Marco Lodoli
Il fiume
Quando sull’ultima palla Damiano ha gettato la racchetta a terra ed è corso ad abbracciare il padre, il cannone di mezzogiorno ha sparato il suo colpo dal Gianicolo nel cielo tutto azzurro, quasi lo avessero verniciato con lo smalto delle carrozzerie. Alessandro era contento per la contentezza del figlio, anche se gioire per una vittoria gli è sempre sembrato indecente. Vincere è già maleducazione, uno squilibrio volgare, come del resto perdere. È bello giocare, questo sí, trovare i gesti precisi e legarli ai gesti degli avversari, domande e risposte, recitando al meglio la commedia del tennis. Sono belli anche i vestiti bianchi e le palline gialle sul campo rosso, le borse spalancate sulle sedie, gli asciugamani candidi, è bello alzare la mano in segno di approvazione quando l’avversario piazza nell’angolo una volée difficile. Qualcosa da dentro preme per venire fuori con veemenza, per imporsi, e Alessandro prova sempre un sottile piacere a respingere quella brutale volontà di potenza, a rinchiuderla nel filo di seta della gentilezza. Alla fine comunque qualcuno vince e qualcuno perde, ma deve accadere quasi per caso, senza smania, senza recriminazioni o esultanze. Ma questo Damiano ancora non può capirlo, ha solo dieci anni e la maglietta sudata, ancora sente il bisogno di gridare e godere per una vittoria. Alessandro gli ha messo le dita tra i capelli bagnati, una carezza veloce, per non deludere.
– È stato un rovescio magnifico, papà, proprio sulla riga di fondo.
– Sono stato fortunato.
– No papà, tu giochi benissimo.
– Non mi sembra. E abbassa la voce, per favore.
Alessandro lo ha spinto leggermente verso il centro del campo, verso la rete dove aspettavano gli sconfitti, un altro padre e un altro figlio, tra loro vicini ma distanti, come se ognuno rimproverasse il compagno per qualche punto mancato e per quel finale amaro.
Ogni domenica Alessandro gioca il doppio a tennis con suo figlio, è un modo per stare insieme, per condividere qualcosa. E poi il circolo sul fiume è un luogo tranquillo, ogni malessere si deve fermare alla sbarra di ingresso, là dove il custode vigila con il cappello in testa e il sorriso stipendiato. I soci si salutano cordialmente, negli spogliatoi o al bar del circolo commentano le notizie del giorno, il campionato di calcio, l’andamento della borsa, ma a nessuno è concesso di raccontare i fatti suoi, nessuno vuole ascoltare storie tristi. Era morta la moglie di un vecchio avvocato, qualche mese prima, e chi lo aveva incontrato lungo i vialetti del circolo gli aveva stretto la mano un po’ piú forte, gli aveva stretto il gomito se la confidenza era maggiore, ed era finita lí. Volendo, si può pranzare al ristorante del circolo, sedersi dove capita, in compagnia di chiunque. In fondo tutti pagano l’iscrizione e le rate trimestrali, tutti hanno la sacca con lo stemma del circolo, dunque possono considerarsi amici. Quelli che giocano a tennis o si allenano in palestra sono una minoranza, i piú vengono per spezzare la giornata, leggere i giornali, sedersi a un tavolo di carte, dimenticare il mondo. E anche per aprire relazioni che potranno rivelarsi utili, un giorno. Le conoscenze giuste rendono la vita piú semplice, permettono di evitare una fila in ospedale o di ottenere in anticipo notizie su qualche affare vantaggioso.
Alessandro e Damiano sono rientrati negli spogliatoi grandi e puliti: il padre non fa mai la doccia insieme al figlio, è una confidenza fisica inopportuna, un’intimità da evitare. Damiano si è spogliato e si è lavato per primo, poi si è asciugato nell’accappatoio di spugna celeste e si è rivestito.
– Aspettami al bar, – ha ordinato il padre. – Mangia qualcosa, faccio in fretta.
Apre l’acqua, Alessandro, tocca il getto con la mano, lo vuole caldo e forte, ma non troppo caldo, non troppo forte: ecco, cosí. Ora l’acqua gli scivola sul corpo nudo e ancora ben vivo, il corpo dei suoi quarantaquattro anni, lo avvolge come un fiume verticale. Alessandro apre la bocca per bere quella rapida trasparente, dalle braccia abbandonate lungo il corpo scendono ruscelli veloci, come due fiotti di grondaie, il corpo resiste e si abbandona, si ammorbidisce a poco a poco, e anche i pensieri si sciolgono, piccoli grumi che svaniscono tra i flutti, qualcosa che diventa niente, un cedimento beato. Sposta la leva dell’acqua, Alessandro, e il getto si fa piú tiepido, poi quasi freddo, il corpo e la mente per un attimo si irrigidiscono e poi di nuovo si abbandonano alla corrente. Chiude gli occhi, nel buio si sente bene, come in fondo a una nave che cola, che diventa alga, abisso, vuoto. Nel buio gli sembra quasi che sia il suo corpo a gettare acqua, in una stanchezza senza bordi. I problemi del lavoro, delle donne e della vita sono rimasti indietro, su qualche riva lontana, come un mucchio di stracci. Si accovaccia sul pavimento, si prende le ginocchia tra le braccia, piega la testa e si lascia portare via dall’acqua che lava via ogni stanchezza e ogni desiderio, che gli cancella il viso. Mio figlio mi aspetta, pensa Alessandro, devo uscire, ma resta lí, immobile nel diluvio.
Alessandro stanotte ha sognato il cane. Gli torna alla mente mentre si infila la camicia bianca sul petto umido: un cane che sembrava buono, cosí se lo ricorda, rinchiuso a catena in un cortile. Un cane grosso, bianco, con gli occhi mansueti e un collare borchiato, tanto simile al cane della sua infanzia, quello che gli leccava la faccia, anche se nel sogno non ricordava piú il suo nome: nel cortile non c’era nient’altro, muri asciutti di cemento alti fino al cielo e terra smossa sotto i piedi, terra arata, scura. Gli aveva riempito la ciotola di carne, pezzi grossi che gocciavano sangue e si gonfiavano. La catena era agganciata al muro con un grosso anello arrugginito, e il cane ha cominciato a tirare, a sbavare, a tirare con le zampe puntate sulla terra. Aveva mangiato la carne e non era piú buono, Alessandro ha cercato una porta che non c’era, e il cane tirava, i muscoli del petto tesi, gli occhi rossi, la chiostra dei denti scoperta. E poi quella bestia aveva detto qualcosa, parole di bava che Alessandro non capiva, ma che erano rivolte a lui: buono, stai buono, stai zitto, ripeteva al cane, e si schiacciava spaventato contro il muro di cemento mentre il cane ringhiava e sbavava parole e s’avvicinava, s’avvicinava troppo.
Damiano sorride oltre la vetrata del bar del circolo, sta in piedi e Alessandro pensa che per la sua età è già alto, che sarà bambino ancora per poco. Qualcosa nel volto si sta definendo, la mascella è piú netta e lo sguardo malinconico, come se avesse già imparato a guardare il mondo. Ieri sera, dopo cena, Damiano gli ha chiesto come nascono i piccoli, sembrava che già sapesse qualcosa, nella sua classe ci sono ragazzini svegli, con la fretta di crescere. Com’è che prima non c’ero e poi stavo nella pancia della mamma, chi mi ci ha messo, ha insistito con un mezzo sorriso che era quasi una provocazione, ma Alessandro non aveva voglia di affrontare quella faccenda, lo imbarazzava e ha provato a cambiare discorso: la partita, un film. Ma Damiano non era disposto a seguirlo, con le braccia incrociate taceva nei suoi pensieri. Anche Alessandro allora si è ammutolito, ma dentro avvertiva un tumulto confuso, un fuoco che gli scaldava la faccia, una strana vergogna. Forse avrebbe dovuto parlare serenamente di spermatozoi e ovuli, di fertilità e fecondazione, ma sotto la pelle sentiva tutta la violenza di un uomo e una donna che si cercano, che si toccano e si sporcano, il desiderio che cresce come un dolore, quella spina conficcata nella carne, il caos della primavera in una stanza d’albergo, e quel rumore indistinto gli oscurava le parole.
Alessandro e Damiano hanno preso un piatto di pasta fredda e del roastbeef, lí al ristorante del circolo. Ad Alessandro piace sentire in mano il fresco di quelle posate d’acciaio lisce, vedere come suo figlio le usa bene. Dal tavolo si vede anche la piscina, un rettangolo azzurro nel prato verde, riposo per gli occhi.
– Poi andiamo a messa, – ha detto Damiano.
– Ma sei sicuro, ti va davvero?
– È domenica.
– Non preferisci fare una passeggiata? C’è il sole, la chiesa è buia, e poi la messa c’è già stata.
Da quando ha fatto la prima comunione, Damiano frequenta la parrocchia vicino alla casa della madre, canta nel coro, prega. Durerà poco, pensava Alessandro, presto si annoierà di quelle cerimonie infinite, di quell’aria umida, triste, di guardarsi dentro e trovarsi sempre sbagliato. Anch’io da bambino andavo in chiesa, ma poi ho cominciato a provare fastidio per quei banchi marroni e per quelle pretese esagerate, Dio, l’anima, l’infinito… Ogni bicchiere può contenere il mare, diceva sempre il prete, ma era acqua salata, che non dissetava. Bisogna educare i limiti, questo aveva capito presto Alessandro, respingere ogni idea smisurata, contenersi, difendersi. Sopra e sotto si aprono gorghi che risucchiano, cieli e puttane che ci vogliono stritolare, servono il distacco, la pulizia, serve la pace.
Cosí Alessandro ha portato Damiano a camminare lungo il Tevere, sul grande argine che parte dal circolo e va verso il centro di Roma, seguendo la corrente. Sul fiume remano i canottieri, chiamando i colpi con le voci ritmate, filando leggeri sull’acqua giallastra. Anche i gabbiani gridano, disordinatamente, scendono con le ali aperte sulla superficie del fiume, la toccano, risalgono in cielo senza aver trovato niente di buono. Alessandro sente vibrare in tasca il telefonino, ma non ha voglia di rispondere, sarà di sicuro qualche commerciante ansioso di far partire subito la campagna per i saldi, o per lo smantellamento del locale. Hanno tutti bisogno di soldi, sperano che in qualche modo io possa portargli nel negozio domani mattina una processione di clienti, pensa Alessandro guardando il figlio che gli cammina un po’ avanti, sul bordo della banchina. Sperano che io possa fare miracoli, e io ci provo ogni giorno, sono bravo nel mio lavoro, ma oggi è domenica. Domani farò stampare i volantini colorati e chiamerò i ragazzi che li distribuiscono per le strade, davanti ai grandi magazzini, ai cinema, nella metro, farò girare i miei camioncini con le scritte sulle vele: liquida tutto per fallimento, ottimi prezzi, grandi ribassi – gli ultimi tentativi di raddrizzare la barca che affonda. Organizzerò un’altra svendita, l’esposizione della merce nelle vetrine, le luci, i richiami.
Vivo della loro rovina, pensa Alessandro senza rimorsi, ma provo a ritardarla, a spremere le ultime gocce dal limone. Mi ringraziano quasi tutti, mi stringono le mani, proviamo, dicono, tiriamo fuori dal magazzino anche le camicie a scacchi e i pantaloni di dieci anni fa, vendiamo a prezzo di costo, magari la ruota ricomincia a girare, magari la gente arriva e tutto riparte come prima, quando le cose andavano bene. Forse posso galleggiare ancora, mi dicono, e mi mettono sulla scrivania il denaro che gli resta, ma accetto anche assegni postdatati, mi fido, in fondo anch’io spero che piano piano la vita riparta. Non può durare per sempre questa crisi, anche se per me è una fortuna. Dopotutto ne ho salvati tanti, pensa Alessandro mentre un colpo di vento increspa il fiume e il telefonino riprende a vibrare, mi dispiace sempre quando una saracinesca cala e non si rialza piú, come un soldato colpito in guerra.
«Tutto bene», cosí Alessandro inizia ogni conversazione, per tranquillizzare, per spegnere ogni tensione. Tutto bene, è come la camicia bianca, qualcosa che non cambia lo stato delle cose, ma allontana il disordine per un poco, e chi ascolta tira un sospiro di sollievo, le brutte notizie non le vuole sentire nessuno, quelle vengono su da sole come i topi dalle fogne. Anche quando Livia, sua moglie, gli aveva detto siediti un minuto sul divano che dobbiamo parlare, e Alessandro già lo sapeva cosa voleva dirgli, che era tutto finito, che da un anno lei si vedeva di nascosto con un altro, che non c’era piú niente da fare, solo accettare la vita per quello che prende e che ruba, anche allora, prima che Livia con le mani giunte e il viso serio pronunciasse la prima parola, lui aveva provato a fermare la verità mormorando tutto bene, va tutto bene.
Corrono lungo il Tevere uomini e donne, molti hanno già i capelli grigi ma vogliono tenersi in forma, dimagrire, scaricare l’ansia nei piedi. Hanno comprato le scarpe giuste, l’orologio che segna i tempi e le calorie bruciate, le cuffiette per ascoltare la musica, corrono e a ogni passo anche loro sembra che ripetano va tutto bene, oggi va meglio di ieri, posso aggiungere un altro chilometro a non so cosa, posso farcela. La strada con le automobili sta lassú, tra i platani, dal Tevere si sentono i clacson suonare perché è domenica e tra poco inizia la partita all’Olimpico. Damiano ha chiesto ad Alessandro di portarcelo almeno una volta, tanti suoi amici si annodano le sciarpe al collo e vanno con i padri a vedere la Roma o la Lazio, si divertono a incitare e a insultare, a cantare in coro. Ma Alessandro pensa che ci sia troppa confusione, troppa vitalità, è pericoloso stare lí in mezzo.
– Quando mi riporti da mamma? – domanda Damiano, senza girare la testa.
– Piú tardi, stasera.
– Non possiamo tornare prima?
– Non credo, oggi è domenica e stai con me, è il nostro giorno.
– La domenica è noiosa.
– Camminiamo ancora un poco, coraggio, qui si sta bene.
Prende per mano suo figlio, ma dopo pochi passi gli sembra di sentire il sudore nel palmo, e apre la mano. Di nuovo Damiano gli sta qualche metro avanti, avanza dondolando le spalle, trascinando i piedi, quasi per dimostrare il suo fastidio. Ora sono quasi sotto al ponte della Musica, a volte il ponte suona come uno strumento e la gente si ferma sulle spallette ad ascoltarlo, ma ora s’inarca muto come un grande gatto bianco. Alessandro pensa che piú si allontanano dal circolo del tennis, piú strada dovranno fare al ritorno, e nelle gambe sente un po’ di stanchezza e di inquietudine. Forse era meglio se restavano tra quei vialetti ordinati e le divise bianche, forse avrebbero potuto giocare ancora un’ora, trovare un altro padre e un altro figlio, capire se erano migliori di loro.
Anche lui ha sempre trovato la domenica noiosa, ma forse questa non è la parola esatta, forse la domenica è solo un campo vuoto, e i pensieri arrivano da chissà dove a riempirlo. Si posano come uccelli neri sul filo della biancheria, quando tutti i panni puliti sono ritirati. Immagini scomposte, una donna grassa nuda in un letto con le gambe aperte e un cappello in testa, un funerale seguito da una torma di cani, un albero secco, la madre ancora ragazza che cammina sul bordo dell’autostrada, una pioggia rossa, immagini che Alessandro vorrebbe respingere, quando da solo la domenica sera cerca qualcosa da fare e non trova nulla che valga la pena, ma le immagini si moltiplicano, si accoppiano, procreano. Bisogna mantenere il controllo, stare sempre attenti, pensa Alessandro, fare ordine perché nulla si sbandi, la mente è un cane maremmano.
Guarda il figlio che cammina proprio sul bordo, che si sporge a osservare un’anatra ferma in quell’acqua fetida.
Suo figlio sta lí, nei suoi occhi attenti, nei suoi occhi distratti: e l’attimo dopo non c’è piú. Il fiume ha aperto la bocca e ha bevuto il bambino.
– Il bambino è caduto nel Tevere! – grida una voce.
– Salvat...