La prima cosa di cui prendo coscienza è il gusto del sale. Mi riempie la bocca. Invasivo. Pervasivo. Mi domina completamente, soffocando tutti gli altri sensi. Finché non mi coglie il freddo. Mi culla fra le braccia, mi stringe. Tanto forte che mi sembra di non riuscire a muovermi. Solo a tremare. Un tremito rabbioso, incontrollabile. E in chissà quale angolo della mente so che è un bene. Il mio corpo sta cercando di generare calore. Se non tremassi, sarei morto.
Passa quella che pare un’eternità prima che sia in grado di aprire gli occhi, e quando lo faccio la luce mi acceca. Un dolore bruciante alla testa, le pupille che si contraggono rapide per mettere a fuoco uno strano mondo. Sono sdraiato a faccia in giú, sabbia bagnata sulle labbra, nelle narici. Batto con furia le palpebre per spremere lacrime che mi ripuliscano gli occhi. E poi non vedo altro. Sabbia, una distesa di sabbia che si prolunga fino a un orizzonte velato. Sabbia a onde sottili, di un pallido platino. Quasi bianco.
E prendo coscienza anche del vento. Che mi tira i vestiti, che spinge infiniti granelli di sabbia – una garza impalpabile, un sussurro – per tutta la spiaggia, creando correnti e mulinelli come d’acqua.
Il mio corpo sembra non provare quasi nulla quando mi sollevo a fatica sulle ginocchia, i muscoli riattivati dalla memoria piú che dalla volontà. E subito il mio stomaco si svuota sulla sabbia. Il mare che lo riempiva mi brucia amarissimo in bocca e in gola mentre mi abbandona. La testa mi pende fra le spalle, sorrette da braccia tremanti, e vedo l’arancione fosforescente del giubbotto di salvataggio che deve avermi salvato.
È in questo istante che sento il mare per la prima volta, sopra il vento, scisso dal rumore che mi infuria nella testa, dall’acufene orribile che sommerge il resto.
Come, lo sa il cielo, ma eccomi in piedi su due gambe malferme, con i jeans, le scarpe da ginnastica e il golf sotto il giubbotto di salvataggio pesanti di mare, pesanti addosso. Mi fremono i polmoni quando cerco di controllare il respiro, e intorno a me vedo colline lontane, oltre la spiaggia e le dune, rocce grigie e viola e marroni che sbucano dalla pelle del terreno sottile, torboso, ancorato ai pendii.
Dietro di me il mare si ritira, acqua bassa di un intenso blu-verdastro, si allontana per acri e acri di sabbia verso le forme scure e distanti delle montagne che si protendono verso un cielo pesto e meditabondo. Un cielo squarciato da schegge di sole che cadono abbaglianti sull’oceano e screziano le colline. Fugaci apparizioni di blu marino, stupefacenti e irreali.
Non ho idea di che posto sia questo. E per la prima volta da quando ho ripreso conoscenza mi accorgo, con una fitta improvvisa, acuta e dolorosa d’ansia, di non sapere assolutamente chi sono.
Una constatazione che mi mozza il fiato e scaccia tutto il resto. Il freddo, il sapore di sale, l’acido che ancora brucia e risale dallo stomaco. Come posso non sapere chi sono? È solo un momento di confusione, giusto? Ma piú sto qui, con il vento che mi fischia nelle orecchie e un tremito incontrollabile addosso e la coscienza del dolore e del freddo e del terrore, piú mi rendo conto che l’unico senso che manca ancora all’appello è il senso di me. Come se abitassi il corpo di un estraneo: come se fossi stato gettato, cieco e ignorante, sulla riva di un mare inesplorato.
E percepisco anche qualcosa di oscuro. Nessun ricordo, nessuna reminiscenza, ma la consapevolezza di una tale atrocità che non vorrei ritrovarne la memoria neanche se potessi. Un’atrocità offuscata da… che cosa? Paura? Colpa? Mi sforzo di concentrarmi.
In lontananza, sulla mia sinistra, vedo un cottage quasi lambito dall’acqua. Alle sue spalle, un ruscello marrone di torba dilava giú dalle colline, tagliando un sentiero che serpeggia nella sabbia fina. Da un pendio verde e curato spuntano alcune lapidi, sparpagliate alla rinfusa dietro una recinzione di filo spinato e un alto muro di pietra. Fantasmi secolari che dal silenzio dell’eternità mi guardano incespicare, coi piedi che affondano fino alle caviglie nella sabbia soffice. Molto piú in là, sulla mia destra, in fondo e poco sopra la spiaggia, accanto a una roulotte, vedo una sagoma in controluce, ritta nel sole che si riversa dai colli. Troppo lontana per distinguerne il sesso, le dimensioni o le forme. Le mani risalgono fino a un volto pallido, i gomiti si sollevano, e mi rendo conto che lui o lei si è portato o portata un binocolo agli occhi curiosi e mi sta osservando. Per un attimo ho la tentazione di chiamare aiuto, ma so che, anche se ne avessi la forza, la mia voce sarebbe trascinata via dal vento.
Per cui mi concentro invece sul sentiero tortuoso che si snoda fra le dune fino al nastro scuro della strada a corsia unica che profila la spiaggia e serpeggia poi oltre il promontorio.
Ci vuole un enorme sforzo di volontà per arrancare nella sabbia e nello sparto pungente che avvolge le dune, per incespicare lungo il sentiero stretto che ci passa in mezzo e sale verso la strada. Momentaneamente al riparo dal vento ininterrotto, battente, alzo la testa e vedo una donna venirmi incontro.
È anziana. Capelli grigio acciaio ravviati in onde che lasciano scoperto un viso ossuto, pelle lucida e tiratissima su tratti marcati. Indossa un parka con il cappuccio abbassato e pantaloni neri che si raccolgono su un paio di scarpe da ginnastica rosa. Un cagnetto minuscolo abbaia e le saltella intorno ai piedi, le zampine impegnatissime a starle dietro, a tenere il passo della padrona e delle sue falcate piú ampie.
Quando mi vede la donna si ferma di colpo, e mi accorgo dalla sua espressione che è scioccata. E mi viene il panico, sostituito quasi subito dalla paura di ciò che si cela dietro il velo nero di questa storia dimenticata. Mentre la donna si avvicina, ora di fretta, in ansia, mi domando che cosa potrò dirle visto che non ho coscienza di chi o dove sono, né di come sono arrivato fin qui. Ma lei mi risparmia la ricerca delle parole giuste.
– O mio Dio, signor Maclean, che diavolo le è successo?
Per cui ecco chi sono. Maclean. Questa donna mi conosce. Mi pervade un momentaneo sollievo. Ma niente ritorna. E sento la mia voce per la prima volta, sottile e roca e pressoché impercettibile anche per me. – Ho avuto un incidente con la barca –. Le parole non fanno in tempo a uscirmi di bocca che mi ritrovo a domandarmi se ce l’ho, una barca. Lei però non si dimostra assolutamente sorpresa.
Mi prende per un braccio e mi guida in strada. – Per l’amor del cielo, amico mio, si buscherà un malanno. La accompagno al cottage –. Il suo cagnetto continua ad abbaiare e mi fa inciampare, mi corre tra i piedi, mi salta intorno alle gambe. La donna gli caccia un urlo e lui non la degna della minima attenzione. La sento blaterare, parole che ruzzolano fuori dalla sua bocca, ma ho perso la concentrazione; potrebbe parlare in russo, per quel che capisco.
Superiamo il cancello del cimitero, e da questa posizione leggermente elevata ho il panorama della spiaggia dove la marea montante mi ha trascinato. È smisurata, dita arricciate e poco profonde di acqua turchese incuneate fra banchi d’argento che curvano verso le silhouette ondulate delle colline meridionali. Il cielo ha piú squarci adesso, la luce è brillante e nitida, nuvole dipinte sul blu a pennellate tese di bianco e grigio e peltro che sfrecciano nel vento e gettano ombre in corsa sulla sabbia in basso.
Oltre il cimitero, ci fermiamo dove il nastro di asfalto scende fra pali da recinzione tutti storti, supera una griglia di contenimento per il bestiame e arriva a un cottage a un piano che si erge orgoglioso fra le dune e si affaccia sul terreno sabbioso. Un pannello di legno sagomato e levigato, fissato tra due pali, porta il nome «Dune Cottage» scritto in lettere nere impresse a fuoco.
– Vuole che entri con lei? – sento dire alla donna.
– No, sto bene, grazie mille –. Ma so di non star bene per niente. Il freddo è cosí intenso dentro di me che se smettessi di tremare potrei cadere in un sonno da cui forse non mi risveglierei mai. Scendo a passi barcollanti verso il sentiero, consapevole di avere lo sguardo della donna addosso per l’intero tragitto. Io non mi volto indietro. Al di là del cancello in tubolare di una fattoria, si diparte un sentiero che porta a un capanno agricolo; in fondo al vialetto, su una base di cemento, sorge un capanno da giardino che fronteggia la porta ritagliata nel muro timpanato del cottage.
Un pony bianco delle Highlands che bruca l’erba fina al di là della recinzione solleva la testa e anche lui, curioso, mi guarda frugare nelle tasche bagnate alla ricerca delle chiavi. Se questo cottage è mio avrò di sicuro le chiavi, no? Ma non ne trovo neppure mezza, per cui provo ad abbassare la maniglia. La porta non è chiusa, e non faccio in tempo ad aprirla che vengo quasi buttato a terra da un Labrador cioccolato che abbaia e soffia eccitatissimo, con gli occhi spalancati e sorridenti, le zampe appoggiate sul mio petto e la lingua che mi sferza la faccia.
Poi schizza via, e ha già oltrepassato il cancello, è già corso a tutta birra fra le dune. Lo chiamo. – Bran! Bran! – Sento la mia voce come se fosse di un’altra persona, e realizzo con una improvvisa fitta di speranza che so come si chiama il mio cane. Forse il ricordo di tutto il resto non è che a un sussurro da me.
Bran ignora i miei richiami, e in pochi istanti lo perdo di vista. Chissà quante ore sono stato via, e per quanto tempo lui è rimasto tappato in casa. Lancio un’occhiata al vialetto alle mie spalle, allo spiazzo asfaltato per fare manovra dietro la casa, e noto che non ci sono macchine, cosa strana in un posto isolato come questo.
Un’ondata di nausea mi travolge, ricordandomi una volta di piú che devo far risalire in fretta la temperatura corporea e togliermi di dosso questi vestiti il prima possibile.
Inciampando nei miei passi, entro in una sorta di incrocio fra un ripostiglio e una lavanderia. Lavatrice e asciugatrice sono sistemate sotto la finestra, poi ci sono un banco di lavoro e la caldaia, che ronza piano dentro il suo alloggiamento. Una panca di legno è addossata alla parete sulla mia sinistra; sopra c’è una fila di cappotti, impermeabili e giacche varie, sotto scarponi da trekking e stivali di gomma. Il pavimento è sporco di fango secco. Scalcio via le scarpe che ho ai piedi e mi strappo di dosso il giubbotto di salvataggio prima di trascinarmi sulle gambe malferme fino in cucina, sostenendomi allo stipite per spingere la porta.
Non esiste sensazione piú strana che entrare in una casa sapendo che è la tua e, contemporaneamente, non vedervi nulla di familiare. La serie di banconi e armadietti sulla mia sinistra. Il lavandino e il piano di cottura. Il forno a microonde e quello elettrico. Sul lato opposto, sotto una finestra che affaccia sul panorama della spiaggia, c’è il tavolo. È ingombro di giornali e vecchia posta. Un laptop è aperto ma spento. Tra quelle cose troverò di sicuro qualche indizio sulla mia identità. Ma ci sono questioni piú urgenti.
Riempio il bollitore e lo accendo, dopodiché passo sotto un arco ed entro in salotto. Una portafinestra si apre su una veranda di legno, completa di tavolo e sedie. La vista è mozzafiato. Un oblò sul muro opposto guarda verso il cimitero. Nell’angolo, una stufa a legna. Intorno a un tavolino di vetro si raccolgono due divani di pelle a due posti. Una porta dà su un corridoio che segue l’intera lunghezza del cottage, disegnandone la spina dorsale. A destra, un’altra porta conduce in un’ampia camera da letto. Il letto è sfatto, e quando barcollo fin dentro la stanza vedo alcuni indumenti impilati su una sedia. Miei, presumo. Un’altra porta ancora: è quella del bagno, e so cosa fare.
Con le dita che annaspano, in qualche modo mi tolgo i vestiti bagnati, abbandonandoli a terra man mano che cadono. E con le gambe che cedono, mi trascino nella doccia.
L’acqua diventa bollente molto in fretta, e quando mi ci infilo sotto quasi collasso per il calore che mi si riversa a cascata sul corpo. A braccia tese, coi palmi aperti contro le piastrelle, mi tengo in piedi e chiudo gli occhi. Sono troppo debole per fare qualsiasi altra cosa che non sia stare cosí, sotto l’acqua che mi s’infrange in testa finché non ne sento il tepore cominciare lentissimamente a filtrarmi nell’anima.
Non ho idea di quanto rimango qui, ma insieme al caldo e alla cessazione dei brividi torna la stessa nube nera di preoccupazione che mi avvolgeva in spiaggia. Il sentore che ci sia qualcosa di indicibile, oltre la memoria e la possibilità di recuperarla. E la piena, deprimente comprensione che non ho ancora la minima idea di chi sono. Né, ed è imbarazzante, di che aspetto ho.
Esco dalla doccia per sfregarmi a fondo con un grande asciugamano soffice. Lo specchio sopra il lavandino è appannato, e cosí non sono che una chiazza rosa e indistinta quando mi piego a dare una sbirciata. Scivolo in un accappatoio di spugna che era appeso alla porta e a passi felpati torno in camera da letto. Fa caldo in casa, manca l’aria. Il pavimento è tiepido sotto i miei piedi. E a mano a mano che il tepore si diffonde in tutto il corpo, inizio a percepire ogni fastidio e dolore. Mi fanno male i muscoli di braccia, gambe e busto. In cucina cerco del caffè, trovo un barattolo di istantaneo. Ne svuoto un cucchiaino in una tazza e ci verso sopra l’acqua scaldata dal bollitore. Vedo un altro barattolo, lo zucchero; non ho idea se lo metto nel caffè. Ne bevo un sorso. È nero, fumante, e rischio di scottarmi le labbra. Niente zucchero, credo. È buonissimo cosí.
Quasi con trepidazione, mi porto la tazza in camera e la poso sul comò, poi sguscio fuori dall’accappatoio e mi piazzo davanti allo specchio a figura intera dentro l’anta dell’armadio. Vedo il riflesso argentato di un estraneo fissarmi.
Non saprei nemmeno da dove cominciare a descrivere il senso di dissociazione che si prova a guardarsi senza riconoscersi. Come se si fosse di un posto diverso dal corpo alieno che si occupa. Come se quel corpo fosse soltanto in prestito, o in prestito a quel corpo fossi tu, e nessuno dei due appartenesse all’altro.
Niente del mio corpo mi è familiare. Ho i capelli scuri, non proprio lunghi ma mossi, con boccoli bagnati che mi ricadono sulla fronte. Quello che mi prende le misure coi suoi occhi azzurro ghiaccio è un bell’uomo, direi, sempre che io possa essere del tutto oggettivo. Zigomi piuttosto alti, mento con la fossetta. Labbra pallide ma abbastanza piene. Tento un sorriso, e invece mi esce una smorfia priva di ogni umorismo. Si rivelano denti bianchi, sani e robusti: li ho fatti sbiancare? E questo significherebbe che sono vanitoso? Da chissà dove, inaspettato, spunta il ricordo di qualcuno che conosco e beve un caffè con la cannuccia, per non macchiarsi i denti candidi e scintillanti, resi porosi dal processo di sbiancamento. O forse non si tratta di qualcuno che conosco, forse è solo una cosa che ho letto da qualche parte. O visto in un film.
Sembro magro e in forma, con appena un accenno di maniglie dell’amore. Il mio pene è flaccido e piccolissimo – solo rattrappito dal freddo, mi auguro. E mi ritrovo a sorridere, stavolta per davvero. Quindi sí, sono vanitoso. O poco sicuro della mia virilità. Che bizzarria non conoscerti, dover indovinare chi sei. Non come ti chiami o che faccia hai, ma qual è il tuo io piú profondo. Sono intelligente o stupido? Mi infiammo per un nonnulla? Mi ingelosisco facilmente? Sono generoso o egoista? Come faccio a non sapere queste cose?
Quanto all’età… per l’amor del cielo, quanti anni ho? Difficilissimo dirlo. Vedo una spruzzata di grigio sulle tempie, qualche sottile zampa di gallina intorno agli occhi. Trentacinque? Quaranta?
Noto una cicatrice sull’avambraccio sinistro. Non recente, ma pronunciata sí. Una vecchia ferita. Un incidente. Ho un’escoriazione all’attaccatura dei capelli, del sangue che cola piano fra i boccoli neri. E vedo anche, su mani e braccia, svariati piccoli bozzi, rossi e gonfi, con al centro una crosticina. Morsi di qualche tipo? Però non fanno male e non prudono.
Mi riscuoto dalla mia autovalutazione quando sento abbaiare dietro la porta. Bran è tornato dal suo giretto fra le dune. Mi metto l’accappatoio e vado ad aprirgli. Lui mi salta intorno tutto eccitato, premendosi contro le mie gambe e ficcandomi il muso tra le mani, in cerca di coccole e rassicurazioni. E mi rendo conto che deve avere fame. Nel ripostiglio-lavanderia c’è una ciotola d’alluminio che riempio d’acqua, e mentre lui la slappa assetato io cerco del cibo per cani e alla fine lo trovo nell’armadietto sotto il lavandino. Un sacco di croccantini color ocra e un’altra ciotola. Il rumore familiare dei croccantini che ci rotolano dentro attira Bran in cucina, narici frementi e acquolina in bocca, e io faccio un passo indietro per osservarlo mentre divora la pappa.
Il mio cane, almeno, mi conosce. Il mio odore, il suono della mia voce, le espressioni del mio viso. Ma da quanto? Sembra giovane. Due anni, se non meno. Perciò non è con me da molto tempo. Anche se sapesse parlare, che cosa potrebbe dirmi di me, della mia storia, ...