Fra terra e mare
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Fra terra e mare

Racconti

  1. 304 pagine
  2. Italian
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Fra terra e mare

Racconti

Informazioni su questo libro

Già tradotti da Piero Jahier nel 1946 con il titolo Racconti di mare e di costa, i tre racconti di Twixt Land and Sea sono un libro molto importante per Conrad. A dispetto del fatto che l'autore nella nota introduttiva scriva di averli accostati fra loro quasi casualmente, con un criterio unicamente geografico (Oceano Indiano), questi racconti sono in realtà orchestrati minuziosamente e svelano il loro senso riposto proprio nella struttura e nella progressione che li lega. Nella sua prefazione, Giuseppe Sertoli ci conduce in questo groppo di tracce autobiografiche, reticenze, citazioni e immagini simboliche facendoci apprezzare tutta la forza letteraria di questo libro, ma anche rivelandoci il suo «segreto»: quel motivo dell'omosessualità maschile che costituisce il fil rouge dei tre racconti. L'ipotesi che voglio qui avanzare è che proprio la sequenza dei tre racconti generi un senso - un supplemento di senso - che non solo diverge da quello consapevolmente intenzionato da Conrad, ma va oltre quello che la critica più recente (e smaliziata) ha individuato in ognuno di essi preso singolarmente. Tale supplemento di senso ha a che fare col problema dell'identità sessuale dei protagonisti dei tre racconti. Un tema, questo dell'identità sessuale dei personaggi maschili, che fin dagli esordi circola sotto traccia nella narrativa conradiana e viene in superficie - nella misura in cui poteva venire in superficie - solo intorno al 1910, a partire da Fra terra e mare per continuare in Il caso (1913), Vittoria (1915) e La freccia d'oro (1919). Quasi che a un certo punto Conrad avesse trovato il coraggio di cimentarsi, sia pure frammezzo a enormi resistenze e reticenze, con qualcosa - una "parte" di sé, secondo alcuni interpreti - che fino a quel momento aveva preferito scansare lasciandola nell'ombra.
dalla prefazione di Giuseppe Sertoli

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806223120
eBook ISBN
9788858424278

Un sorriso della sorte

Storia di porto
Il sole si era levato all’orizzonte da non piú di mezz’ora; ero appena sceso sottocoperta dopo aver trascorso gran parte della notte sul ponte, ma ancor prima di avere il tempo di accomodare le gambe doloranti sul divano, una voce metallica riempí misteriosamente la cabina come un ronzio portandomi la lieta notizia:
– Terra in vista, signore.
Era la voce del signor Charles Burns, il primo ufficiale, che mi parlava dalla poppa con la faccia sepolta nel condotto di ventilazione.
– Da che parte? – gridai saltando in piedi all’improvviso.
– Dritto di prua. Leggermente a sinistra.
La mia esclamazione di gioia «Ottimo, signor Burns» fu accolta da una risatina sinistra, poco gradevole, e da un gracchiare confuso «Ehm, sí» che risuonò nella stanza come se provenisse da uno spettro con la raucedine.
Non che il signor Burns fosse una persona cattiva. Se fosse stato tale, non l’avrei tenuto con me per piú di un viaggio. Ormai lavoravamo assieme da piú di due anni. Una bella fetta di vita, per come va la vita in mare. Può darsi che mi fosse devoto, ma di questo non sono certo nemmeno oggi. Il sentimentalismo è molto bello e non vorrei denigrarne il valore. Il grande pregio del signor Burns, però, era l’efficienza. Valeva assai piú della sua devozione al dovere e ben piú di uno scrigno di rubini1.
Il nostro primo incontro era stato insolito. Quando assunsi il comando della nave (in un porto orientale), non lo trovai a bordo. Era a terra, colpito da una brutta febbre, ricoverato in un tetro, piccolo ospedale in una tetra, piccola zona sovraffollata. Naturalmente, andai a vedere come stava non appena le mie incombenze me lo permisero. Scorgendo un perfetto estraneo al suo capezzale, capí che non poteva essere altri che il nuovo capitano; e le primissime parole che mi disse, tendendo a fatica la mano febbricitante, furono: «Per amor del cielo, non mi lasciate morire in questa topaia». Il nostro bravo medico consolare rimase sconvolto alla sola idea di spostarlo.
La richiesta era chiaramente assurda. Ma avreste dovuto udire il tono! Ne ero ossessionato. La sua incrollabile convinzione che se l’avessi lasciato lí sarebbe morto aveva una forza irresistibile. Le sue suppliche disperate mi indussero a prendermi la responsabilità di dirgli: «Molto bene. Vi prometto che salperete con noi». A quel punto perse i sensi, quasi stesse per spirare. Davvero incoraggiante! Il medico consolare si infuriò a tal punto da scrivermi una formale lettera di protesta dai toni estremamente duri. Era un brav’uomo, però, e infatti alla fine fu lui stesso a sovrintendere allo spostamento che aveva disapprovato con tanta forza. Lo fece con una sollecitudine cupa, silenziosa, di tipo particolarmente risoluto. Quasi non mi strinse la mano quando ci separammo.
Il signor Burns si dimostrò un invalido maledettamente irritabile. E col passare del tempo si rivelò il piú irascibile dei convalescenti. Non me ne preoccupai piú di tanto. Per molti giorni il poveretto fu quasi troppo debole per parlare. Giaceva sulla mia sdraio, che era stata fissata alla battagliola2, avvolto nelle mie coperte, spettrale come se fosse risorto dagli inferi, tenendo d’occhio ciò che avveniva intorno a lui e la conduzione della traversata e visibilmente disapprovando, dentro di sé, un modo di procedere sul quale non poteva intervenire. L’ultima preoccupazione che mi diede fu quando insistette con caparbia ostinazione a tornare in servizio prima di essersi rimesso completamente in salute. Un pomeriggio nuvoloso salí sul ponte avvolgendosi con mani tremanti una sciarpa di lana intorno al collo, cosí deciso a ricominciare a occuparsi della nave che potei solo mordermi il labbro e voltargli le spalle. In effetti, a meno di mettere ai ferri il mio convalescente (o di ricorrere a qualche violento atto d’autorità), non sapevo che cosa avrei potuto fare. Metterlo ai ferri dopo sei settimane di cure scrupolose era però un rimedio troppo comico per prenderlo in considerazione anche solo per un momento.
Tutto ciò avrebbe potuto essere l’effetto della sua devozione; ma con il passare del tempo scoprii che il signor Burns si era in qualche modo persuaso che, come comandante e come uomo, io avessi lo svantaggio di essere perlopiú sfortunato, il difetto di essere avventato, e la stupidità di essere troppo buono.
Come, perché e da dove avesse tratto questa convinzione, solo il cielo lo sa. Magari era il retaggio dei giorni penosi della convalescenza. A ogni modo quella convinzione c’era, e non gli occorreva nemmeno esprimerla in tante parole. Da parte mia, dopo averlo conteso pollice a pollice alla Pallida Morte, non ero certo disposto a rinunciare a lui e alla sua efficienza. Sarebbe stato ridicolo, pensavo, forse persino un segno di debolezza. Talvolta le sue idiosincrasie addirittura mi divertivano.
Indugiando un momento nella cabina, lo udii muoversi di sopra. I suoi passi irregolari, che ora rallentavano ora si affrettavano, talvolta si fermavano per poi ricominciare all’improvviso, interpretavano, riflettevano il suo temperamento.
Quando salii sul ponte, posò il binocolo sull’osteriggio3 e puntò innanzi a sé con il braccio teso sussurrando: – Eccola là, signore.
Poco dopo, non subito ma dopo che i miei occhi si furono abituati all’infinito scintillio di luce del mattino, distinsi la terra verso cui eravamo diretti da cosí tanti giorni – soltanto una vaga ombra azzurra tra il grande bagliore del mare azzurro e la volta del cielo, luminosa e azzurra.
Era un’isola ben nota, nota da secoli. I piú entusiasti tra i suoi abitanti adoravano chiamarla, con un’espressione pittoresca e trita, la Perla dell’Oceano Indiano. Proprio un bel nome. Chiamiamola anche noi «la Perla». Eccola là, indistinguibile dai vapori oscuri e misteriosi che talvolta si levano dal filo dell’orizzonte marino se non per il fatto che non cambiava posizione.
Una minuscola chiazza di foschia! Ma in mente ne avevo ben fissa la sagoma, a lungo contemplata sulla carta nautica. Era una perla di isola a forma di pera, una perla che stillava dolcezza sul mondo.
Questo è un modo fantasioso per dirvi che laggiú si coltiva una canna da zucchero di prima qualità. L’intera popolazione della Perla vive di canna e per la canna. Lo zucchero è il loro pane quotidiano: cibo dei loro pensieri, articolo della loro fede, alimento delle loro speranze, sostentamento della loro carità. E io stavo arrivando da loro per prenderne un carico nella speranza che il raccolto fosse stato buono e che i noli fossero vantaggiosi.
Proprio questa circostanza mi rovinò la soddisfazione che naturalmente prova un capitano al termine di una traversata. In genere gli affari ripugnano a un marinaio. La vita di mare non lo prepara a battagliare con le volpi del commercio. Far salpare una nave, farla navigare in sicurezza, farla attraccare «tutto bene» (secondo il codice dei segnali nautici), è certamente un aspetto dell’attività commerciale, ma è l’aspetto piú estraneo allo spirito del commercio. La vocazione alla vita di mare è qualcosa di essenzialmente spirituale. Chi la segue non è nato per le dispute e le contrattazioni del mercato.
Era precisamente quella prospettiva commerciale a interferire con la gioia che mi dava il diafano approdo che appariva davanti ai miei occhi come lo spirito di un’isola da sogno. Mi premeva far bene per dare soddisfazione ai miei armatori, per onorare la lusinghiera libertà d’azione concessami dalle loro istruzioni, sintetizzate in una sola nobile frase: «Confidiamo che farete del vostro meglio a vantaggio della nave» e in un’unica limitazione: «ma non dovrete spingervi oltre il Capo». Solo l’Atlantico queste parole escludevano, lasciandomi tuttavia due terzi del globo per mettere in mostra il mio talento mercantile. A confronto con la vastità del palcoscenico, le mie capacità mi parevano non piú grandi di una capocchia di spillo.
E mentre contemplavo, cercando di dimenticare quelle assai poco marinaresche preoccupazioni, la delicata, misteriosa visione che era sorta dal mare quasi fosse un’emanazione impalpabile, il corpo astrale di un’Isola, ecco che essa sbiadí e scomparve prima ancora che avessi il tempo di sbattere le palpebre tre volte di fila. Il signor Burns, che aveva distolto lo sguardo per osservare qualcosa in cima all’albero maestro, esclamò «Ma come!», aguzzò la vista facendosi ombra con la mano, e infine si rivolse a me con la sua solita aria assurda come se fosse stata colpa mia.
– Persa nella foschia, – sussurrai stupito, ammaliato.
– L’orizzonte sembra limpido come il cristallo, – bofonchiò lui in tono di rimprovero.
– Esatto! Ci si potrebbe giurare. Quella, signor Burns, è una delle meraviglie del mare. Ma vi assicuro che sono pochissime le persone che possono dire di aver visto quell’Isola da una distanza di settanta miglia, come l’abbiamo vista ora noi.
– Buon per noi, – fu la sua amabile risposta.
Non era da lui lasciarsi trasportare dalla bellezza di questo raro fenomeno, citato persino, con caratteristico stile prosaico, negli Avvisi ai Naviganti. Io ero lieto di averlo visto. E un po’ sul serio un po’ no mi chiesi se fosse un buon segno, se quello che mi sarebbe accaduto in quell’isola sarebbe stato altrettanto eccezionale e fortunato come questa straordinaria visione eterea che cosí pochi marinai impegnati in traffici mercantili avevano avuto il privilegio di ammirare.
Era pomeriggio inoltrato quando avvistammo di nuovo l’isola, stavolta in tutti i dettagli della sua erta costa rocciosa: dalle increspature verdi delle fertili alture giú fino alle scure rocce che degradavano nella bianca schiuma di un mare che stava diventando via via piú cupo. Una nube immobile, che si stagliava netta tra i pendii dei monti dell’entroterra, formava uno strato simile a un basso, sporco soffitto dall’aspetto rugginoso nella rossa luce del tramonto. Questo fianco grigiastro, misterioso e spoglio dell’isola che rifletteva il bagliore livido del crepuscolo, la nube che incombeva minacciosa, il mare violaceo – nulla avrebbe potuto apparire piú nefasto, inospitale e sinistro.
Era ormai troppo tardi per pensare di entrare in porto. Davvero una sfortuna! La promettente brezza del mattino mi aveva tradito; avrei dovuto ancorarmi al largo per la notte; con la grigia parete della costa alla mia sinistra e il sole che calava rosso alla mia destra, orzai rasentando un promontorio dopo l’altro e spingendo avanti la nave per sfruttare qualche minuto ancora di sole per l’ancoraggio, benché tutto ciò che sapessi era che il fondale non era buono e che le boe di segnalazione erano difficili a vedersi nell’oscurità.
Dalle gole che si aprivano nere nella parete rocciosa al di sopra delle nostre teste d’albero provenivano folate improvvise di vento che, infilandosi nel sartiame, tendevano le vele e facevano scricchiolare i pennoni con un rumore sordo che risuonava minaccioso. Ma non mi sarei lasciato intimidire da questi segni di turbolenza.
Il sole tramontò. Come pareva disabitata, e inabitabile, quella costa! Chi avrebbe mai pensato che a poche miglia da lí ci fosse una bella cittadina, un porto ben noto alle navi! L’unico segno di presenza umana era, verso sud, la cupola di un piccolo faro su palafitta, una macchiolina scura che da lontano pareva non piú grande di una cesta galleggiante sull’acqua. Il sole appena calato sembrava aver attizzato una favilla sotto quella cosa, una luce della dimensione di un mozzicone di sigaro nella vuota e cupa solitudine di quelle ombre grigie e violacee mosse da una fredda brezza.
Usando solo quel bagliore come guida, portai la nave sotto costa a ridosso delle ripide pareti rocciose. La spinsi tanto vicino alla scogliera che quasi mi spaventai. Lei ci mise un tempo infinito a perdere l’abbrivio. Ma alla fine ci riuscí. Feci segno al signor Burns, che mi guardava da prua, e nel silenzio assoluto della nave, nell’immensa quiete della costa, del mare, del mondo intero, udii in uno strano modo distaccato la mia voce pronunciare con calma le parole «Dare fondo». E quando l’àncora piombò giú, mi sembrò che un peso mi venisse tolto dal petto, un peso di cui non ero stato consapevole fino a quel momento di sollievo. Tirai un respiro profondo.
Seguí una notte inquieta e spiacevole. Le nuvole vorticavano fra i dirupi di porfido lasciando solo, di tanto in tanto, uno sprazzo di stelle. Il vento turbinava attorno alla nave e il fioco bagliore solitario del piccolo faro di latta stupiva per la sua costante pertinacia. Ci si sarebbe aspettati che si spegnesse al minimo soffio, e invece eccolo là, fermo e risoluto, a fianco della nave per cosí dire, senza nemmeno vacillare alle folate di vento.
Nel mio andirivieni fra la cabina e il ponte, giacché non riuscivo a dormire, incappai nel signor Burns, anche lui irrequieto in quella rada sconosciuta. Un eccellente primo ufficiale, vi assicuro.
Ascoltavamo il vento fare un baccano indiavolato tra l’alberatura nuda, con interludi di gemiti malinconici; e io osservai che eravamo stati fortunati a trovare un ancoraggio giusto in tempo. Sarebbe stata una brutta notte da passare al largo sottovela.
Ma lui fu irremovibile nella sua fissazione.
– Fortuna la chiamate, signore! E cosa sarebbe? Nel migliore dei casi, un genere negativo di fortuna. Se le cose fossero andate per il verso giusto, adesso saremmo comodamente ormeggiati in porto.
– Non possiamo essere sempre cosí fortunati. Io mi accontento di quello che c’è, – dissi sfoggiando una certa filosofia....

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Prefazione. Tre racconti e una storia segreta di Giuseppe Sertoli
  4. Nota bibliografica
  5. Nota del traduttore
  6. Fra terra e mare
  7. Nota dell’autore
  8. Un sorriso della sorte
  9. Il compagno segreto
  10. Freya delle Sette Isole
  11. Il libro
  12. L’autore
  13. Dello stesso autore
  14. Copyright