XXX. Giles.
Giles si svegliò con un breve latrato di disappunto. Il cicalino Alzati-e-sorridi sfumò, la radio sfrigolò e la macchina si accinse sferragliante a preparare il grezzo baby bullshot – che comunque Giles non beveva mai.
Fuori dal letto sembrava un pessimo posto dove stare, ultimamente. Gli venne addosso di traverso quando atterrò sul pavimento, e gli si srotolò diagonalmente accanto quando si avventò sul frigo, come se l’intera casa si ergesse su una frana. Giles ondeggiò contro lo sportello del frigorifero. Di solito partiva convinto che avrebbe vomitato e poi si scolava minimo mezzo litro di vodka e succo di pomodoro, ma quella mattina, sabato mattina, si sentiva lo stomaco sottosopra. Perché? Il venerdí notte gli sventolava in testa come un ventaglio di vecchie foto arricciate.
Strinse le mani a coppa sul bicchiere bagnato e se lo portò cautamente alle labbra. Lo vuotò d’un fiato, ebbe un terribile conato di vomito e si chinò per riempirlo di nuovo.
– Glu glu, – disse Giles. – Glu glu glu.
Negli ultimi tempi Giles aveva preso l’abitudine di dormire vestito – o «preabbigliato», come a lui piaceva pensare. Tutto ciò che aveva da fare, quindi, nella mezzora che precedeva l’arrivo del suo taxi, era scendere al di sotto della linea di galleggiamento della sobrietà.
– Luigi, Luigi, – borbottò mentre l’alcol sciabordava contro il suo cervello sbaffato.
(Luigi era lo chauffeur di Giles. Dopo tre mesi di ozio assoluto nei suoi appartamenti presso il pub Gladmoor, Luigi aveva riportato la Daimler a Londra e avviato un piccolo autonoleggio, con gli indefettibili assegni mensili di Giles a coprire le spese di esercizio. Ogni volta che doveva andare da qualche parte, a Giles affiorava ancora alle labbra il suo nome, anche se non aveva piú un’idea precisa di cosa stesse a designare).
Andò alla finestra. Sbirciò con occhi umidi il prato scintillante. Sorseggiò. Prese in considerazione l’idea di lavarsi i denti e scrollò la testa dubbioso. Sorseggiò. Ebbe un conato di vomito che non cambiò la sua espressione. Sorseggiò.
– Vecchia mia, – disse. – Vecchia mia, perché mi vuoi vedere?
Si sedette alla scrivania e passò e ripassò le dita sullo scivoloso vetro rosso.
– Ancora troppo presto per piangere, – disse. – Troppo presto, adesso.
Si piegò a prendere le scarpe, una accanto all’altra sul pavimento. Il calzino sinistro, si accorse, era bucato, e scopriva un alluce bianco e tremante. Si sporse in avanti e risistemò con cura il tessuto liso.
– Bimbo Giles, – disse. – Bimbo Giles.
La bocca della madre di Giles comprendeva, da sinistra a destra, un affusolato canino superiore che erodeva l’alveolo necrotizzato un millimetro all’anno, due lunghi denti davanti a forma di zeppa che si accavallavano come dita incrociate strette, un’infilata di molari frantumati, un incisivo inferiore giallo come la luce del sole attraverso un vetro opaco, un E1 che somigliava a un tozzo fiammifero usato e una sghemba zanna solitaria che sporgeva dalle labbra anche a bocca chiusa. Maria Coldstream sosteneva che i suoi denti si fossero ridotti cosí durante la gravidanza e la nascita leggermente prematura di Giles; prima, sosteneva, erano forti e ordinati.
Fatto sta che Giles si sentiva male ogni volta che gli si avvicinavano – lucenti e disparati fra gli intensi colori della serra, tenoni monocromi nell’ingresso buio, umide ombre al suo capezzale. Lo assalivano all’infinito, un’accozzaglia che seguiva qualunque recriminazione o supplica o bacio. La sera percorrevano scricchiolando il lungo corridoio fino alla sua camera e penetravano dalla porta bramosi come sogni tristi.
La signora Coldstream non sapeva di spaventare a tal punto il proprio unico figlio, e apprenderlo l’avrebbe profondamente addolorata. Anche quando il suo atteggiamento divenne, in base a parametri pressoché universali, davvero terrificante, Maria non ebbe mai il sospetto di riservare a Giles attenzioni che non fossero calorosamente ricambiate. Questo perché i suoi lobi frontali avevano iniziato a smettere di funzionare ogni volta che – per esempio – raggiungeva Giles nel box doccia al piano di sotto dopo le sue partite di cricket del giovedí al campo del paese, ogni volta che si offriva di spogliarlo prima dei pisolini della domenica pomeriggio, ogni volta che lo baciava a sangue sulla bocca la sera prima di dormire.
In tre occasioni Giles si era svegliato – con il solito sole, il solito fracasso del termosifone –, si era stirato matrimonialmente nel suo vasto letto a baldacchino, aveva socchiuso gli occhi e sorpreso la madre piazzata accanto a lui. Le prime due volte la signora Coldstream aveva subito ripreso coscienza quel tanto da scivolarsene assorta fuori dalla stanza. La terza mattina, quella in cui l’avevano portata via, Giles era rimasto steso lí per novanta minuti, una statua di terrore e occhi attoniti davanti alla bocca della madre, semiaperta sul cuscino zuppo di sangue.
Alcune considerazioni sulla vita sessuale di Giles.
Tanto per cominciare, alle ragazze del paese lui piaceva. Erano solite riunirsi nel negozio di dolciumi dove Giles, timido traghettatore di gomme da masticare e lecca lecca, avvampava sotto i premurosi sguardi d’incoraggiamento del figlio del giardiniere. Quando in paese arrivava il luna park, e si trattava di sederglisi accanto sulle giostre e gli autoscontri, le ragazze facevano a turno. Alle sagre, alle vendite di beneficenza e in qualsiasi altra manifestazione dove si potessero ottenere divertimento e merci varie in cambio di denaro, Giles era sempre pronto a sborsare. Otteneva di baciarle dopo le partite di cricket. Ed era molto richiesto ai balli del circolo giovanile nella chiesa in fondo alla strada. Nelle mezze giornate di vacanza giocava al gioco della bottiglia per pomeriggi interi sulle colline dietro casa.
Lo chiamavano Piccolo Lord. La cosa lo gratificava, e cercava sempre di apparire elegante, si faceva stirare i pantaloni di velluto a zampa di elefante dalla signora Baden, scendeva il vialetto in punta di piedi raddrizzandosi la grigia divisa scolastica, si voltava guardingo verso la casa, vittoriana e aliena nelle prime ombre della sera, veniva raggiunto al cancello da una caustica banda di ragazzine dalle crespe chiome che lo scortava su per il lungo sentiero sopra il lago e poi, tra i risolini, lo trascinava nel sottobosco sul fianco della collina per infliggergli solletico, pizzicotti e amorevoli insulti. Quindi, a intervalli misteriosi, scompaiono tutte tranne una. Lei incrocia le braccia sul petto per sfilarsi dalla testa una crepitante maglia rosa e si gira e si abbassa la lampo del vestito, tendenzialmente blu marina e tutto spiegazzato. Giles aspetta il momento buono, ansimando sommessamente per l’incredulità e la gratitudine. Raramente la ragazza porta biancheria abbinata. Giles l’assiste cautamente nella rimozione di un indistinto reggiseno, come se non avesse nemmeno l’ombra di un’erezione, continua a osservare il tempo e gli alberi inquietanti mentre lei si sfila le mutande e lo aiuta con le sue. Capita che un teso Coldstream le monti sopra per dieci secondi prima che lei si allontani rossa in viso e sarcastica.
Allora lui si tira su a sedere senza fiato, si alza in piedi, si precipita giú per la vasta collina mulinando le braccia come esili ruote di carro, piscia controvento, urla nelle buie onde della campagna, cerca di saltare il cancello, cade, ci si arrampica vibrando come un diapason e sfreccia attraverso il prato diretto dal figlio del giardiniere.
Il figlio del giardiniere. – Cos’è successo? – Me l’ha lasciato fare! – Quale di loro, Giles? – Ellen. – Stacci all’occhio. Quella se la fa coi ragazzi di Dowley. – Però è stata molto carina. No, davvero. – E quindi com’è andata? – Oh, ho lasciato a desiderare anche stavolta. – Vabbè. Comunque. – A me è piaciuto.
E cosí scendono al lago e si siedono sul ceppo e fumano cicche e parlano fino a notte. Poi si baciano timorosi, e tornano a casa per il prato l’uno nelle braccia dell’altro.
Fuori dal Dowley Kinema, un mercoledí sera, il figlio del giardiniere scomparve dentro il pub per comprare due cartocci di patatine. I ragazzi del posto si fecero avanti, jeans sbiaditi arrotolati alle caviglie, camicie a strisce senza colletto, bretelle sgargianti e capelli a zero, l’alito di tabacco nell’aria autunnale. Giles si girò; per l’ultima volta in vita sua con una faccia aperta e fiduciosa. A un tratto il marciapiede bagnato gli scivolò addosso e lo colpí alla spalla. In un tempo che parve eterno, Giles piegò le braccia a coprirsi il viso. Quando il primo stivale gli sfondò la bocca, Giles pensò a sua madre, consapevole che l’orrore di ciò che gli stava accadendo era destinato a durare.
Ma adesso i denti incombevano su di lui e non se ne andavano piú. E continuavano a dirgli:
– Faremo tornare la signora Baden, perché era davvero la tua cuoca prediletta, tesoro, non è cosí? Lo era, lo so. E la tua camera, naturalmente, va rasa al suolo e ricostruita. È assurdo pensare che tu l’abbia sopportata per tutto questo tempo. Potremmo semplicemente richiamare l’uomo che ha lastricato la piccola serra perché te la rifaccia lui, la camera… sarà in grado? Sono in grado? Quelli che fanno le serre? Le serre piccole?
In piedi davanti alla grande finestra, Giles fissava le bamboline folli sul viale. – Sí, mamma, – aveva borbottato.
– Vedi? Oh, tesoro, sapevo che l’idea ti sarebbe piaciuta un sacco!
La signora Coldstream era maniaco-depressiva. A Giles, da bambino, le sue fasi maniacali non dispiacevano, ma adesso cercava sempre di beccarla depressa. Preferiva. A volte era talmente depressa che potevi soltanto aspettare che passasse, guardare la luce muoversi con lei, che beninteso se ne stava a fissare il vuoto in lacrime. Una o due volte, Giles era semplicemente sgattaiolato fuori dalla stanza dopo un quarto d’ora.
Quel giorno però era in fase maniacale, e la faccia di Giles fluttuava sul vetro.
– Giles… caro… vieni ad abbracciarmi.
Giles si voltò verso di lei con occhi ritrosi. – Mamma, – disse, – c’è qualcosa di bello alla tv?
– Giles… Non ho voglia di quell’affare! Voglio solo che mi abbracci… tesoro, tesoro, ti prego. Non ce la faccio. Un attimo, solo un attimo.
– Accidenti, mamma,...