I.
Quell’inverno, agli inizi degli anni Cinquanta, faceva insolitamente freddo a New York, o almeno cosí sembrava a Levin. Sempre che, a trentanove anni, non fosse invecchiato anzitempo, un’idea che in segreto non gli dispiaceva affatto. Per la prima volta nella sua vita aveva davvero voglia di fuggirsene al sole, perciò quando Jimmy P. tornò tutto abbronzato da Haiti, ascoltò con un interesse piú che sociologico il suo resoconto entusiastico sul nuovo vento democratico che soffiava nel paese. Levin, uomo dotato di una certa tendenza a precorrere i tempi, era ormai giunto a dubitare che la politica potesse realmente cambiare in meglio la condotta umana e, a parte lavorare, si dedicava alla musica e a pochi libri esemplari. Ma anche nel suo passato di piú intenso impegno politico non aveva mai nutrito molta fiducia negli entusiasmi di Jimmy, pur sentendosi rincuorato dal suo ingenuo rispetto. Ex lottatore dell’università di Colgate, con il naso schiacciato, le spalle spioventi e la esse blesa, Jimmy era un comunista sentimentale che idolatrava le persone di talento (di alcune delle quali curava le pubbliche relazioni) cosí come idolatrava Stalin e chiunque si mostrasse capace di ignorare tutte le regole rispettabili in vigore. La rivolta possedeva un carattere poetico per Jimmy. Il giorno in cui aveva compiuto sette anni, il suo eroico padre l’aveva baciato sulla sommità del capo ed era partito per unirsi alla rivoluzione in atto in Bolivia, dopo di che non era mai veramente tornato, con l’eccezione di qualche visita inattesa della durata di un paio di settimane, prima di sparire per sempre. Ma forse un fossilizzato rimasuglio di speranza nella ricomparsa del genitore si annidava ancora nel cervello di Jimmy, alimentando la sua propensione all’idolatria. In Mark Levin ammirava il coraggio di aver lasciato l’impiego al «Tribune» per farsi carico della noiosa attività paterna nel campo dei pellami pur di non piegarsi a scrivere gli editoriali ispirati alla nuova bellicosità antisovietica che la redazione pretendeva da lui. La verità, però, era che gli interessi di Levin si concentravano su Marcel Proust. Nel corso dell’ultimo anno o giú di lí, le opere dell’autore francese gli avevano tolto dalla testa quasi ogni altro pensiero, tranne la musica, la diletta e battagliera moglie Adele e una confortante ipocondria.
Haiti, per Levin e Adele, era la faccia nascosta della luna. Ciò che sapevano del posto l’avevano racimolato dai «National Geographic» nell’anticamera del dentista, dalle foto del carnevale con donne dall’aspetto selvaggio, alcune di straordinaria bellezza, che ballavano per la strada, e dai riti vudú. Ma secondo Jimmy si stava verificando un’esplosione letteraria e artistica d’inesplicabile raffinatezza e notevole valore, che prorompeva come una forza della natura repressa in un paese governato per generazioni dalla legge del coltello e della pistola. Una vecchia amica di Jimmy, l’ex giornalista del «New York Post» Lilly O’Dwyer, sarebbe stata contentissima di accogliere i Levin; si era trasferita a Haiti per vivere insieme alla madre espatriata e conosceva tutti, specialmente i pittori e gli intellettuali della nuova generazione che cercavano di introdurre riforme democratiche di sinistra prima di essere assassinati o espulsi. Durante le ultime elezioni, alcuni sconosciuti avevano massacrato a colpi d’accetta il candidato dell’opposizione, insieme alla moglie e ai quattro figli, nel loro soggiorno a livello della strada.
I Levin erano ansiosi di partire. Le loro vacanze invernali piú recenti (cinque giorni interminabili su una spiaggia dei Caraibi) li avevano convinti a togliersi dalla testa certi lussi insensati, ma questo viaggio si preannunciava diverso. I Levin erano persone serie; in un’epoca in cui i film stranieri non venivano ancora proiettati a New York, si erano iscritti a un’associazione impegnata a farli circolare nei salotti privati, e Mark in particolare aveva sviluppato una vera passione per le pellicole francesi e italiane. Sia lui che la moglie erano abili pianisti classici, e in effetti il loro primo incontro aveva avuto luogo a casa dell’insegnante di pianoforte: lei arrivava per la lezione mentre lui stava per andarsene, ed entrambi si erano subito sentiti reciprocamente attratti dalla rispettiva statura inconsueta. Mark superava il metro e novanta, Adele era alta uno e ottanta; la loro unione aveva riportato alla normalità quella che tutti e due tolleravano come una sorta di deformità, per quanto non avessero mai smesso di alludervi nei loro discorsi con una sorta di ironia difensiva. «Alla fine ho trovato una ragazza che posso guardare negli occhi senza bisogno di sedermi», diceva Mark.
«Sí, – aggiungeva lei, – e forse uno di questi giorni si deciderà a farlo».
Sotto la frangia e i capelli tagliati corti, il viso di Adele aveva un che di orientale, con gli occhi neri e i larghi zigomi che le assottigliavano lo sguardo, mentre Mark aveva una lunga faccia cavallina, una chioma folta e ricciuta e una risata timida e riluttante, tranne nei giorni in cui, borbottando in preda alla disperazione, temeva per l’ennesima volta di aver subíto un tragico prolasso allo stomaco o un lieve spostamento del cuore verso il centro del torace. Tuttavia, al di là della loro guardinga ironia, potevano rivelarsi entrambi abbastanza ingenui da lasciarsi trascinare, sia pure a una discreta distanza, nell’uno o nell’altro dei vari programmi idealistici per il progresso della società. Pranzando nel suo ufficio di Long Island City, Mark leggeva «The New Republic» e di tanto in tanto dava una doverosa occhiata a «The New Masses», dopo di che, bevendo il suo bicchiere di latte, scorreva il francese della versione originale di Alla ricerca del tempo perduto, una lingua che amava solo un po’ meno della musica. I due coniugi si recarono a Port-au-Prince nella fragorosa cabina di un Constellation della Pan American, sforzandosi di scacciare la premonizione che quel viaggio fosse destinato a diventare un nuovo anello nella catena dei loro errori.
La casa degli O’Dwyer, finita di costruire l’anno precedente, incombeva simile a un caotico nido di cemento sul porto di Port-au-Prince. Progettata dalla signora Pat O’Dwyer, e da suo genero Vincent Breede, nello spirito di Frank Lloyd Wright, dava alla brezza modo di circolare liberamente per le vaste stanze entrando dalle ampie finestre. In quel momento la signora Pat era tutta concentrata in una partita a poker con il vescovo episcopaliano Tunnel, il capitano Banz, al comando dell’incrociatore pesante americano ancorato nel centro del porto, e il capo della polizia Henri Ladrun. Intorno al gruppo, un grande tappeto orientale si allargava fino alle pareti bianche coperte da un Klee, un Léger e una mezza dozzina di quadri haitiani a tinte vivaci, la piú recente testimonianza del gusto e dell’acume della padrona di casa, dato che i prezzi di quei dipinti erano saliti alle stelle da quando lei li aveva acquistati assai prima che gli artisti di Haiti cominciassero ad avere un mercato. Quella sera la signora Pat sviluppò un’immediata simpatia per Adele, con cui condivise la rabbia verso i membri di destra del Congresso e i repubblicani in genere, responsabili di aver istigato la caccia ai rossi in atto nel governo (una capziosa diffamazione dei liberali del New Deal, a suo avviso), nonché colpevoli di appartenere allo stesso partito del famigerato senatore McCarthy.
Jimmy P. aveva informato i Levin sul conto della signora Pat prima della loro partenza da New York. In gioventú, lavorando come operatrice sociale a Providence, nel Rhode Island, era arrivata ben presto alla conclusione che ai suoi assistiti, perlopiú cattolici, occorrevano soprattutto preservativi, all’epoca venduti sottobanco, se non illegalmente. Dopo aver cominciato a portarne laggiú intere casse che comprava a New York in conto deposito, aveva ampliato l’attività fino a creare un centro di distribuzione e poi a mettere in piedi uno stabilimento per fabbricarli, riuscendo in ultimo ad accumulare una notevole ricchezza. Recatasi in vacanza a Haiti, si era resa conto che là c’era ancor piú bisogno dei suoi prodotti e aveva avviato un nuovo impianto, questa volta donando la maggior parte della produzione a enti senza scopo di lucro. Ormai vicina agli ottant’anni, piú fascinosa che mai con i suoi fluenti capelli argentati e gli occhi azzurri dallo sguardo placido come un lago, la signora Pat dedicava la vita a tentare di convincere la gente ad arrivare al sodo. L’impazienza l’aveva indotta a convertirsi dal cattolicesimo al cristianesimo scientista, da lei interpretato come una fede nella propria autonomia personale, e dunque in linea con le sue capacità imprenditoriali e, in un ambito piú vasto, con il suo obiettivo, la realizzazione di una società socialista attenta ai bisogni dei cittadini.
Adagiata su una chaise longue vicino al tavolo da gioco e intenta a leggere il «Times» di tre giorni prima, sua figlia Lilly disse: – Ieri Jean Cours ha incontrato per strada Charles Lebaye –. Sconfitta nella battaglia contro il proprio peso, Lilly indossava fluidi abiti bianchi e ampie vestaglie. Sulle braccia le tintinnavano braccialetti in metallo di produzione locale. Con la coda dell’occhio aveva notato l’ingresso nella stanza del figlio undicenne Peter, nato dal suo primo matrimonio con un critico teatrale alcolizzato di New York, e non era riuscita a impedirsi di pensare che il ragazzo aveva ereditato dal padre la cupa e temibile volubilità irlandese nonché una seducente eleganza. Peter, scalzo e con un paio di sudici pantaloncini marrone chiaro, si stava ingozzando di ciliegie che prendeva da una fruttiera e non si degnò neppure di rispondere al saluto della madre, tormentandola, pensò lei, perché lo privava del genitore.
La signora Pat sollevò a malapena lo sguardo dalle carte: – Lebaye il funzionario?
– Sí.
– Ma credevo fosse morto piú o meno una settimana fa.
– Infatti –. La partita s’interruppe. Vincent e Levin rientrarono dal balcone per ascoltare, e tutti i giocatori si girarono verso Lilly. – Cours l’ha visto nella bara ed era presente quando l’hanno messo nella tomba.
– Come ha fatto a capire che si trattava proprio di lui?
– Lo conosce da una vita. Gli è andato incontro, ma Lebaye gli è semplicemente passato accanto senza fermarsi. È diventato uno zombie, secondo Cours.
– Cos’è uno zombie? – domandò Adele, rivolgendosi a Vincent, che in quanto giamaicano di origine africana probabilmente lo sapeva.
– Una specie di schiavo, – rispose Vincent. – C’è chi sostiene che esistono persone capaci di resuscitare i morti per rubare loro lo spirito e costringerli a fare tutto ciò che vogliono loro.
– Ma in realtà di cosa si tratta? – insistette Levin, torreggiando sul tavolo da gioco e tastandosi la carotide con l’indice per controllare il battito cardiaco.
– Non ne ho idea, credo sia possibile che il malcapitato venga drogato per simulare una sepoltura…
– Cours giura che era lí mentre calavano Lebaye nella fossa, – intervenne Lilly.
– Avrà anche visto una cassa scendere sottoterra, cara, ma… – disse Vincent.
– Accadono fatti molto strani, per la verità, – lo interruppe il vescovo. Si voltarono tutti dalla sua parte, in quanto il prelato era il piú esperto in materia di haitiani, visto che ne aveva convertiti alcuni e che promuoveva la nuova ondata di produzioni artistiche e letterarie del paese. L’interno intonacato di bianco della sua grande chiesa era coperto da nuovi affreschi. Malgrado la faccia rosea a forma di melone gli desse un’aria di piacevole incompetenza, aveva offerto asilo a rivoluzionari in fuga e depistato gli uomini armati che li inseguivano. – Non sono per nulla sicuro che le droghe c’entrino, – continuò. – Hanno la capacità di arrivare al nucleo piú nascosto delle cose. Insomma, è piú una specie di ipnosi profonda quella di cui si servono per giungere al centro vitale di un individuo.
– Ma non possono aver veramente seppellito Lebaye, – osservò il capitano Banz. – Sarebbe soffocato –. Capelli neri e profilo perfetto, candida divisa della marina dal colletto rigido che gli cingeva il collo in maniera impeccabile, sembrava un sacerdote militante molto piú del vescovo sovrappeso. In patriottico disaccordo con tutte le convinzioni della signora Pat sulle manovre imperialistiche statunitensi, Banz la considerava una donna superiore, un elegante mistero in attesa di essere risolto. In ogni caso, la sua dimora era l’unico luogo dell’intera isola dove si sentisse beneaccetto.
– A meno che non abbiano un sistema per rallentare il metabolismo, – disse Vincent, – anche se io non ci credo.
Il capo della polizia Ladrun, un uomo basso, di centotrenta chili, con una pancia che sembrava cominciare sotto il mento, era l’unico haitiano presente nella stanza. – Sono solo sciocchezze, – dichiarò con una risata soddisfatta. – Esistono moltissime persone che si somigliano tra loro. Il vudú è una religione come qualsiasi altra, a parte il fatto che c’è un po’ piú di magia. Ma non dimentichiamo la moltiplicazione dei pani e dei pesci e le passeggiate sulle acque.
La conversazione si spostò sulla magia, la partita riprese e Lilly tornò alla lettura del giornale. Vincent e Levin uscirono di nuovo sul balcone, dove si sedettero fianco a fianco rivolti verso il porto. Vincent, il solo uomo di colore con cui Levin avesse avuto l’opportunità di parlare dal tempo in cui, durante l’università, passava i pomeriggi giocando a basket, aveva fatto colpo su di lui. Ormai sapeva che, pur essendo in origine un semplice giamaicano povero dalla corporatura poderosa, era arrivato a laurearsi a Oxford e presso un’università della Svezia, e a dirigere l’agenzia delle Nazioni Unite incaricata del rimboschimento dell’area caraibica. E Levin si sentiva alquanto compiaciuto dall’esplicito interesse che manifestava per lui e dalla sua affascinata attrazione per Proust.
– Questo vudú è una cosa seria? – gli domandò.
– Be’, conosce il detto: Haiti è al novanta per cento cattolica e al cento per cento vudú. A mio avviso, certe credenze sono piú che altro una seccatura, ma credo che in fondo tutte l...