Benché iniziata nel dicembre 1987 come sollevazione popolare spontanea, ai primi di gennaio dell’anno successivo l’intifada era ormai diventata una rivolta vera e propria, orchestrata e organizzata. A dirigerla erano i leader locali, emersi soprattutto dalle file dei vari comitati e organismi che si erano sviluppati sotto l’occupazione e che, per molti aspetti, rappresentavano uno spaccato della società palestinese: alcuni erano laici e affiliati all’Olp, altri erano legati a gruppi islamisti1. È una delle ironie dell’occupazione che nel periodo precedente l’intifada l’esercito avesse permesso a quei gruppi di prosperare, perché riempivano in parte il divario tra i bisogni della popolazione e gli effettivi servizi che l’esercito era disposto a offrire. Questa rete di auto-aiuto, infatti, svolse un ruolo critico nel sostenere e fornire una leadership locale alla sollevazione.
L’Unlu.
I vari leader locali si riunirono nel Comando nazionale unitario della sollevazione (Unlu) e si incaricarono di dirigere la rivolta. La loro principale attività, all’inizio, fu di emettere comunicati e di istruire i compagni palestinesi riguardo a quando e dove andare e cosa fare. Il primo comunicato dell’Unlu, uscito il 10 gennaio 1988, chiamava i palestinesi «a scuotere l’oppressivo regime fino alle fondamenta»2. Incitava gli insorti a bloccare le strade per impedire all’esercito di muoversi liberamente e procedeva a istruirli: «Una pioggia di pietre dovrà cadere sulla testa dei soldati dell’occupazione». E gli attivisti avrebbero dovuto «far bruciare la terra sotto i piedi degli occupanti».
Un elemento interessante, e una delle caratteristiche principali dell’evolversi della sollevazione, fu l’indicazione dell’Unlu ai ribelli di astenersi dall’uso di armi da fuoco; anzi, uno sguardo ravvicinato ai volantini distribuiti nei primi diciotto mesi dell’insurrezione mostra che il 90 per cento di essi invitava a un approccio non violento, con soltanto il 4,9 per cento che invocava tattiche semiviolente come il lancio di Molotov contro i soldati3. La considerazione sottostante a tale strategia era di evitare di offrire all’esercito la scusa per dare sfogo a tutta la sua potenza; si calcola che non oltre il 5 per cento dell’attività palestinese durante la rivolta abbia fatto uso di armi da fuoco o di esplosivi.
Dovremmo ricordare che l’intifada palestinese ebbe luogo prima dell’èra di internet e dei social media, per cui i comunicati venivano copiati e distribuiti a mano, spesso da attivisti che li affiggevano intorno all’entrata delle moschee o in altri luoghi pubblici, appendendoli per esempio ai pali del telefono. Piú tardi, con l’esercito ormai sul punto di scoprire i leader dell’Unlu, questi ultimi avrebbero iniziato a trasmettere le proprie istruzioni per telefono, via fax o alla radio.
A Tunisi, comunque, Yasser Arafat e i suoi cominciavano a preoccuparsi del fatto che la sollevazione venisse gestita dagli attivisti locali, sui quali avevano scarso controllo, e temevano l’emergere di una nuova leadership che avrebbe reso irrilevante l’Olp tradizionalmente guidata da Arafat. Allo stesso tempo era evidente che la rivolta nata dal basso si stava dimostrando molto piú efficace degli attacchi armati contro Israele; il grande investimento di Arafat nella costruzione di una forza regolare, ben fornita di carri armati e artiglieria, con base nel lontano Iraq, in Sudan e nello Yemen, appariva decisamente stupido alla luce dei risultati ottenuti da bambini armati di sassi e fionde. A tal punto, per evitare di essere lasciato indietro insieme al resto della leadership dell’Olp in esilio, Arafat si impose sui leader locali: diversamente dai precedenti, il comunicato n. 3 dell’Unlu datato 18 gennaio 1988 e tutti quelli che seguirono recarono la firma «Organizzazione per la liberazione della Palestina - Comando nazionale unitario della sollevazione palestinese nei Territori occupati», affinché fosse chiaro che i leader dell’Unlu agivano per conto dell’Olp di Arafat.
La guerra che l’Unlu stava conducendo nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania era diretta non soltanto contro l’esercito, ma anche contro alcuni elementi della stessa popolazione palestinese, ossia coloro che venivano considerati collaborazionisti. Come si è visto, la collaborazione è una delle principali caratteristiche dell’occupazione israeliana – come in realtà di qualunque occupazione – e negli anni precedenti l’intifada gli israeliani avevano messo in piedi una rete di informatori palestinesi per poter contare su un servizio di intelligence. Alcuni collaboravano per denaro, o in cambio di un permesso di riunificazione familiare, una patente di guida, l’autorizzazione a scavare un pozzo o a costruire un fabbricato, mentre altri venivano obbligati a collaborare dopo che l’intelligence israeliana aveva raccolto informazioni sensibili su di essi e le usava per ricattarli. I collaboratori sono sempre stati temuti e odiati nella società palestinese. Khalid Amayreh, un giornalista palestinese di Dura, spiega: «I collaboratori sono stati un cancro per la coscienza collettiva del popolo palestinese. Sono il prodotto peggiore e piú diabolico dell’occupazione ed è impossibile sopravvalutare l’odio collettivo nei loro confronti»4. La ragione di ciò è che la presenza di collaboratori aumenta il sospetto e la divisione all’interno della società palestinese instillando la paura nei suoi membri. Come racconta uno di essi:
Sapevo degli informatori fin da molto piccolo. Tutti ne parlavano e la gente aveva anche paura a parlare di certe cose. C’era la sensazione che gli informatori fossero ovunque … che se dicevi qualcosa sarebbe arrivato agli israeliani e saresti stato punito per questo, arrestato5.
Ora l’Unlu decretava che collaborare con l’occupazione sarebbe stato giudicato tradimento contro il popolo palestinese e che chi fosse stato scoperto a farlo sarebbe stato punito severamente. Le cifre mostrano che tra l’inizio del 1988 e la metà del 1989 vennero uccisi piú di quaranta collaboratori palestinesi, alcuni dalla folla e altri da esecutori designati. Molti furono ammazzati per errore, o per motivi personali piú che politici. Come spiega Hussein ‘Awwad, un attivista palestinese della zona di Khan Yunis nella Striscia di Gaza: «Non ogni palestinese ucciso da palestinesi dall’inizio dell’intifada era un collaboratore. Alcuni furono eliminati per motivi personali. In qualche caso vennero compiuti anche errori nelle eliminazioni»6.
L’esercito reagisce.
Dopo l’iniziale apatia, l’esercito gradualmente recuperò la presa sulla situazione e in gennaio cominciò a mettere in atto alcune misure per reprimere la sollevazione. Un ruolo di primo piano venne svolto dall’innovazione, in particolare nella progettazione di nuove armi, dal momento che era ormai evidente che l’esercito non poteva assolutamente usare il suo sofisticato arsenale contro i civili, guidati da donne e bambini. Cosí la sfida divenne quella di bilanciare la necessità di abbassare il livello delle armi con quella di mantenersi comunque qualche passo avanti ai ribelli. Ciò portò allo sviluppo di «armi» quali macchine lanciasassi per contrattaccare i giovani lanciatori di pietre e di veicoli attrezzati a sparare contro la folla proiettili fatti di palline di gomma dura e piccole cariche esplosive7. Poiché inoltre i funerali dei palestinesi uccisi finivano sempre per diventare il punto focale delle dimostrazioni, spesso l’esercito tratteneva i corpi rilasciandoli solo a tarda notte perché fossero seppelliti. Tuttavia, nella battaglia del gatto col topo tra esercito e palestinesi, questi, come ha raccontato un leader dell’intifada, «rapivano il corpo dall’ospedale e lo seppellivano, trasformando la sepoltura … in una dimostrazione»8.
Come avevano fatto i francesi negli anni Cinquanta ad Algeri, e come Gillo Pontecorvo ha colto nel suo classico film del 1967 La battaglia di Algeri, l’esercito israeliano tentò di indebolire i leader della rivolta nei Territori occupati. Vennero diffusi falsi comunicati, a imitazione di quelli dell’Unlu, allo scopo di seminare confusione tra l’opinione pubblica mentre si dava la caccia ai capi della sollevazione. I vari comitati popolari e i gruppi di auto-aiuto, che sfornavano quadri di medio e basso livello e agivano come commandi sul campo per organizzare le dimostrazioni, vennero messi pubblicamente al bando dall’esercito e farne parte iniziò a essere considerato un reato criminale.
Con il loro approccio metodico e le superiori risorse, l’esercito e i servizi di sicurezza israeliani, coadiuvati dagli informatori palestinesi, strinsero pian piano le maglie intorno ai capi dell’Unlu, la maggior parte dei quali alla fine fu scovata e imprigionata o rimossa fisicamente dai Territori occupati. In realtà quest’ultimo sistema – la deportazione dei leader palestinesi – era stato usato dall’esercito fin dai primi giorni dell’occupazione e se nel periodo immediatamente successivo al 1967 le deportazioni erano state sempre dirette verso Israele, piú tardi i resistenti sarebbero stati trasferiti in Giordania. Ora, tuttavia, l’esercito confinò i leader dell’intifada nel Libano meridionale, che era ancora sotto occupazione israeliana, e li abbandonò lí da soli; i dati mostrano che soltanto nel 1988 l’esercito deportò piú di cinquanta attivisti palestinesi. Sul campo, comunque, questi metodi drastici esercitarono scarso effetto, perché emersero velocemente nuovi leader che andarono a sostituire i capi deportati o imprigionati.
Uno dei metodi piú efficaci usati dai militari per reprimere l’insurrezione fu il coprifuoco. I coprifuoco, considerati punizioni collettive dal diritto internazionale, sono proibiti; l’articolo 33 della Quarta Convenzione di Ginevra è molto chiaro nello stabilire che «nessuna persona protetta può essere punita per un’infrazione che non ha commesso personalmente. Le pene collettive, come pure qualsiasi misura d’intimidazione … sono vietate». L’esercito, tuttavia, impiegò questo sistema ugualmente. I dati mostrano che nel 1988 furono emessi nei Territori occupati non meno di 1600 ordini di coprifuoco, di cui 118 di cinque giorni o piú; in diverse occasioni l’intera popolazione palestinese in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza fu posta sotto coprifuoco. Durante questi provvedimenti i palestinesi venivano confinati nelle loro case, costretti anche a stare lontani dalle finestre e dai balconi, e chiunque violasse il divieto spesso veniva ucciso. Con i palestinesi confinati in casa, l’esercito poteva muoversi liberamente, andare a prelevare i sospetti, il piú delle volte imprigionarli e, in generale, dimostrare ai palestinesi il prezzo che pagavano per la loro resistenza all’occupazione. Per i palestinesi che li subiscono, soprattutto le famiglie con bambini, i periodi di coprifuoco sono sempre stati un incubo. Ghazi Bani Odeh, un giornalista palestinese, spiegava: «[Con i coprifuoco] la nostra vita … è diventata un inferno. Non abbiamo contatti con i nostri vicini. Non vediamo, sentiamo o parliamo con nessuno»9. E come ha ricordato un altro profugo palestinese di Khan Yunis, nella Striscia di Gaza: «I soldati arrivavano rombando nei loro carri armati … e l’intera casa si scuoteva come una foglia. Annunciavano il coprifuoco nelle prime ore del mattino, sempre con le parole piú volgari: “voi figli di…” e “vostra madre è…”»10.
Per rendere difficile ai palestinesi organizzare dimostrazioni l’esercito chiudeva anche le scuole; questo, tuttavia, condusse alla nascita di «scuole popolari» palestinesi dove le lezioni venivano gestite dalla comunità. Ricordando i propri giorni di scuola a Ramallah durante l’intifada, la palestinese Diana Wahbe racconta:
Andavamo a casa di un insegnante del quartiere e trascorrevamo la giornata studiando storia, arabo, geografia, matematica e letteratura con altri ragazzi della zona. Eravamo uno strano insieme di ragazzi da scuola privata e scuola pubblica e usavamo vecchi libri che leggevamo a diversi livelli, risolvevamo i problemi in modo diverso e amavamo con entusiasmo i nostri nuovi insegnanti e compagni. A volte il maestro veniva arrestato perché teneva scuola in questo modo e dovevamo trovarcene un altro o un genitore disposto ad aiutarci con le lezioni11.
Allo stesso tempo, per sopprimere l’intifada, veniva sfruttato appieno il sistema legale che era stato sviluppato a sostegno dell’occupazione. Sotto i Regolamenti (di emergenza) a scopi difensivi, una corte militare poteva ordinare la detenzione di un palestinese sospettato fino a sei mesi senza processo, in quella che veniva chiamata «detenzione amministrativa», «detenzione preventiva» o «internamento». La procedura era già stata impiegata sporadicamente tra il 1967 e il 1980, ma col tempo era diventata sempre meno frequente. Nel 1985, un periodo di acceso malcontento nei Territori occupati, venne riesumata, e tra il 1985 e il dicembre 1987 fu sottoposto a detenzione amministrativa un numero stimato di 316 palestinesi: il metodo a quel punto si era evidentemente diffuso. Si calcola che in un qualunque momento del 1988 si trovavano in detenzione amministrativa fra 3000 e 4000 palestinesi, comprese donne con bambini e giovani di quattordici o quindici anni12.
La detenzione di un numero tanto elevato di individui metteva in grave difficoltà le strutture carcerarie esistenti e l’esercito dovette aprirne di nuove. Tra i centri di detenzione piú famigerati c’erano Ansar II a Gaza e il Centro di detenzione militare Ketsiyot (Prigione 7, chiamata anche Ansar III) nel deserto del Negev. Per i palestinesi queste carceri si trasformavano in fretta in scuole di politica, e crearono una nuova generazione di leader con un forte legame tra loro. Un prigioniero che trascorse dieci anni nelle carceri israeliane racconta del modo in cui quell’esperienza trasformò la sua identità di palestinese: «Prima di andare in prigione, non sapevo neanche di essere un palestinese. Lí mi hanno insegnato chi sono. Ora ho delle opinioni …»13. All’esterno delle carceri, nei territori palestinesi occupati, i prigionieri godevano di un forte sostegno e i capi non finivano piú di lodarne il coraggio: «Gloria a voi … Gloria ai martiri della sollevazione dietro le sbarre …»14.
All’interno delle prigioni i detenuti venivano interrogati e sottoposti abitualmente a tortura, come punizione e per ottenere informazioni; la tortura, naturalmente, non è ammessa dal diritto internazionale e dalle leggi sui diritti umani15. Ma si calcola che tra il 1987 e il 1994 lo Shabak abbia interrogato oltre 23 000 palestinesi facendo uso regolare di tali metodi. Uno studio del B’Tselem (il Centro informativo israeliano per i diritti umani nei Territori occupati) ha scoperto che i detenuti palestinesi nelle prigioni israeliane ricevevano «schiaffi, pugni, calci, strattonamenti ai capelli, colpi di bastone o con aste di ferro, e venivano sbattuti contro il muro e sul pavimento»16. Il rapporto continua descrivendo nei dettagli i metodi usati in prigione contro i detenuti palestinesi:
Si picchiava il detenuto appeso in un sacco chiuso con la testa coperta e le ginocchia legate; lo si legava tutto contorto a una conduttura esterna con le mani dietro la schiena per ore e, a volte, sotto la pioggia, di notte e durante le ore calde del giorno; il prigioniero veniva confinato, a volte anche per qualche giorno, nello «sgabuzzino», una cella buia, maleodorante e soffocante, ampia un metro e mezzo per un metro e mezzo; lo si rinchiudeva, talvolta per diverse ore, nel «gabinetto», una cella stretta, alta come un uomo, nella ...