Di guardia o di pattuglia, la notte, cercavo inutilmente le stelle. Non c’erano stelle in Val Sesia, solo neve, freddo e imboscate. Bisognava camminare come i gatti, rasentando i muri, e ogni tanto era necessario appiattarsi contro le porte chiuse, scorgendo una lontana ombra che si avvicinava. Il sergente Elia imbracciava il mitra tra i guanti; tremava dal freddo o di paura, non era possibile saperlo. Poi gridava il chi va là: gli rispondeva il riso stridulo di qualche bestia che scantonava nei vicoli. Altre volte nessuno rispondeva al sergente, perché non c’era nessuno nelle contrade e costui, poi, seguitava a gridare senza piú intenzione, per rompere la monotonia del luogo e sentire la propria voce gonfiarsi, morire sui tetti e nel buio. Egli diceva con astio, guardando lontano:
– Monti bianchi, campagna nera; ribelli bianchi, paesi neri… È tutta una porcheria maledetta questa gazzarra che non va per finire. Qual è il tuo pensiero, Marco?
Dicevo di non aver pensieri. Il sergente allora sorrideva stranamente, toccandosi la barba. Diceva:
– È bello far la guerra come la fai tu, da smemorato. Elia diceva cosí, ma non conosceva la mia paura.
La paura mi prendeva quando mi trovavo solo in mezzo alla notte sconosciuta; mi stringeva con un nodo alla gola e il cuore mi batteva precipitosamente. Temevo che gli altri potessero sentire i battiti forti del mio cuore e potessero vedere la mia paura. Io non capivo ancora perché mi avessero mandato là, e perché dovessi combattere contro ombre inafferrabili. Su di noi c’era un comando categorico: COMBATTERE e bastava cosí. Era male chiedersi le ragioni; in guerra ci sono mille ragioni, ma non era compito nostro discuterle. E cosí, ma sempre inutilmente, mi dicevo di averci coraggio quanto gli altri e piú degli altri. Ma i tremiti a fior di pelle, paurosi, non me li levava nessuno, nemmeno i bei discorsi che molto spesso veniva a farci il colonnello. Egli diceva: «Ragazzi, unguibus et rostro, per la piú grande Italia». E io mi dicevo che era ben grande la differenza che correva tra le frasi e la realtà. Mi domandavo se anche i ribelli combattessero con le frasi e prendessero il coraggio in prestito dalle frasi.
Le pelle d’oca mi venne la prima volta che sparai contro i fantasmi bianchi che si nascondevano tra i crinali della montagna. Il capitano Mattei gridava:
– Sono i RIBELLI! Dobbiamo dare una lezione ai ribelli.
Partivano scariche a non finire, alla disperata, senza obiettivo. E quelli apparivano e sparivano e si burlavano di noi. Alla fine mi disse Elia:
– Ragazzo, oggi hai ricevuto il battesimo del fuoco.
Era andata liscia fino al posto in cui i camion ci scaricarono. Io ero fuciliere e il sergente Elia comandava la squadra. Ottobrini, quel romano grosso come un Ercole, lo chiamavano il principe della Breda. Ma incontrammo presto i partigiani; li avevamo sorpresi nelle loro baite perché Katia ci aveva portato informazioni precise. Ci portava sempre informazioni precise Katia, e spesso mi chiedevo come fanno le spie a essere cosí furbe e a sapere sempre ogni cosa importante.
Poi cominciammo a sparare alla cieca. I ribelli, che erano usciti dalle baite, facevano capriole e rimanevano stecchiti per sempre; altri scappavano dietro i ripari e lí noi li prendevamo coi mortai; quelli rimanevano con la testa ficcata dentro la terra. La paura, allora, m’arricciò tutto il corpo e la mia pelle cominciò a puzzare. Le fucilate mi sfioravano la testa e le braccia. Elia rideva a scatti, collerico e, ridendo, gli tremava la barba dove gli colava la bava.
– Avanti, Laudato! Leva quella testa dalla terra. A noi, quelli là, non ci fregheranno mai. Perché hanno paura, Marco Laudato, e hanno perso l’equilibrio.
Ma i ribelli ci pizzicavano, e come! Era morto Marra, fuciliere dietro di me, con un colpo di cecchino. Il cecchino imitava il miagolio del gatto, e quando il miagolio era passato, qualcuno era rimasto a baciare la terra. Ed era morto Ortona. Ma Ortona era morto per fare l’eroe. Lui diceva sempre di volersi riportare a casa una medaglia. Era un ragazzo olivastro e molto forte; vinceva tutti i piú forti uomini della legione a braccio di ferro. Lo vidi scattare ventre a terra col mitra in avanti. Prese a inseguire a fucilate una donna coi capelli tagliati come un maschio, che usciva dalla baita in fiamme. Lei correva davanti e Ortona dietro. La donna ruzzolò due volte sulla breve spianata, ferita, ma sempre si rialzava e riprendeva a correre. Infine si appoggiò comodamente alla seconda baita, col corpo rattrappito, e cominciò a sparare contro Ortona che le correva sempre incontro, come se andasse in ritardo al suo appuntamento d’amore.
La donna sparava con tranquillità e Ortona saltabeccò varie volte lanciando muggiti. Tuttavia si trascinò ancora, barcollando e accecato dal sangue. E quando fu a tre passi da lei trovò la forza di spararle a bruciapelo un altro colpo. Noi vedemmo in aria schizzare la faccia della ragazza, in aria pezzi di carne come spezzoni rossi. Poi lo decorarono, Ortona, alla memoria. Ma lui la medaglia voleva portarsela a casa. Quel giorno mi pareva d’essere in paradiso e le musiche le cantavano la Breda e la «T. 43» tedesca. A ripensarci, se mi avessero preso con un fagiolo nella pancia, scommetto che non avrei sofferto, perché la battaglia riscalda la testa e l’uomo non pensa piú, non soffre piú ed è come se volasse su d’una giostra.
Ma dopo che tutto fu passato cominciai a soffrire. Cominciai a soffrire quando il capitano Mattei ordinò di far fuori i sette partigiani che s’erano arresi. Con loro c’era anche un negro dalla voce dolce. Davanti ai fucili il negro sbarrò due occhi bianchissimi che volevano saltargli sul petto. E seguitava a dire parole incomprensibili, piene di terrore. Lo bucarono tutto, senza che schizzasse una goccia di sangue. I buchi sul suo corpo erano rose pallide, ed era inspiegabile come non avesse fatto sangue.
– Hanno l’acqua nelle vene, – disse allora il capitano Mattei, girando e rigirando il morto con lo stivale.
– Ora però dobbiamo scavare le fosse, – dissi guardando i morti, ma parlando tra me, seguendo un mio pensiero.
– E perché le fosse? – fece il capitano Mattei.
Mi eccitai a quella voce, perché avevo parlato senza accorgermene.
– Abbiamo fatto il pasto alle bestie, – seguitò il capitano Mattei. – Le bestie ci ringrazieranno. Ché, a te non garba il mio modo di ragionare?
Allora insistetti:
– Almeno dobbiamo scavargli le fosse. Staranno meglio dentro le fosse.
Il capitano Mattei mi osservò seriamente, poi arricciò le labbra in segno di profondo, convinto disprezzo e, dandomi una pacca in testa, disse:
– Sei un ingenuo. Quand’è che imparerai a essere un buon soldato?
Ci riportammo i fucilieri Marra e Ottona sulle spalle e, scendendo, eravamo contenti e cantavamo le nostre canzoni di guerra. Io non conoscevo ancora bene quelle canzoni, né mi andava di cantare. Era il sergente Elia che mi stuzzicava, dicendo:
– Proprio non ti va di cantare?
Cosí gli risposi finalmente:
– È obbligatorio cantare quando uno non ce la fa e gli viene il vomito?
Elia allora mi osservò meglio e poi disse, lentamente:
– Forse hai ragione, i morti disgustano sempre.
Ogni giorno si saliva in montagna e a sera si scendeva.
Quando i soldati cacciavano bene erano sempre allegri e cantavano; erano tristi quando non prendevano nemmeno un dannato ribelle o un fiore di cioccolata per assistere al secondo esperimento dell’uomo che non versa una goccia di sangue. Tornavamo alle caserme con i musi lunghi e non sapevamo come sfogarci. Adesso nemmeno piú con le donne potevamo tentare di sfogarci, dopo il fatto successo al caporale Gustavi.
E andò cosí che il caporale Gustavi ci rimise la pelle. Egli faceva la corte a una ragazza del paese, una bruttina occhiverdi che sbirciava i nostri pugnali dal basso, a labbra strette. Da lei Gustavi andava per la biancheria; saliva la rampa d’un vicolo e poi si trovava in una specie di stalla larga, nera, dalla volta come una grotta. Lí viveva Tiziana, con la sua mamma vecchia ch’era una figura taciturna e ferma, sempre seduta vicino al focolare, con gli occhi alla caldaia della polenta. Una sera il caporale condusse Tiziana nel fienile di sotto e le saltò addosso. Ma Tiziana estrasse il coltello che aveva nascosto sotto la camicetta e, con quello, gli vibrò un colpo netto sul membro. Il caporale prese a urlare con le mani fra le cosce; corse cosí in caserma. Ma non resistendo al dolore si sparò davanti alla cucina. Tiziana venne arrestata e disse che odiava tutti i fascisti perché le avevano ammazzato il fratello. Allora il capitano Mattei disse come uno sciocco:
– E se noi uccidiamo il tuo odio?
La ragazza gli aprí in faccia una bocca piena di riso insultante, e il capitano s’inviperí. La fece fucilare nel giardino dei preti.
Cosí, adesso, i soldati si arrangiavano con le mani come potevano. E diceva Gennari:
– Bisognerebbe arrivare fino a Katia e sfogarsi bene una volta per sempre. Sarebbe una cosa meravigliosa.
– Te non ti prenderebbe di sicuro perché hai le gambe storte e mi pari un ragno, – gli diceva Bruno, l’attendente del tenente Mazzoni.
– Allora prenderebbe te, – rispondeva il piccolo soldato. Intavolavano una discussione su questa cosa, perché effettivamente era una discussione importante, e tutti almeno si rifacevano l’anima con le parole sporche. Ricordavano i tempi della loro vita civile e di quando avevano le loro donne nei paesi e nelle città.