Amori sospesi
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Amori sospesi

  1. 320 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Amori sospesi

Informazioni su questo libro

L'eros, dispettoso e irresistibile, potente e imprevedibile, s'incunea in tutte le stagioni della nostra esistenza, capace ogni volta di rivelarci nudi a noi stessi. Si leggono cosí, come un unico molteplice tessuto narrativo, i dieci racconti di cui si compone questo libro. La comica, malinconica, commossa, autobiografia erotica e sentimentale di molti uomini in uno. Il desiderio e il tramonto del corpo sembrano contrapporsi e invece si rispecchiano e si accendono, nel ricordo e nella vitalità, nello struggimento e nella fantasia, nelle parole inesauste di una narrazione ininterrotta. Ed è di questo che parlano, sornioni e malinconici, irriverenti e divertiti, i dieci racconti di cui è fatto questo libro. C'è un addio iniziale, breve e lancinante come tutte le prime volte. Un bambino spaurito che lascia la mano della mamma il primo giorno di scuola. C'è un addio finale, lento e lancinante come tutte le ultime volte: un uomo che esce piano dalla sua lunga vita coniugale e familiare, per tornare gradualmente, irreversibilmente, nei territori dell'infanzia. E c'è un ultimo addio, lancinante e basta. Ma dolcissimo, perduto nell'estasi. Tra l'uno e l'altro, di racconto in racconto, il desiderio e i suoi fallimenti fanno emergere nei protagonisti il loro piú profondo modo d'essere; e la fine, quando arriva, soffice o drammatica che sia, è la conseguenza inevitabile, dolce e amara, di quella scoperta. Insomma, un'ininterrotta sequenza di inizi e di finali, cosí come è fatta la vita: ogni racconto una storia d'amore e di passione, palpiti, struggimenti, felicità del corpo e malinconia. Si legge come un romanzo di formazione erotica e sentimentale, questa raccolta in cui Alberto Asor Rosa, con ironia sottile e sguardo emozionato e disincantato insieme, dà la sua piú magistrale prova stilistica.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806226268
eBook ISBN
9788858424957

Trippoli1

I.

Se a qualcuno fosse venuto in mente di dirgli che avrebbe avuto un figlio intellettuale, – in-te-le-tuale? beh, insomma, una creatura umana qualsiasi, un essere vivente normale, tuttavia destinato per sopravvivere a contare piú sulle sue attività cerebrali che sulle sue braccia e sui suoi muscoli, – Francesco Ciaramella avrebbe reagito con una risata. Francesco, detto Cecco, anzi, piú solitamente nelle interlocuzioni dei suoi compaesani, «o Ce’», «a Ce’», era un contadino della piana che sta tra Frosinone e Pontecorvo, piena Ciociaria per intendersi, anzi, piú esattamente, tra Frosinone e Aquino, nelle cui campagne aveva una casa di massetti di tufo e qualche ettaro di avara terra (un po’ di seminativo, un piccolo vigneto, qualche ulivo; in aggiunta, un gregge di sette-otto pecore, una coppia di buoi e un somaro). Francesco era figlio di contadini che erano stati figli di contadini che erano stati figli di contadini che erano stati… Siccome non si sa mai con esattezza dove cominciano le storie delle stirpi (piú facile indicare dove finiscono), si sarebbe potuto dire sbrigativamente che, fin dove arrivava l’occhio dietro le sue spalle, non si vedevano che contadini, servi della gleba, piccolissimi proprietari o affittuari incattiviti dalla fatica e dalle disgrazie, poveracci incatenati a quella terra sassosa e di difficile contentatura. E anche i suoi figli, due maschi e una femmina, avuti da Giovanna, una traccagna di buon carattere venuta per via di mediatori dalla vicina Roccasecca, e procreata anche lei, a sua volta, nello stesso modo, da un amplesso ricco di foga fra un solco e l’altro di un campo appena arato, sarebbero stati dalla nascita, e poi per sempre, vincolati alla medesima sorte.
Ma…
Il piú grande dei tre era la femmina: si chiamava come la madre, perché in famiglia nessuno dubitava, – pur ignorandone del tutto, ovviamente, l’origine semantica, – che Giovanna fosse il piú bel nome di donna che mai fosse stato immaginato: era grossa e robusta, con ampie mani e, da una certa età in poi, un seno di vaste proporzioni; l’idea di dirazzare dalle caratteristiche della stirpe non le sarebbe venuta in mente a nessuna condizione: dai dieci anni in poi circolava tra i fornelli e i lavori dei campi con giudizioso attivismo. Il secondo si chiamava Leopoldo, in onore del nonno materno, ed era detto abitualmente Poldino, grosso e robusto anche lui, ma con una sfinitezza negli occhi che poco in quella situazione si riusciva a spiegare, e che tuttavia non gli impediva di esercitare le sue funzioni (pascolo del gregge, cura del pollaio, ripulitura dei campi dai molti sassi che li popolavano) con sufficiente impegno e alacrità, anche se senza entusiasmo. Il terzo era piú minuto e sottile, ma la taglia era la stessa: testa grande, cranio rotondo, mascelle pronunziate, corporatura tozza, arti visibilmente raccorciati rispetto alla misura complessiva del corpo; uno gnomo d’altri tempi, un nanetto di Biancaneve, ma senza tracce di bellurie waltdisneyane. Quanto al nome… Per spiegarne l’origine, bisogna fare ricorso alla grande storia culturale dell’Occidente (per quanto tutto ciò possa apparire totalmente sproporzionato rispetto alla vicenda fin qui descritta). Aquino, paese poco ragguardevole da molti altri punti di vista, resta nella memoria di tutti (per lo meno di molti) per costituire il tratto cognominativo, – toponomico, come in altri tempi sovente accadeva, – di uno dei piú eccezionali pensatori, fra i piú ingegnosi e profondi, che la vicenda umana abbia mai conosciuto: Tommaso, detto appunto d’Aquino. A dir la verità, in questa associazione, che ha legato per sempre il modesto paese del frusinate ad una delle vette del pensiero umano, si potrebbero fare delle precisazioni non irrilevanti. Tommaso d’Aquino, infatti, era nato piú esattamente a Roccasecca (la patria, se mai, di mamma Giovanna) e tale s’era chiamato, appunto, non perché nato ad Aquino ma perché uscito dalla stirpe dei conti d’Aquino, che al momento della sua nascita governavano, appunto, non piú Aquino ma Roccasecca: stirpe nobile, dunque, è appena il caso di dirlo, simili profondità di pensiero hanno sempre avuto bisogno per manifestarsi e fiorire d’altro concime che di quello misero e puzzolente sparso sui campi da povere mani contadine. Come che sia, nei secoli ad Aquino di Tommasi da allora in poi ce n’erano stati tanti, per quel meccanismo identificativo e devozionale che in altri tempi ha avuto cosí grande fortuna; e anche il terzo piccolo erede di Cecco e Giovanna cosí fu denominato, con un atto di rispetto e insieme di fiducia nella Provvidenza, che i parroci della zona con la loro autorevolezza non facevano che incrementare intorno a loro.
Tommaso Ciaramella, prima di essere avviato come suo fratello e sua sorella al lavoro dei campi, cominciò a frequentare le scuole elementari in uno sperduto borgo campagnolo, dove affluivano a sciami i bambini del luogo. La prospettiva, come per tutti i suoi coetanei, era quella (poiché non se ne poteva fare a meno) di rispettare l’obbligo scolastico per due-tre anni, al massimo quattro, ma mai, comunque, cinque, e tanto meno ovviamente oltre i cinque – per poi lasciar perdere, ché non ne valeva proprio la pena di sprecare altro tempo per gente che non avrebbe né letto né fatto di conto mai piú nel corso di tutta la sua vita; e comunque c’era un bisogno assoluto delle loro braccia (quand’anche ancora in molti casi tenere braccine) altrove. Le cose andarono diversamente. Qualcosa non funzionò nel programma. È sempre cosí che accade quando accade qualcosa di nuovo (i cui esiti, comunque, sono imponderabili fino alla fine, e talvolta anche oltre). Tommaso a scuola apprendeva con facilità inusitata. Ma non era soprattutto questo. Il fatto è che tra la parola scritta e quella orale lui, contro ogni preminente tendenza locale, sembrava di gran lunga preferire la prima. Taciturno e impacciato, poco comunicativo con i compagni spesso ridanciani e aggressivi, quando aveva un libro davanti a sé si ricomponeva all’istante, si ricollocava perfettamente a suo agio in quel mondo fatto di segni astrusi ed astratti, nei confronti del quale i suoi compagni ostentavano un’estraneità pressoché illimitata: era capace non soltanto di comprendere e interpretare, – come se a casa sua non si facesse altro da generazioni, – ma anche di restituirne il senso, non soltanto, anche in questo caso, con la parola orale, ma ancor di piú con la medesima parola scritta, di cui il testo, di volta in volta praticato, era composto (dalle lettere di natura inequivocabilmente alfabetica persino agli astrusi segni matematici e geometrici). Tommaso, insomma, per cosí dire nomen omen? Non si sa, nessuno lo sa, chi eventualmente lo sapesse non sarebbe in grado di spiegarlo agli altri. A completare il quadro è il caso di aggiungere che, mentre compiva quelle operazioni, e cioè ascoltare, capire, leggere e scrivere, – dalla cui ragionata connessione usciva cumulativamente il disegno inaspettato e pressoché prodigioso niente di meno che di un’inversione genetica di tendenza, – il piccolo Tommaso riplasmava le sue fattezze e le sue attitudini corporee in maniera piú composta e armonica di quanto Madre Natura avesse per lui progettato e predisposto: lo sguardo da vitellino gli si schiariva e allargava, sul volto prendeva a vagargli una sorta di nebuloso sorriso, le braccia e le mani, coricate passivamente fino allora sul duro asse del banco alla pari della maggior parte dei suoi compagni (i piú costumati, s’intende), si animavano di fremiti e di movenze, di gesti e ricami in aria apparentemente senza senso, in realtà strettamente legati per lui all’andamento del suo filo mentale interiore. Insomma, non solo il pensiero, astrattamente considerato, dava il suo contributo (primario, non v’è dubbio, ma appunto non esclusivo) a quella metamorfosi, ma il corpo, docile, volentieri gli si accodava, gli forniva il supporto della sua forza comunque vergine, primigenia, ancora contadina, pur senza esserlo piú.
Il maestro, un «cittadino» di Frosinone, immerso da due decenni, ormai senza speranze di ritorno, nella realtà ribollente e intellettualmente poco ferace di quella scuola contadina, prima si stupí, poi trasecolò, infine si arrese soddisfatto all’evidenza di quella stranezza: nella grande massa dei suoi felici e inconsapevoli selvaggi era emerso un virgulto d’altra razza. Dopo matura riflessione convocò Cecco e Giovanna: ecco, Tommaso cosí e cosí, molto bravo a scuola, scrive e legge bene, meritevole di continuare a studiare, eccetera eccetera. Cecco e Giovanna ascoltarono allibiti: lí per lí pensarono che fosse capitata loro una grande sciagura. Fu chiamato a consulto il parroco, giovane, molto ignorante ma molto ambizioso: i compiti scritti di Tommaso, – temi, riassunti, esercizi grammaticali e sintattici, – per quanto risultassero agli occhi della maggior parte di quegli interlocutori niente piú che dei misteriosi geroglifici, furono sciorinati al cospetto di tutti come in una fiera di paese. Cecco e Giovanna, com’è ovvio, non capivano niente nel merito; ma l’eloquenza appassionata del maestro e l’occhiuta (e, come si vedrà poi, tutt’altro che disinteressata) attenzione del parroco risvegliarono anche il loro interesse. Si aprí uno spiraglio. Ma sul come e sul cosa restò una grande incertezza.
La soluzione, come da tempo immemorabile accade (e per motivi diversi, come tutti sanno, continua ad accadere), la trovò la Chiesa. A poca distanza dai luoghi dove la storia di Tommaso comincia, sorge da secoli una gigantesca abbazia, segno anch’essa della capacità propria di un tempo, – e oggi totalmente perduta, – di edificare su di una terra priva di qualsiasi senso e memoria un monumento carico oltre modo cosí dell’uno come dell’altra. In quell’abbazia funzionava un seminario, allora fiorente. Il parroco lo consigliò caldamente a Cecco e Giovanna: Tommaso avrebbe potuto continuarvi gli studi senza spesa alcuna per la famiglia. Il prezzo dell’operazione, piuttosto elevato, ma neanch’esso del tutto disprezzabile, era che Tommaso si predisponesse a diventarvi o monaco o prete: a tal fine, infatti, lí si educavano i giovani provenienti dalle famiglie contadine del luogo o talvolta anche benestanti. Del resto, un caso del genere c’era già stato in famiglia due generazioni prima: il fratello del nonno di Cecco, anche lui unico della propria classe, e anche lui di nome Tommaso, era stato anche lui sacerdote, ordinato nel medesimo seminario abbaziale. Tommaso, interpellato, abbassò la testa: leggere, scrivere, pensare, capire, – bene, per ora… poi chissà. Il maestro, il cui parere fu considerato comunque a quel punto irrilevante, chinò anche lui la testa: avrebbe preferito diversamente, ma non aveva nessun potere per cambiare la decisione. Tommaso, come al solito l’unico della propria classe, finí con lui la quinta elementare: poi, con un magro corredo di camicie, pantaloni, mutande e rozzi maglioni, si trasferí dodicenne in seminario.
Del resto, di un gran vestiario in seminario non aveva certo bisogno: infatti, gli fecero indossare da subito una di quelle vestine scure lunghe piú o meno fino ai piedi, che tanto assomigliavano alla tunica sacerdotale, che del resto tutti gli avventizi di lí a poco, e poi per sempre, avrebbero dovuto indossare. Rivestite di quell’uniforme dal lugubre colore, dal quale non si distingueva quello di cui erano ricoperti anche i loro professori, le classi non si potevano certo dire allegre a vedersi. Ma in fondo lí dentro, quanto e piú del sapere, si apprendevano materie come l’ubbidienza e la regola: che neanch’esse, si può dire, son fatte per smascellarsi dalle risate. Tommaso sfruttò la propria ineliminabile componente contadina per adattarvisi. I contadini sono (o per meglio dire: erano) come la terra: in caso di necessità si piegano al bisogno, alla maniera, appunto, della terra, la quale, invece di resistere, s’adatta docilmente (ma resistendo al momento e al punto giusto) alla vanga e all’aratro. Crescendo sbozzolò dalla propria ineliminabile matrice una sorta di messaggio di inedita e inusuale eleganza, per quanto lí non vi fosse nessuno minimamente in grado di raccoglierlo: il capo rotondo ricciutello, gli occhi scuri fermi ed intenti, la corporatura decisa ma non invadente, l’andatura un po’ meccanica ma armonica. Abituato a far da solo, si negò, senza bisogno di molto confliggere, ai giochini sessuali di gruppo che in qualche punto delle immense camerate dove i novizi dormivano, notte tempo si svolgevano. E con la forza dell’immaginazione sovrastò e fece propri, senza lasciarsene del tutto dominare, gli impulsi che dalla sua carne vergine anche a lui prepotentemente provenivano.
Gli anni del seminario, – piuttosto lunghi, sette per l’esattezza, e cioè, per intendersi, anche se la scolarità degli studi non era proprio la medesima delle scuole pubbliche, i tre anni di medie, i due di ginnasio e, come vedremo, solo due di liceo, – passarono svogliati, ripetitivi e monotoni. Quel che è certo è che Tommaso non reagiva, non reagiva affatto alle sollecitazioni di natura religiosa, che su quei ragazzi si riversavano in misura straripante. Qui, come accade sempre nelle vicende e nelle scelte dei singoli individui, c’è qualcosa di misterioso, che sarebbe vano da parte nostra cercare di cogliere fino in fondo. Cecco e Giovanna, come tutti i loro simili, erano moderatamente devoti ma, per cosí dire, nient’affatto credenti. I contadini sono stati secolarmente educati ad abbassare la testa di fronte a qualsiasi potere reale che in qualche modo glielo chiedesse o imponesse: e là, dove la famiglia di Tommaso dimorava da secoli, non ce n’era mai stato un altro cosí visibile o almeno cosí dominante come quello della Chiesa. Tra devozione e fede però c’è un abisso: e Tommaso proprio in seminario cominciò a prenderne coscienza. E siccome la forza della tradizione obbligava quei professori che erano anche monaci e preti a ricalcare il tracciato, il mirabile tracciato della storia culturale occidentale, gli apparve presto chiaro che non avrebbe potuto esserci il grande Tommaso, cui la scelta del suo nome s’era ispirata, senza il grande passato che aveva reso possibile il suo grande presente. Lui, il grande Tommaso, aveva fatto quello che nessun altro aveva fatto, o nessun altro aveva fatto cosí bene come lui, e cioè fondare il pensiero cristiano sugli architravi e gli archivolti del pensiero antico: cosí, teorizzando e praticando in tutti i modi la superiorità del primo sul secondo (pensiero divino abbeveratosi alle fonti di un pensiero perfettamente umano, e perciò limitato e transeunte), non aveva potuto impedire che anche il secondo, dopo secoli di buia denegazione, fosse legittimato a circolare con una minima garanzia di attendibilità e rispettabilità letteraria, filosofica e scientifica. Come talvolta accade, Graecia capta ferum victorem cepit.
In parole povere, le fonti, negli interessi del ragazzo, finirono per sovrastare le sue pur cosí prestigiose e imponenti derivazioni. Tommaso, – Tommaso Ciaramella, intendo, – s’insinuò con astuzia contadina (era l’ultima volta in vita sua che se ne sarebbe giovato) nel profondo interstizio che nonostante tutto, – nonostante gli sforzi di assorbimento e, come dire, di definitiva e integrale liquidazione operati dall’omonimo Santo (dopo di lui, dopo la sua operazione di pensiero, a che pro volgersi, ormai all’indietro? quel che di buono c’era stato in quelle precedenti e ormai lontane esperienze, lui lo aveva tutto raccolto e sistemato in una cornice incommensurabilmente piú degna e, ovviamente, piú duratura, anzi, piú esattamente, imperitura), – era rimasto aperto fra l’uno e l’altro gigantesco segmento di questa storia, e invece di cominciare a guardare verso il futuro con la serena fiducia che quotidianamente gli veniva suggerita, instillata, qualche volta paternamente imposta, si volse verso il passato, e lí trovò inaspettatamente quello che nella scuola elementare contadina di Poggio Lariano, senza neanche saperlo, aveva cominciato a cercare. Cosa?
Quel che Tommaso riuscí a cogliere, guardando coraggiosamente fino in fondo in quell’interstizio (sebbene talvolta ne provasse come un vago tremore e una paura, e un avvertimento a tornare indietro, a cavarsene fuori finché era in tempo), era l’esistenza di un pensiero, – e di un conseguente e coerente sistema di forme, – in cui fra l’uomo e il suo mondo (storia, pensiero, natura) i diaframmi erano stati ridotti al minimo: tutto lí era fondato sulla semplice credenza (semplice? beh, non esageriamo: ma a quindici-sedici anni l’impressione provata poteva esser proprio quella), e tuttavia non ingenua, non elementare, anzi, ricca di echi misteriosi, di suggestioni e di risonanze, che fosse del tutto inutile cercare spiegazioni di carattere generale, sovrastante, apodittico, religioso, ideologico, perché quel che l’uomo sentiva, voleva e faceva, si giustificava né piú né meno che da sé. E solo di questo perciò, – questo sé destinato a reggersi da sé, in barba a qualsiasi elucubrazione successiva, – si poteva narrare e poetare e filosofare. E siccome, quanto a capacità di applicazione e di apprendimento, il suo livello, come abbiamo detto, era di prim’ordine, s’addentrò baldanzosamente nei sentieri che portano alla conoscenza della lingua latina e di quella greca, evitando però con grande accuratezza di lasciar trapelare che in ciò avesse collocato una sua particolare e privilegiata passione. Quanto al resto, – dottrina e pensiero religioso cristiano, e in particolare, com’era ovvio in quel luogo, il tomismo, – niente di piú da parte sua di un’applicazione accurata e precisa. Nessuno perciò ebbe modo di accorgersi che in quel seminario si stava verificando un evento razionalmente imprevedibile: il contrario, né piú né meno, di quello che ci si sarebbe potuti aspettare da un luogo come quello.
Come un insegnamento orientato a produrre ubbidienza e regola fosse destinato a inoculare i fattori destinati a mettere poi in crisi l’una come l’altra, in mancanza di una conoscenza piú diretta non si può descrivere per filo e per segno (avrebbe potuto farlo piú tardi il solo Tommaso, se, diversamente da noi, lo avesse considerato degno di apprezzamento e di descrizione). Possiamo limitarci a constatare che, a giudicare dagli effetti, questa palese distorsione pedagogica ebbe a verificarsi in maniera molto radicale, anche se non violenta. Tommaso rientrava in casa ogni anno per le feste comandate e per le vacanze estive, che per il seminario, piú raccorciate di quanto non accadesse nella scuola pubblica, cadevano tra gli inizi di luglio e i primi di settembre (in quei due mesi scarsi Tommaso dava una mano nel lavoro nei campi, ma soprattutto aiutava sua madre e sua sorella nelle faccende di casa: impiego semifemminile, che suo padre e suo fratello finivano volentieri per lasciargli, il padre con una sorta d’imbarazzato rispetto, Poldino con una punta d’irridente disprezzo). Ma quando Tommaso lasciò il seminario dopo avervi terminato brillantemente la seconda classe liceale, trascorse i primi quindici giorni di ferie in un’immobilità fisica e mentale quasi assoluta, senza toccare un libro e senza offrirsi come al solito di risciacquare le stoviglie dei loro magri pasti; indi, una sera, si recò da sua madre e, alla luce di una pallida lampadina elettrica, che pendeva malinconicamente dal soffitto travato della maleodorante cucina, comunicò che non voleva rientrare in seminario, anzi, che non ci sarebbe rientrato né allora né mai, ma che voleva continuare a studiare altrove. Il discorso provocò lo smarrimento accorato di Giovanna e, subito dopo, quando ne fu informato, l’ira disordinata e violenta di Cecco: ma non ci fu verso. Tommaso, stirpe contadina fino in fondo, non ascoltò ragioni, si chiuse in un mutismo ostinato ma sereno, e non riprese piú la sua sacca per tornare in seminario. L’anno dopo, autopreparatosi in tutte le materie (ci mancava soltanto che pretendesse da Cecco che gli pagasse le lezioni per presentarsi da privatista!), sostenne gli esami di licenza liceale presso il liceo classico «Norberto Turriziani» di Frosinone e, trovatosi di fronte ad una commissione composta di professori di buon carattere e di livello decente, li superò a pieni voti. Il parroco, a suo tempo vanamente interpellato, ne fu contristato e depresso; il maestro, informato piú tardi della cosa, deliziato e felice. E Tommaso pensò che ora, soltanto ora, gli toccava finalmente decidere: tutto quel che fino a quel momento gli era accaduto (continuare gli studi invece di andare a lavorare i campi, appassionarsi alle culture dei popoli antichi invece che a quelle di coloro che fino a prova contraria potevano considerarsi i suoi legittimi predecessori e correligionari, persino rifiutarsi di accedere allo stato monac...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Amori sospesi
  4. La prima volta
  5. Rosetta
  6. Enrichetto ed Erminia
  7. Il camionista solitario
  8. L’alba
  9. Il ritorno
  10. Sessantacinque
  11. Trippoli
  12. Il Vecchione e la Bella Fanciulla
  13. Prima giornata
  14. Seconda giornata
  15. Terza giornata
  16. Quarta giornata
  17. Quinta giornata
  18. Sesta giornata
  19. Settima giornata
  20. L’ultima volta
  21. Il libro
  22. L’autore
  23. Dello stesso autore
  24. Copyright