L'Agnese va a morire
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L'Agnese va a morire

Renata Viganò

  1. 256 pagine
  2. Italian
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L'Agnese va a morire

Renata Viganò

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« L'Agnese va a morire è una delle opere letterarie piú limpide e convincenti che siano uscite dall'esperienza storica e umana della Resistenza. Un documento prezioso per far capire che cosa è stata la Resistenza [...]. Piú esamino la struttura letteraria di questo romanzo e piú la trovo straordinaria. Tutto è sorretto e animato da un'unica volontà, da un'unica presenza, da un unico personaggio [...]. Si ha la sensazione, leggendo, che le Valli di Comacchio, la Romagna, la guerra lontana degli eserciti a poco a poco si riempiano della presenza sempre piú grande, titanica di questa donna. Come se tedeschi e alleati fossero presenze sfocate di un dramma fuori del tempo e tutto si compisse invece all'interno di Agnese, come se lei sola potesse sobbarcarsi il peso, anzi la fatica della guerra [...]». Sebastiano Vassalli *** In appendice una testimonianza dell'autrice sulla protagonista del romanzo. Completa il volume una nota biobibliografica.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
ISBN
9788858426814

Parte terza

I.

Il Comandante, Clinto e l’Agnese non andarono con gli altri. La baracca di Walter stava per allagarsi, dovettero trovare un posto per quella specie di magazzino, e questa volta lo scelsero proprio a fianco della strada provinciale, nella rimessa di una casa di contadini. Dissero che erano sfollati dal loro paese semidistrutto da un bombardamento, inventarono una parentela: l’Agnese era la mamma di Clinto, e il Comandante un cugino di lei. Per rimediare alle risposte difficili, pagarono molto per l’affitto. Nella famiglia, non buona né cattiva, vi erano molte donne: la madre, tre figlie, una nipote. Chiacchieravano un po’ sul principio, ma il viso duro dell’Agnese le teneva a freno. Clinto e il Comandante li vedevano poco, andavano via la mattina e ritornavano la sera. – Andiamo a lavorare per i tedeschi oltre il ponte di X..., – dicevano, e mostravano le carte della «Todt».
Il luogo aveva molte qualità negative. Era troppo vicino alla strada, in una frazione abitata da gente paurosa e tarda. Non un partigiano era venuto fuori da quelle case, gli uomini preferivano lavorare con i tedeschi, non volevano mettersi nei guai. C’era solo qualche renitente alla leva, non per fede ma per vigliaccheria, nascosto nel solaio da mesi, che per la clausura era diventato bianco e tremolante come le piantine di grano che si fanno crescere al buio per adornare i sepolcri il giovedí santo. Nessun altro apporto alla lotta clandestina.
Ma c’erano altri vantaggi: la rimessa aveva l’uscita verso i campi, e per un viottolo si arrivava a un canale nella zona allagata, e il resto della casa era occupato dal comando di una compagnia tedesca di sussistenza. Fu un’idea audace e sicura quella di metterci un comando di brigata partigiana.
L’Agnese riorganizzò il servizio delle staffette. Venivano a trovarla come amiche e conoscenti, stavano con lei un poco, nelle ore buone girellavano per l’aia, si facevano vedere a far magliette di lana, e calzettine, come pacifiche comari. Quando se ne andavano, portavano via dei sacchi, o delle sporte, o delle valige. L’Agnese si ingegnava a lasciar credere di fare il mercato nero. Intanto i giorni diventavano sempre piú scuri e corti, nella valle c’era spesso la tempesta: i barcaioli partigiani, anche i piú addestrati, in servizio di collegamento con le «caserme», faticavano a tener dritte le barche e a trovare la rotta nella nebbia.
Pioveva: gli uomini in mezzo alla zona allagata si addormentavano con la pioggia e si svegliavano con la pioggia. Tutto il tempo sentivano il battere delle gocce sul tetto e lo sciacquare delle onde spinte dal vento dentro le stanze del pianterreno. Le voci alte non coprivano quel suono, il silenzio lo ingigantiva. Di notte molti non potevano dormire, si agitavano nelle brande, e nello spazio stretto delle stanze la loro nervosità rumorosa destava i compagni che poi non erano piú buoni di riafferrare il sonno. Si accendevano dei litigi, che degeneravano in rancori strani, complicati dalla difficoltà di intendersi nelle diverse lingue, offesi dalla vicinanza imposta, non scelta, contatto odiato di reclusi in una stessa cella. Alcuni avevano l’ossessione delle barche, scendevano due o tre volte di notte per assicurarsi che fossero ben legate ai pilastri della stalla, che il vento non le portasse via. Risalivano tremanti di freddo, si riscaldavano nel fiato della stanza sotto le coperte pesanti, aspettando che finissero le ore per ricominciare un giorno che era come la notte, grigio invece di nero.
– Clinto, – disse il Comandante. – Stasera c’è una novità –. Rientrava dopo molti chilometri percorsi in bicicletta sotto la pioggia. Si avvicinò alla stufa accesa, e Clinto che stava asciugandosi le scarpe inzuppate, si strinse verso il muro per fargli posto. – Ascolta anche tu, Agnese, – disse il Comandante. Aveva in mano dei manifestini lanciati dagli aerei inglesi. Era Alexander che scriveva, il generale Alexander, quello che finora aveva detto ai partigiani: – Fate questo, fate quello, siete bravi, siete coraggiosi, verremo presto a liberarvi, ma intanto attaccate i tedeschi, distruggete i loro automezzi, fate saltare i ponti, spezzate i cannoni. Vi manderemo tutto ciò che vi occorre, ma in attesa fate la guerra con quello che avete. Fate la guerra in tutti i modi, lasciatevi ammazzare piú che potete, noi siamo qui e stiamo a guardarvi –. Le parole suonavano diverse, belle, ben fatte, ma il senso era questo, finora. Stasera invece il generale aveva cambiato umore. Diceva: – Per il momento non si fa piú niente, noi ci accomodiamo per l’inverno, abbiamo bisogno che il tempo passi. Abbiamo molto da scaldarci, molto da mangiare, in Italia si sta bene, rimandiamo alla primavera la vostra libertà. Intanto voi partigiani italiani sciogliete le formazioni, andate a casa, fate una lunga licenza, in primavera avremo bisogno di voi per venire avanti, vi avviseremo, vi richiameremo. Buona fortuna, partigiani italiani –. Anche questa volta le parole erano diverse, ma volevano dire questo, cioè un altro inverno di tormento.
Il Comandante lesse e spiegò. Poi disse una bestemmia che parve molto strana nella sua voce dolce. – Sciogliere le formazioni, – esclamò Clinto. – Per andare dove? Chi di noi potrebbe andare a casa? Siamo tutti ricercati o renitenti alla leva. E i cecoslovacchi, i neozelandesi, i russi possono andare a casa? – Sta’ zitto, – rispose il Comandante, – queste cose le so. S’intende che non è possibile che uno solo di noi vada a casa. Le formazioni restano. Il proclama serve soltanto per far conoscenza con i nostri alleati e provare una volta di piú che se ne fregano di noi –. Era irritato e stanco: posò i piedi contro la stufa, le scarpe bagnate fumavano. – Non sarà male mostrare che ce ne freghiamo di loro.
L’Agnese mise sulla tavola i piatti della minestra. Il lume a petrolio faceva poca luce; lo stanzone mezzo buio, con tanta roba accatastata e le brande distese in fila non aveva aria di casa, piuttosto di magazzino e di caserma, e un odore scialbo, come di polvere antica, di vecchie mercanzie, non vendute. Era un posto molto triste.
Clinto mangiava la minestra e si sfogava: – Ci piantano cosí, adesso che comincia la cattiva stagione. Ci hanno dato da bere tante «balle». Siamo stati proprio degli stupidi a rischiare la vita per far comodo a loro. Non gli manca niente, hanno abbondanza di tutto, per questo non hanno fretta. Aveva ragione Tom quando diceva che sono cattivi quasi come i tedeschi –. Anche il Comandante teneva la faccia china sopra il fumo caldo della minestra, mangiava adagio, senza molto appetito. Disse: – Senti. Per quello che hanno mandato fino adesso possiamo anche farne a meno. È tanto che promettono un lancio di armi. Non abbiamo mai visto niente: soltanto bombe. E allora di che cosa ti lamenti? Faremo da noi –. Si volse all’Agnese che friggeva la carne, ed era tutta rossa ed accaldata per la fiamma della stufa: – Tu che cosa ne dici, mamma Agnese? – Io non capisco niente, – rispose lei, levando dal fuoco la padella, – ma quello che c’è da fare, si fa.
Aveva ragione l’Agnese. «Quello che c’è da fare, si fa». Lei era abituata a contare poco sugli altri. Da tutta la sua vita, piú di cinquant’anni, si arrangiava da sola. Si sentiva un po’ stanca, le pareva che il cuore fosse diventato troppo grande, una macchina nel petto, una cosa estranea e meccanica che andava per suo conto, e lei faticava a portarla in giro. Non pensava mai a quello che avrebbe fatto dopo la guerra. Ne desiderava la fine per «quei ragazzi», che non morisse piú nessuno, che tornassero a casa. Ma lei non aveva piú la casa, non aveva piú Palita, non sapeva dove andare.
– Piove ancora? – domandò il Comandante. L’Agnese spense il lume e aprí la porta a vetri sul cortile, perché lo stanzone non aveva finestre; si sentí lo scrosciare sonoro sui sassi. – Domattina ci alziamo presto, – disse il Comandante. – Ci aspettano in brigata. E adesso andiamo a dormire.
La mattina si alzarono colla pioggia. La valle, la strada, i paesi sembravano disabitati, morti. Si vedevano poco anche i tedeschi. Gli aerei alleati facevano vacanza. Piú di tutti erano in moto i partigiani: barche e barche avanti e indietro nella valle. Venivano all’approdo nel canale, l’Agnese e le donne portavano i viveri, le barche partivano per una caserma, altre ne arrivavano per un’altra, l’Agnese e le donne portavano ancora viveri: cosí tutto il giorno, tutti i giorni, mentre seguitava a piovere.
Il Comandante e Clinto andarono via presto, dissero all’Agnese che non li aspettasse, rimanevano fuori un po’ di tempo. – Domani verrà Cappuccio da L... Per quello che ti occorre mettiti d’accordo con lui. Dei barcaioli ne ho bisogno io. Ti lascio due barche sole. Ci vorranno meno trasporti per le caserme perché molti uomini vengono con me in azione –. L’Agnese fece un sorriso contento. Le sembrava di essere ritornata ai tempi delle capanne, quando rimaneva ad aspettare in quel deserto di sole dell’accampamento. Guardò il Comandante e Clinto andar via nella pioggia. Sole e pioggia: era tutto uguale. I partigiani soffrivano.
L’Agnese afferrò l’ombrello, le due sporte piene, uscí nel campo, s’avviò al solito posto. Dal mattino era la terza volta che ci andava. Mancavano due donne, forse a causa della stagione. «Con questa pioggia si saranno ammalate, – pensava l’Agnese, – o non vorranno venire». Non avevano torto, era una brutta vita. Aveva preso molta acqua, in tutto il giorno. Non arrivava in tempo ad asciugarsi i vestiti, lo scialle, che già era ora di ripartire. I piedi li aveva sempre bagnati: anche adesso doveva portare le ciabatte, con le scarpe si stancava troppo. Camminava piegata da un lato, con le due sporte in una sola mano per potere con l’altra tenere aperto l’ombrello. Il canale non era molto lontano. Chiuse l’ombrello, si prese ancora dell’altra pioggia sulla schiena. «Un po’ piú, un po’ meno non conta niente, – pensava, – e adesso piove piano».
I tedeschi della compagnia di sussistenza non le badavano. Stavano spesso nel cortile, e sotto il portico della stalla, e lei o le staffette gli passavano davanti. Era strano come non facessero caso a quell’andare e venire nella zona allagata, che secondo gli ordini doveva essere deserta. Ma i tedeschi erano cosí: per un po’ di tempo vedevano una cosa sospetta e non se ne curavano, salvo a mettercisi d’impegno per saperne di piú, tutto a un tratto, come se si svegliassero. Le donne della casa, invece, qualche volta avevano azzardato a fare una domanda, leggermente, senza parere di tenerci troppo. L’Agnese rispondeva appena, con un sorriso lento: – Bisogna arrangiarsi. Si fatica a vivere –. E loro stringevano l’occhio, per far vedere che erano furbe e avevano capito: sempre la storia del mercato nero.
L’Agnese giunse in riva al canale. Non pioveva quasi piú, ma l’aria era bagnata, si sentiva lo stesso l’acqua sulla pelle. Vide arrivare la barca di lontano, riconobbe Tom che spingeva come un disperato col paradello per venire avanti controvento. Si meravigliò perché Tom comandava la «caserma» e non faceva servizio di barca. Egli si fermò all’approdo, saltò sulla strada. Le disse: – Agnese, c’è uno laggiú che gli dà di volta il cervello. Piange, dice che in mezzo all’acqua non ci può piú stare, che ha paura. Tu lo conosci, è Tonitti, un bravo compagno. Deve essere malato. Vuoi venire a vederlo? Forse da te si lascerà persuadere –. L’Agnese, dopo tanto camminare, avrebbe desiderato di tornare a casa e di mettersi a letto per sentirsi finalmente calda ed asciutta. Ma rispose: – Se c’è bisogno ci vengo –. E si avventurò col suo grosso corpo sulla stretta barca oscillante.
Tom puntò il paradello: adesso andava molto veloce, aveva il vento che gli dava la spinta. Furono presto fuori di vista, introdotti nel grigio compatto spessore della nebbia.
Ma alla «caserma» era già successo qualcosa: udirono passi e voci agitate, mentre l’Agnese saliva penosamente la scala, e Tom legava la barca. Si scontrarono con due che scendevano di corsa: – Che cosa c’è? – disse l’Agnese, che la loro furia aveva quasi rovesciata all’indietro. – S’è buttato giú, – disse uno dei due, mentre saltavano in una barca, e s’affannavano a strappare la corda. La barca fu spinta fuori, girarono dietro la casa, sotto il balconcino senza ringhiera del primo piano. Otto o nove partigiani erano su quel balcone, stretti l’uno all’altro per non cadere.
– S’è gettato di qui, – spiegò, tremante, Zero all’Agnese e a Tom, nella stanza che ormai s’era fatta buia. – Ha aperto la vetrata, è uscito sul terrazzino. Abbiamo pensato che volesse prendere un po’ d’aria. Ha detto: vado a fare una passeggiata. Credevamo che scherzasse, era stato abbastanza calmo e allegro tutto il pomeriggio –. Di fuori i partigiani cercavano di indicare a quelli della barca il punto dove doveva essere caduto, ma era scuro, non si vedeva niente. Le loro voci suonavano forti nell’eco rimandata dall’acqua. – Piú in qua, vicino al muro. Prova a tastare col paradello. Mi pare che ci sia una cosa nera che si muove –. Anche Tom era corso sul balconcino.
Nella confusa oscurità della stanza, l’Agnese si sedette su una branda: ascoltava le parole monotone di Zero che voleva raccontarle come era successa la disgrazia, e gli tremava la bocca mentre parlava, tutto il suo corpo tremava di rimorso e di angoscia. – È stata colpa mia. Gli sedevo vicino, povero Tonitti. È stata colpa anche mia. Non dovevo lasciarlo andare –. All’Agnese dette noia quel tono sempre uguale, piangente. Udiva i clamori di fuori, le voci, i colpi del paradello nell’acqua, un tumulto compresso, febbrile, fatto di tutte le ore morte che i partigiani avevano passato in quelle stanze, della loro stanchezza, della loro paura. – Forza ragazzi, – era la voce di Tom. – Bisogna trovarlo, bisogna trovarlo –. Poi un grido, l’urtare della barca contro il muro. – Eccolo. È qui –. E silenzio. E il rumore dell’acqua che ricasca quando si solleva un carico sommerso.
I partigiani sul balcone rientrarono ad uno ad uno. L’ultimo richiuse la vetrata. Si sedettero qua e là sulle brande. Qualcuno andò a cercare il suo angolo scuro, il suo posto di prigionia nelle altre camere. Solo allora s’accorsero che i quattro disertori dell’esercito nazista, due austriaci e due tedeschi, non si erano mossi, non avevano preso parte a nulla, come se, morti o vivi, non contassero per loro i compagni di pena. Sdraiati sulle brande in fila, immobili, svegli, respiravano nel buio.
Nella stanza del balcone un partigiano accese il lume a petrolio. Altri due erano scesi per aiutare a trasportare il corpo di Tonitti. Poi non s’intese piú niente. Ricominciava a piovere forte, l’acqua batteva sul tetto. – Che cosa fanno? – disse l’Agnese; e andò ad aprire la porta sulla scala. Chiamò: la sua voce parve enorme nel vuoto. – Veniamo, – risposero dal fondo. I passi grevi di chi sostiene un peso suonarono sulla scala. Entrarono in quattro reggendo il corpo magro, lungo e abbandonato. Lasciarono dietro di loro una traccia d’acqua. Sul viso del morto avevano messo qualcosa, un sacco o un pezzo di coperta. Le loro facce bagnate comparvero pallide nel raggio della lampada. Trasportarono il corpo sulla branda, lo copersero ancora, tutto, con una coltre di lana.
Tom disse: – Ha sbattuto la testa contro i sassi del cortile. Poi l’onda lo ha spinto contro la casa, contro la porta della stalla. C’era il ferro del catenaccio. Ha il viso tutto rotto... – Uno di quelli che erano saliti trasportando Tonitti si prese la faccia tra le mani, scoppiò a piangere forte come un bambino: – Io volevo andare con il Comandante, volevo andare in azione. Non mi ha preso, mi ha lasciato qui a morire. Voglio uscire di qui, andar via, andar via, andar via. – Basta, – urlò Tom. – Qui diventiamo tutti matti. Il primo che parla o che si muove lo faccio fuori. Tutti in branda, e dormite. E silenzio –. Spense la lampada. Ad uno ad uno si quietarono, si distesero. Soltanto l’Agnese rimase seduta. Guardava un quadrato di cielo chiaro, illuminato dalla pioggia, oltre il vetro della finestra. Ascoltava il cadere dell’acqua sulle grondaie rotte, lo sciacquare delle onde stanche al pianterreno: era un suono lungo, sordo, un battere senza scopo, che non finiva mai, non finiva mai.
S’era appoggiata un poco al cuscino, e tirò su le gambe per riposarle. Ma non voleva dormire perché le pareva che qualche cosa le pesasse sul petto, un affanno che sarebbe cresciuto. Invece s’addormentò, un velo appena di sonno, un’ombra che cancellò debolmente la coscienza di soffrire. In quel velo venne Palita, assente da tanto tempo. Si sedette sull’orlo della branda e le toccò un braccio: – Com’è dura, vero? Lo so che non ne puoi piú. Ma non è ancora l’ora di liberarsi, Agnese. È lontana, l’ora. Io vado... – Andò via senza finire la frase. Pareva distratto, accorato. L’Agnese lo vide aprire la porta sul freddo della scala, sentí in faccia veramente quell’onda fredda. Poi s’accorse che non era Palita, e dietro di lui, c’era un altro, e un altro, e un altro. L’ultimo richiuse piano la porta.
L’Agnese balzò a sedere sulla branda, sveglia, tremando: erano usciti in quattro, non era un sogno, cosí di notte, colla pioggia, forse per fare come Tonitti. Troppo dura questa vita, anche Palita lo aveva detto. Quelli che non ne potevano piú volevano morire. Il cuore le batté come un motore disordinato. Non fu buona di muoversi subito. Quando ricuperò il respiro, scosse Tom che dormiva nella branda vicina. Una voce, un rumore, e tutti saltarono su come se fossero stati desti e in attesa. Alla luce del petrolio si guardarono, si contarono: mancavano i quattro disertori dell’esercito nazista, due austriaci e due tedeschi.

II.

Venne su un’alba rosea, poi rossa, poi d’oro. C’era il sole che tutti avevano dimenticato. La valle era pulita e scintillante, di un azzurro chiaro, specchiato dal cielo nell’acqua. Le barche partigiane arrivavano in formazione, cariche, festose, come di ritorno dalla pesca. Il Comandante salí di corsa, e dietro a lui la compagnia, con le armi sotto il braccio, le facce ruvide dal freddo, ma vive, allegre. – Abbiamo preso Sant’A... per ventiquattro ore, – gridò Clinto sorpassando nella furia il Comandante. Entrarono in tanti, riempirono la camera, e pareva che tutti non ci stessero come prima, qualcuno rimase sui gradini della scala, e la stanza, anche col sole, pareva bagnata e triste.
– Avanti, muovetevi, – diceva Clinto. – Sei qui anche tu, come mai, mamma Agnese. Abbiamo fame. Abbiamo sonno. Fateci posto, siamo in piedi da ieri mattina –. Il Comandante sedette vicino all’Agnese, disse: – Clinto, sta’ zitto, fai venire mal di testa –. E parlò lui, con la sua voce dolce: – È stata una bella azione. Il paese occupato, morti tedeschi almeno duecento, morti nostri quindici, nessuno di qui. Una bella azione –. Tom si alzò di colpo dal suo angolo: – Ascolta, Comandante, – disse. – Tonitti è diventato matto e si è buttato nell’acqua, – mostrò il fagotto coperto sulla branda. – E poi stanotte ci siamo svegliati che quattro volevano andar via con le armi. Li abbiamo presi nella barca.
Stavano nell’ultima stanza della casa, all’oscuro, legati sulle brande. Il Comandante andò subito, fece aprire la finestra, li fissò in piena luce. Erano tutti e quattro molto giovani, biondi, ragazzi dell’ultima leva. Vedendolo entrare si misero a piangere. Tendevano le mani unite da un filo di ferro che stringeva forte i due polsi: le dita erano rosse e gonfie. – Perdio, – disse il Comandante, – chi li ha legati cosí? Cosa siamo, delle SS? Levategli quel filo di ferro –. Corse Tom, liberò le mani. Se le stropicciarono a lungo una contro l’altra, guardavano i solchi nella carne che quasi facevano sangue. Le lacrime si asciugavano sui loro visi magri, caldi. Il Comandante sedette in faccia alle brande, chiamò dentro Clinto, disse a Tom: – Va’ via e chiudi la porta.
Stette là poco tempo, non c’era gran che da dire. I prigionieri capivano appena l’italiano, e non lo parlavano. Si arrangiarono con le poche parole che Clinto sapeva di tedesco. Ma il loro atto non aveva bisogno di traduzioni: era internazionale, e voleva dire tradimento. Tentavano di andar via con le armi, quattro mitra e due sten: tutte le automatiche rimaste per quelli di guardia alla «caserma» mentre la compagnia era in azione. Si facevano la speranza che quelle armi rubate al sonno dei compagni partigiani servissero poi di passaporto per rientrare nelle file dei camerati nazisti, di difesa per non essere fucilati. Ritornavano fra i loro, dopo la diserzione, con un’altra diserzione. Ma sapevano che il perdono tedesco costa molto, non è facile da ottenere, le armi non bastavano. Ci voleva di piú: e allora offrivano in cambio una base partigiana, una cinquantina di uomini, il Comandante ...

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Stili delle citazioni per L'Agnese va a morire

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Viganò, R. (2017). L’Agnese va a morire ([edition unavailable]). EINAUDI. Retrieved from https://www.perlego.com/book/3425933/lagnese-va-a-morire-pdf (Original work published 2017)

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Viganò, Renata. (2017) 2017. L’Agnese va a Morire. [Edition unavailable]. EINAUDI. https://www.perlego.com/book/3425933/lagnese-va-a-morire-pdf.

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Viganò, R. (2017) L’Agnese va a morire. [edition unavailable]. EINAUDI. Available at: https://www.perlego.com/book/3425933/lagnese-va-a-morire-pdf (Accessed: 15 October 2022).

MLA 7 Citation

Viganò, Renata. L’Agnese va a Morire. [edition unavailable]. EINAUDI, 2017. Web. 15 Oct. 2022.