1. Una strategia nazionale.
Giulio Einaudi imposta fin dall’agosto 1938 una strategia di ampio respiro. Casa Einaudi in sostanza non vuole «essere un altro esempio di “editoria minore”, ma una casa editrice di impianto nazionale e di larga diffusione», come ha ben sintetizzato Luisa Mangoni. Rientrano in questo programma l’apertura nel 1941 della sede romana con Alicata, Muscetta, Pintor e piú tardi Pavese, e dallo stesso anno i rapporti con Bottai come passaggio quasi obbligato per un editore che voglia esercitare un ruolo di protagonista tra le difficoltà del Ventennio1, oltre a un’iniziativa promozionale come la Settimana Einaudi per vari anni e in varie città. Ma appare significativa soprattutto un’articolazione di collane che sottintende l’aspirazione a conquistare nuovi spazi di lettura e di mercato, secondo un preciso leitmotiv nella progettazione e conduzione delle edizioni: la preoccupazione cioè di rivolgersi con opere di alta qualità «a un pubblico piú ampio di quello degli uomini di cultura»2.
Si vengono delineando cosí quelli che diventeranno alcuni dei tratti sempre piú specifici della produzione einaudiana, coerentemente con quella strategia generale: un antiaccademismo che non è corrività, un rigore che non è specialismo, un’editoria di cultura e di durata che non ignora il mercato, una ricerca della novità che significa anche rinnovamento della tradizione, una produzione non generalista ma ben diversificata, e una qualità elegante e insieme funzionale del prodotto, dalla cura del testo e del paratesto alla confezione grafico-tipografica, con un prezzo di copertina proporzionalmente non troppo elevato3. Anche se non mancheranno segnalazioni a Pavese e ad altri di «traduzioni mediocri», errori nella confezione del prodotto, «guasti» nelle copertine da parte di Natalia Ginzburg, Antonio Giolitti e Giulio Einaudi4. Che sono soltanto alcuni degli esempi rintracciabili nei vari carteggi einaudiani.
Molte delle collane varate tra il 1937 e il 1942 sviluppano un discorso fondato sulla compresenza di discipline e generi diversi, grandi classici e classici moderni, testi acquisiti, novità e riscoperte, che prendono reciprocamente significato e funzione. Un discorso che è segnato da un’attiva problematicità, con una ricerca di nuovi valori che si preciserà e intensificherà piú tardi, nella prospettiva della Liberazione. Mentre, in generale, si può dire che le libere scelte nella mutata situazione del dopoguerra si muoveranno anche all’interno di una evoluzione ideale delle collane preesistenti e dei progetti non realizzati, sia pur con significativi mutamenti e ripensamenti e novità, soprattutto per i temi sociali e politici5.
La casa editrice di Giulio Einaudi si svilupperà attraverso fasi storiche contrastate e profonde trasformazioni dell’editoria dall’artigianato all’industria, caratterizzandosi nei successivi decenni per una felice singolarità che si può cosí riassumere: una Casa-laboratorio di alta cultura e di opposizione, di ricerca e di mercato, di studio e di trasformazione della società, capace di mantenere la sua connotazione e dimensione nazionale e torinese all’interno di un rilievo europeo e mondiale, documentato anche dalle traduzioni di testi stranieri da parte della Casa e di testi italiani da parte di case editrici straniere. Già significativo di quella strategia nazionale appare il decentramento delle sedi, da Torino a Roma a Milano.
Un aspetto esterno ma non certo secondario è rappresentato dalle copertine. Prendendo come esempio alcune collane letterarie degli anni pavesiani, si passa dal pittore Francesco Menzio attivo negli ambienti artistici di Torino (che illustra praticamente tutte le copertine Einaudi fino alla fine della guerra) a una lunga serie di artisti moderni o classici come Guttuso e Cassinari, Picasso e Chagall, Morlotti e Carrà, Matisse e Renoir, Manet e Shahn, Turner e Bosch, e cosí via. Pavese puntualizza questo passaggio nell’Antologia Einaudi 1948 parlando appunto per I coralli dell’«attenta ricerca di un particolare, di una decorazione da un grande quadro di Renoir, di Daumier, di Picasso, di Van Gogh, di Carrà, di Matisse, di Chagall, di Moore», in «un sottile lavoro d’interpretazione e illuminazione» del testo. Qui c’è poi da parte di Pavese una teorizzazione piú generale: «sovente un accostamento tra uno scrittore e un gusto figurativo preesistente vale un intero saggio critico»6: un’acuta valorizzazione editorial-culturale della grafica che ha per cosí dire il suo rovescio in un’altra affermazione del 1943 su una collana-contenitore di scarsa identità come Corrente, alla quale, scrive, «pare che il padrone, colpito dai nostri rimbrotti, riservi […] l’ultimo posto, e per sottolinearne agli occhi del pubblico il carattere di troiata le dia apposta una veste indecente»7.
Si verranno precisando anche i tratti fondamentali del lettore Einaudi: lettore colto ma non specialistico, aperto a interessi molteplici ma non provvisori, a letture di letteratura, di storia, di politica e di altro. Lettore che si muove tra ideologia e laicità, collocandosi politicamente all’opposizione. Lettore di novità e di catalogo, e piú ancora che abituale, fedele. Lettore che si sente parte viva e consapevole del progetto Einaudi. Lettore che si forma anche attraverso forme raffinate e intelligenti di confezione del prodotto, di informazione e di promozione (e attraverso un rapporto consapevole con il libraio, e almeno in parte attraverso canali di distribuzione non neutrali come quelli di partito). Tanto che si definirà via via una sostanziale specularità tra l’identità e l’immagine della Casa, la sua produzione e presenza nel mercato, e la fisionomia del consulente, dell’autore, del libro e dello stesso lettore Einaudi. Un ruolo fondamentale nella costruzione di questa specularità avrà Roberto Cerati.
È soprattutto qui che cade a proposito un discorso su di lui, che di Giulio Einaudi è «consigliere personale» fin dai primi anni cinquanta, molto al di là del suo ruolo di direttore commerciale. Nelle lettere in cui da Milano, con linguaggio funzionale e colto, lo ragguaglia sulle vendite e sullo stato delle librerie in Italia, e sulla domanda del lettore, Cerati parla di molte altre cose: commentando, con una franchezza e concretezza fatta di suggerimenti e di critiche le scelte editoriali, il lavoro della redazione, dell’ufficio stampa e dell’ufficio pubblicità, e lo stesso assetto aziendale; riferendo i risultati di una sua politica d’autore; indicando i candidati piú adatti a concorrere nei premi letterari; eccetera eccetera. Nell’Archivio Einaudi si possono trovare molti suoi pareri di lettura e proposte di progetti. Persona semplice, umile, disponibile, e al tempo stesso orgogliosa, autorevole, sicura, Cerati ha un forte spirito di appartenenza e un profondo legame con la tradizione e l’identità Einaudi. C’è molto di lui in questa sua affermazione: «un viaggiatore ama la merce ancora prima di averla, e la ama in esclusiva»8.
Facendo un salto all’indietro nel tempo, va ricordato che i suoi primissimi contatti con Casa Einaudi sono segnati da tre rifiuti editoriali, quando Cerati frequenta la redazione del «Politecnico» a Milano ma non lavora ancora in casa editrice. Cerati scrive da Cressa, in provincia di Novara, e nel corso del 1946 propone a varie riprese e senza fortuna alla «Spettabile casa Einaudi» un’antologia di giovani poeti, un saggio su Pirandello (autore su cui si è laureato) e un saggio su Hemingway9. Ma è documentato anche quello che è probabilmente il primo indiretto incontro con Pavese, che sulla nota interna in cui gli si chiede un parere sulla proposta dell’antologia scrive a mano il suo «no!»10.
Episodi non soltanto curiosi, che confermano la cultura e la vocazione einaudiana di Cerati, e confermano altresí un fenomeno ampiamente documentato e spiegato: l’esistenza cioè di una Provvidenza laica, che conduce sempre i rifiutati meritevoli a un miglior destino. «Niente di meglio d’un rifiuto» insomma11.
Qualcosa di quanto si è detto di Roberto Cerati si ritrov...