Nella mia vita in manicomio ho conosciuto, come dicevo, i modi di essere, le dilemmatiche fenomenologie, delle depressioni, e in particolare quelle della depressione-malattia, della depressione psicotica, della depressione che non ha futuro, e non conosce se non il presente e il passato, della depressione che perde il mondo, e non ha trascendenza, ma solo disperata immanenza, della depressione sfiorata costantemente dalla nostalgia della morte, e talora dalla impossibilità di vivere e di morire. Ma in manicomio mi si è svelata (anche) la realtà della malattia psichica piú oscura e piú enigmatica, piú temuta e piú immersa nelle fiamme del pregiudizio, che la psichiatria chiama schizofrenia: denominazione che trascina con sé angoscia e disperazione, certezza di incurabilità e di non guaribilità, che sono radicalmente ingiustificate, perché ci sono forme miti e forme gravi, forme che migliorano e forme che guariscono, forme che consentono adattamenti sociali, e forme, infrequenti, che non li consentono. Una denominazione che, nel momento stesso in cui è formulata, accresce istantaneamente le dolorose risonanze emozionali della malattia, e ne influenza il decorso. Non si dovrebbe mai parlare di schizofrenia se non nel contesto di un discorso clinico, ma essendo in ogni caso consapevoli del rebound imprevedibile che la diagnosi di schizofrenia trascina con sé, e del dovere di sostituirla, per quanto sia possibile, con quella di sindrome dissociativa, di dissociazione mentale, o di depressione atipica.
(Certo, contraddizione apparente, in questo mio discorso non mi sarà sempre possibile evitare di parlare di schizofrenia: che in altri contesti dovrebbe essere in ogni caso evitata).
Cosa è la schizofrenia?
Ma, a questo punto, non può non nascere la domanda: cosa è la schizofrenia? Un ammasso di macerie, e una aggregazione anarchica di sintomi, o una forma di esistenza dotata di senso, anche se diversa dalla nostra, nella quale si rispecchiano le contraddizioni e le conflittualità, le lacerazioni e le ambiguità, della vita?
Le tesi neurobiologiche non considerano le schizofrenie se non come espressione di disturbi funzionali e morfologici delle formazioni cerebrali, nel solco della celeberrima tesi di Wilhelm Griesinger: le malattie psichiche sono malattie cerebrali. Non senza dimenticare tuttavia che, contraddicendosi, questo grande psichiatra tedesco del primo Ottocento ha poi sostenuto che non ci sia cura in psichiatria se non quando ci si incontra con i pazienti muovendo dal cuore: dalle conoscenze che il cuore, e non la mente, sa raggiungere. In ogni caso, se l’idea che abbiamo delle forme di vita psicotiche, e in particolare di quelle schizofreniche, sia quella neurobiologica, non potremmo se non dire che la malattia in psichiatria è il nostro inemendabile destino: senza alcuna possibilità di cura che non sia quella farmacologica. Ma non posso non ripetere che sia necessario scegliere fra questa psichiatria, e la psichiatria che, come ha scritto Carl Gustav Jung, è la scienza che guarisce l’anima, e non posso non sottolineare come a questa psichiatria si deve un capovolgimento radicale nella cura della follia con la conseguenza che, in Italia, è stato possibile giungere al superamento dei deserti luoghi, dei non-luoghi, manicomiali, e allo svolgimento di programmi terapeutici non solo ospedalieri ma ambulatoriali, e domiciliari.
(Cosí diceva Carl Gustav Jung in un suo lontano lavoro non mai inattuale: «La psichiatria è la cenerentola della medicina. Tutte le altre discipline hanno su di essa un grande vantaggio: il metodo delle scienze naturali». E ancora: «La psichiatria, la scienza che guarisce l’anima, sta ancora davanti alla porta e cerca invano d’impadronirsi dei metodi di misura e valutazione delle scienze naturali. È vero, noi sappiamo già da tempo che c’è un determinato organo, il cervello; ma solo al di là del cervello, al di là del substrato anatomico v’è ciò che per noi è importante, vale a dire l’anima, entità da sempre indefinibile, e che continua a sfuggire anche ai piú abili tentativi di afferrarla»).
Solo nel contesto di una genesi multifattoriale, biologica e sociale, esistenziale e psicologica, è possibile avvicinarsi alla ragione d’essere di una esperienza psicotica.
La prospettiva fenomenologica.
La considerazione fenomenologica della schizofrenia consente di dire, seguendo il cammino ermeneutico di Klaus Conrad, che essa è un processo, un evento, una metamorfosi, qualcosa che viene svolgendosi nel tempo con un esordio, una acme, una perdita, ma anche un dramma, una sequenza di scene, una sventura conseguente ad un incendio, o ad una inondazione; e infine un processo di demolizione, di ricostruzione e di rigenerazione. La follia, un altro modo di definire la schizofrenia, è una esperienza che si svolge nel tempo, e non è estranea alla vita di ciascuno di noi: follia e non-follia si intrecciano, e si allontanano l’una dall’altra; e dalla follia rinascono modi di essere che ci aiutano a intravedere la sofferenza e la fragilità che sono in noi. Sono cose, queste, splendidamente delineate da Manfred Bleuler, il quale sosteneva che una vita schizofrenica latente si nasconda nelle falde segrete della condizione umana, e in particolare nelle situazioni di profonda solitudine, nelle esperienze mistiche, nelle forme di pensiero autistiche, nei sogni, e nell’arte astratta. Nella follia le forme latenti di vita schizofrenica si scompensano, sconfinano dagli argini, e si condensano in una dolorosa realtà clinica, e in essa si viene creando un mondo animato da desideri e da timori, da immaginazioni e da elaborazioni fantasmatiche del reale, da deliri e da allucinazioni, che si intrecciano e si amalgamano in modi diversi, e si accompagnano a indicibili sofferenze.
Ci sono altre interpretazioni della malattia ma con esse mi sono confrontato in altri miei libri, e qui vorrei solo dire che la rivoluzione conoscitiva e pratica realizzata da Franco Basaglia si è venuta alimentando di una concezione della schizofrenia come esperienza umana dotata di senso, e immersa in una stremata nostalgia di ascolto, e di incontro.
Questo mio libro non è un libro di psichiatria, non intende discutere delle cause possibili delle schizofrenie, e delle prospettive terapeutiche possibili, ma intende solo raccontare alcune storie cliniche che consentano di prendere coscienza della gentilezza e della tenerezza, della sensibilità e della nostalgia di accoglienza che vivono in forme di vita schizofrenica, alle quali di solito non diamo alcuna significazione umana. E vorrei richiamarmi ad una paziente descritta in anni lontani dal direttore dell’ospedale psichiatrico di Novara, Enrico Morselli, mio indimenticabile maestro.
Elena.
Fra i lavori piú belli e affascinanti, che siano sgorgati da una fenomenologia applicata alla comprensione di una enigmatica forma di vita schizofrenica, non potrei non ricordare il saggio di Enrico Morselli, uno dei pochi grandi psichiatri italiani, che ha descritto (parlando di dissociazione mentale che è il sintomo fondamentale della schizofrenia) i modi di essere e i modi di vivere di Elena, una giovane pianista di venticinque anni, che veniva ricoverata nella Clinica neuropsichiatrica della Università di Milano nel maggio 1925, e ne veniva dimessa nel luglio 1927, rimanendo in cura dal giovane psichiatra − aveva anche lui venticinque anni − che la seguiva fino al suo ritorno alla normalità.
Elena viveva in un mondo, in un altro mondo, divorato dalla febbrile e autistica metamorfosi della realtà, ma, anche se italiana, manifestava le sue esperienze psicotiche ora in lingua francese ora in lingua italiana. In quella, che Morselli chiamava la condizione francese, i sintomi psicotici si accentuavano sensibilmente, e portavano alla perdita di ogni contatto con la realtà, mentre nella condizione italiana i sintomi si attenuavano, e consentivano una migliore sintonia con l’ambiente. Nella condizione francese Elena diceva di vivere una altra vita, di vedere gli angeli, di ascoltare la musica, di sentirsi lontana dalla vita reale, e sdoppiata fra questa e l’altra vita, la vita della follia, nella quale era piú vicina all’anima, al paradiso dantesco. Quando Elena usciva dalla condizione francese, ricordava solo in parte, e confusamente, le parole che aveva detto.
Le allucinazioni.
Le allucinazioni facevano parte della malattia di Elena, e Morselli cosí le descriveva: «Per ore viene assalita dalle sensazioni piú diverse; vede scorpioni, bestie che saltano, rettili, dai quali si sente come afferrare, avvolgere le braccia ed il viso. Queste allucinazioni insorgono quasi come ventate, senza alcun rapporto col contenuto cosciente di Elena che, sebbene obbiettivi la natura irreale dei fenomeni, diviene a momenti allarmatissima per la mostruosità di quanto sta percependo. Anche la percezione degli oggetti circostanti è alterata: i quadri delle pareti si muovono, i lineamenti delle persone che vede sono trasfigurati, dopo che ho gettato un fiammifero spento nel portacarta vede fiamme e fumo sprigionarsi…» Qualche tempo dopo riemergevano altre esperienze allucinatorie. «Elena assiste con critica e lucidità ottime a tali fenomeni di perturbamento allucinatorio (anche tattile e cenestetico; vede piccoli ragni, animaletti rampicanti); il soffitto si apre, “ecco la morte!” si sente toccare, avvolgere misteriosamente, tiene gli occhi chiusi illudendosi di non vedere. Eccitabilissima, le sensazioni piú strane la invadono; il minimo rumore genera reazioni violente, non riconosce piú la sua né la mia voce, si disorienta nella stanza. Dice che “quella sera” le pare di essere stata cosí… e che non parla francese, non le viene da parlare francese… Lo stato della coscienza non pare alterato; ricorda (in qualche attimo di tregua) tutto ciò che nella giornata è avvenuto». Quando Morselli le chiedeva quale fosse la vera Elena, si sentiva rispondere che era vera, sia parlando in francese, cosa che preferiva, sia parlando in italiano.
La realtà esistenziale.
I modi di vivere la schizofrenia sono diversi, e cambiano (anche) nel contesto delle situazioni in cui ogni paziente si trova. Ma non è possibile capire quali siano le dimensioni autentiche e radicali della dissociazione mentale in una persona se non ascoltandola, e rinunciando a qualsiasi sua oggettivazione. Una paziente, un paziente non sono «cose», non sono «organi» malati, ma persone con la loro vita interiore, con la loro angoscia e la loro sofferenza, con la loro originalità e la loro nostalgia di incontro, e di dialogo. Questa è l’autentica realtà esistenziale che include, e trascende, la realtà sintomatologica della schizofrenia, e che Enrico Morselli ha saputo fare rinascere in Elena con la intelligenza del cuore e della mente. Dal suo lavoro riemerge anche la grande importanza che in psichiatria hanno le parole con cui le esperienze vissute, e le riflessioni su di esse, sono descritte; e solo parole, come le sue, alate e rigorose, metaforiche e poetiche, hanno saputo dare di Elena una immagine che un altro linguaggio avrebbe inaridito, e svuotato di senso. Le splendide dolorose pagine di questo diario dimostrano come nell’area delle schizofrenie siano presenti forme di vita non solo patologiche, ma dotate di senso e di indicibile umanità. Solo se la psichiatria si confronta con la dimensione psicologica e umana, e non solo clinica, di una malattia, diviene scienza umana che rispetta la incondizionata dignità della sofferenza.
Questo lavoro dimostra infine come, nella schizofrenia, la vita continua a testimoniare della sua grandezza ferita e lacerata, e nondimeno altamente e nobilmente significativa, ma dimostra (anche) come la cura sia possibile quando diviene dialogo, e ascolto, che entrino in relazione con gli abissi di dolore della malattia, e dicano parole che nascano dalla logica del cuore, e siano portatrici di salvezza: come è avvenuto in Elena. Il mio cammino con Elena, con Enrico Morselli, che l’ha portata alla guarigione, e all’amato pianoforte, si conclude nella speranza di avere illustrata una esistenza ferita da un sommo dolore, e recuperata alla speranza; benché il destino abbia voluto che un anno dopo la dimissione dalla Clinica, e dopo avere ritrovato un equilibrio, e l’amato pianoforte, Elena morisse a causa di una malattia infettiva. Cosí noi viviamo, e prendiamo sempre commiato: le parole di Rainer Maria Rilke continuo a viverle come emblema della fragilità e della precarietà dei nostri progetti e delle nostre azioni ma anche, e ancora piú dolorosamente, delle nostre attese e delle nostre speranze infrante. Dalla storia della vita e dalla immagine femminile, dalla musica e dalla grazia di Elena, Enrico Morselli, tuttavia, non ha mai preso commiato, a lei sempre richiamandosi in vita nelle sue riflessioni sugli aspetti psicopatologici e umani della dissociazione mentale: la struttura portante della condizione clinica che chiamiamo schizofrenia.
Ma ora una altra storia clinica di schizofrenia in una paziente dalle grandi dolorose capacità di espressione anche poetica.
L’altro mondo della follia.
Margherita, una giovane donna di venticinque anni, che ho incontrato in manicomio, viveva con la madre, e, conseguito il diploma di scuola media superiore, si impiegava, e aveva una adolescenza, almeno apparentemente, normale; ma nel corso dei suoi ultimi cinque anni la sua vita cambiava a causa di una improvvisa insorgenza di esperienze deliranti e allucinatorie immerse nelle alte maree di una angoscia divorante. Le piú diverse terapie farmacologiche non conseguivano remissioni sintomatologiche significative, e anzi i disturbi psichici crescevano di intensit...