, per il fatto che è in vetro e a forma di diamante. Ogni giorno alle cinque, Tessa scende dalla sala da ballo fino all’atrio, controllando ogni piano, e il processo completo dura un’ora buona. Di solito lo fa a piedi, ma oggi non ne ha il tempo. Dall’ascensore vede solo il lungo corridoio che collega le ali nord e sud delle stanze dell’hotel, e la disturba il fatto di spuntare i piani senza averli ispezionati di persona. Sul primo foglio del portablocco c’è un diagramma con lo spaccato del Manderley, dove i piani sono numerati da uno a venti. Il ventesimo però è ombreggiato.
Tessa spunta il sedicesimo piano. Si stringe la radice del naso tra due dita e chiude gli occhi. Per questo, quando appare il quindicesimo piano e Vivica, nel corridoio bianchissimo, la vede passare in ascensore e le fa un gesto di saluto, Tessa non la vede. Non vede il flacone viola di liquido per pulire la moquette che ha in una mano, e neppure lo straccio che agita nell’altra. Quando Tessa scompare alla vista, Vivica piega la bocca all’ingiú, con espressione delusa. Si dirige verso il lato nord del corridoio, volta a sinistra e si inginocchia all’ingresso della stanza 1516. Spruzza il liquido su una macchia rossa e rotonda grande come una moneta e impreca in spagnolo. Pensa che il sangue appartenga a uno degli elettricisti, che deve essersi tagliato. Ma non è cosí.
L’Assassino si trova al settimo piano, intento a lavarsi le mani nel bagno della stanza 717, togliendo il sangue da sotto le unghie e dalle nocche. Solleva un capello chiaro e sottile dal polsino della camicia, lo studia con breve interesse e lo getta via scuotendo le dita. Il capello atterra sul tappetino bianco. L’acqua nel lavandino cambia colore, da uno strano rosso aranciato a un giallo molto simile a quello dei rubinetti placcati d’oro. Accanto al cestino con saponi assortiti, un coltello lungo come un avambraccio si sta asciugando sopra un panno bianco.
Tessa riapre gli occhi al quattordicesimo piano, annuisce e traccia un deciso segno di spunta.
Poi ne traccia un altro al dodicesimo.
Il tredicesimo piano manca. Charles Destin è superstizioso.
Mentre l’undicesimo comincia ad apparire sotto di lei, Tessa raccoglie una parte dei capelli in uno chignon alla nuca. È un gesto che ripete molte volte al giorno. Dice che i suoi capelli sono troppo pesanti per legarli tutti, ma se li lascia sciolti le viene troppo caldo al collo. L’ascensore si ferma con il solito dolce squillo, ma non appena si aprono le porte Tessa è investita dall’urlo di un trapano elettrico. Segue il rumore fino in fondo al corridoio, dal lato sud, e volta a destra. Il robusto capo elettricista, vedendola, toglie il dito dall’interruttore del trapano e sorride, mettendo in mostra il lavoro di un dentista scadente.
– Lo stronzo è andato via? – chiede.
Tessa inarca un sopracciglio, nello sforzo di assumere un’espressione severa, ma un angolo della bocca si solleva verso l’alto.
Il capo elettricista ride. – Va bene, come non detto. Charles Xavier Destin III è andato via?
– Immagina di dover portare in giro ogni giorno un nome del genere, – dice Tessa, ispezionando con lo sguardo la stanza 1109, per assicurarsi che sia immacolata. – Stai facendo un buon lavoro, Pat –. Abbassa gli occhi su alcuni pezzettini di cartongesso sul pavimento. – Non perfetto, ma buono.
L’elettricista si china a raccoglierli dalla moquette, con le grosse dita inadatte a quel lavoro. – Chucky ci ha detto di restare finché non abbiamo finito. Le parole esatte sono state: «Per me potete restare anche fino a quando alle vostre mogli per l’attesa si chiuderà la…»
Tessa solleva una mano. – Sí, ho capito. Ma per il party usiamo solo le suite di lusso, dal quattordicesimo al diciassettesimo piano, e quelle sono tutte fatte, giusto?
– Sí, sí, certo. Quei piani sono già a posto.
– Allora non c’è bisogno che voi ragazzi facciate lo straordinario, se non ne avete voglia –. Fa un passo indietro, aggiunge: – Fammi sapere, – poi si dirige verso l’ascensore.
– La risposta è facile, – dice l’elettricista, seguendola. Si toglie un walkie-talkie dalla cintura dei jeans. – Dico ai ragazzi di staccare, allora, ma solo se sei sicura che Chucky Destin domani non si metterà a urlare con te.
– Glielo spiego io, – dice Tessa. – E Charles non urla, con me. Non gli conviene.
Sorride, soddisfatta di aver disinnescato la minaccia contro l’elettricista. Destin aveva minacciato di licenziarlo e rovinargli la reputazione, dicendo a tutta la gente che conta che la sua è una ditta patetica, incapace di rispettare un programma. Gli aveva urlato che sarebbe stato costretto ad abbandonare la California, se avesse voluto lavorare ancora. Destin minaccia nello stesso modo ogni dipendente dell’hotel. Lo fa ogni volta che viene a fare una visita. Ora è nella sua limousine, di ritorno in città, probabilmente al telefono con qualche socio d’affari (crede di avere degli amici, ma non è cosí), a cui racconta come spaventare i dipendenti serva a farli diventare piú produttivi. Ci sono apprendisti elettricisti nelle stanze 921, 525, 511 e 301, e Destin ha urlato contro ognuno di loro. Quindi Tessa va a trovarli uno per uno con il suo sorriso professionale ma anche complice. Li chiama per nome e sembra insultare Charles Destin senza farlo davvero. Arriva persino a mostrare un po’ di ginocchio quando l’apprendista nella stanza 301 si lamenta di aver perso il walkie-talkie, oltre a tutto il resto. Tessa gli racconta di quando ha perso una scarpa a un concerto, ai tempi dell’università, ed è dovuta uscire dal parco saltellando su un piede solo come un’idiota, per andare a comprarsi un paio di ciabatte da Walgreens. Quando risale in ascensore l’elettricista sta ancora ridendo. Il terzo piano scompare e Tessa guarda l’orologio.
L’Assassino è nella stanza 717, seduto sul bordo del letto a due piazze. Alla cintura tiene un walkie-talkie da cui esce una scarica di statica e poi una voce: «Bene, ragazzi, avete sentito la signora. Si va a casa. Prima di uscire controllate di non aver lasciato sporcizia sulla moquette. Ci vediamo fuori tra venti minuti».
L’Assassino si volta verso la radiosveglia sul comodino in ciliegio. È difficile capire dove guarda, perché ha una maschera. La stessa maschera della serie di film su Halloween, quelli con Jamie Lee Curtis. Indossa una tuta blu da lavoro. È un uomo imponente e (si intuisce anche senza averne fatto l’esperienza diretta) di una forza incredibile.
Al secondo piano, Tessa non esce dall’ascensore. Quando si aprono le porte, dalla stanza di servizio proviene il rumore di qualcuno che tira su con il naso. Tra gli scaffali, Delores, la responsabile del reparto pulizie, conta i rotoli di carta igienica e piange. Tessa si ferma a metà del passo, con un’espressione incerta, compassionevole e infine decisa. Ritira dentro il piede destro e preme il bottone per scendere nell’atrio. Delores le piace, ma si commuove davanti agli spot di cibo per gatti, ai pasticcini fatti in casa, piange se si rovescia un po’ di detersivo e la lista è infinita. E naturalmente, dopo una delle tirate piene di parolacce di Charles Destin, è inconsolabile per almeno un’ora e mezza.
Tessa non piange mai. Non si permette neppure di sembrare esausta, almeno, non davanti alla gente. Quando è sola, o pensa di esserlo, l’aria esausta ce l’ha eccome.
Si appoggia alla parete dell’ascensore e batte la testa contro il vetro. Una, due, tre volte, mentre l’atrio emerge intorno a lei. Al mattino, il sole trasforma l’ascensore in un prisma, quando arriva al pianterreno, ma ora è tardi. Tessa scuote la testa guardando il lampadario a bracci, un pezzo d’arte moderna con portalampade bianchi a forma di pigne, costato sette milioni di dollari. Anche se fosse acceso, a quell’ora del pomeriggio non toglierebbe all’atrio, che sfoggia finestre rivolte a est, lunghe e impressionanti come quelle rivolte a ovest della sala da ballo, l’aspetto di una immensa cripta, con i banconi bianchi, i divani bianchi e i pavimenti in marmo bianco. Tessa vive in un appartamentino a Anaheim. Nella parte migliore della cittadina, ma comunque a Anaheim. La moquette è di quelle adatte per interni ed esterni, e dei quattro fuochi della stufa ne funzionano soltanto tre, ma la cifra dei suoi risparmi ha superato le sei cifre già da molto tempo.
L’ascensore rallenta ancora, prep...