Il giro del miele
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Il giro del miele

  1. 256 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il giro del miele

Informazioni su questo libro

«In quei giorni splendenti la vedevi e non riuscivi a immaginare che potesse essere stata da nessun'altra parte: guardava suo marito lavorare al sole che bruciava piacevolmente il collo, e le api stordite camminavano sul muro». Davide è un uomo semplice che ha un lavoro semplice: consegna il miele a domicilio nel paese dell'Appennino dove è nato e cresciuto. La faccia pulita, le spalle e le mascelle larghe: ha l'aspetto di quello che le signore anziane chiamano "figliolo", o "giovanotto". Le ragazze l'hanno sempre snobbato, «ma tanto, lui, era innamorato della Silvia fin da quando erano piccoli». Perso il lavoro, perso il grande amore, spinto dalle circostanze della vita ha iniziato a bere, lasciando entrare in sé una violenza che non è in grado di gestire. Il vecchio Giampiero invece è stato l'aiutante del padre di Davide. Ha una mano bruciata in seguito all'incendio della falegnameria in cui lavorava, ma soprattutto ha una moglie amata, l'Ida. Non sono riusciti ad avere figli. Ha visto crescere Davide, e lo accoglie ora, a tarda notte, quando viene a bussare alla sua porta. Il giro del miele è un romanzo appassionante e caldo, ricco di personaggi indimenticabili, gestito con la maestria dei grandi narratori.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806228910
eBook ISBN
9788858424667

Il giro del miele

Vi sono due tipi di saccheggio: il saccheggio violento e quello latente, piú raro e piú difficile da individuare. Quest’ultimo avviene quando la famiglia saccheggiatrice e quella saccheggiata sono in rapporti amichevoli; tutto è calmo, però vi sono dei voli mentre tutte le altre famiglie tengono le api a casa. Se questo accade fra due famiglie dello stesso apiario, l’itinerario dei voli sarà facilmente individuabile.
TED HOOPER
Le api e il miele. Manuale scientifico-pratico di apicoltura.
Stavo sognando il fuoco. Davanti ai miei occhi chiusi le fiamme s’erano trasformate in costruzioni dalla sagoma incostante, capanne dalle cui pareti vive si staccavano ogni tanto croste nere, poi bocche d’animali luminosi che mangiavano e scappavano nell’ombra.
Fuori c’era il vento; il vento mi mette nervoso, ancor piú di notte, eppure mi ero addormentato. Avevo detto all’Ida, di sopra già da un po’, «Adesso arrivo», ma poi m’ero abbracciato allo schienale della sedia, con l’attizzatoio nella mano buona.
Col vento, il camino tirava male. Le fiamme correvano sdraiate, aggirando un ostacolo invisibile. Le capanne nel mio sogno stavano andando a fuoco, abbandonate, forse gli abitanti erano stati quegli animali che scappavano; le travi dei tetti cadevano in terra, annerite, tum, tum. Non so quanto mi ci è voluto per rendermi conto che qualcosa al di fuori del sogno sbatteva davvero alla porta, e anche forte: una serie di colpi irregolari, squilibrati, d’intensità diverse. Stavo quasi per alzarmi e andare fuori al buio a controllare: erano i vasi grandi dei ginepri, che il vento mandava a rotolare contro l’uscio? L’Ida aveva legato i rami la settimana prima. «Trapiantali», le avevo detto in primavera, ma secondo lei non era ora.
Oppure qualcuno bussava? I colpi hanno smesso e quindi io, nel pensare se alzarmi oppure no, ho passato quel mezzo minuto che li ha fatti andare via dalla mia mente, lasciando di nuovo spazio al sogno. Cosa fossero stati veramente, l’avrei accertato con il giorno.
Non ho fatto in tempo però a riaddormentarmi, perché è suonato il campanello: due tocchi puliti, garbati, distinti da un intervallo in cui s’immaginava una sorta di rispetto.
Quindi mi sono deciso. La mano, che avevo lasciato inconsapevole a gonfiarsi e penzolare dalla sedia, mi formicolava: era il suo modo di farsi ricordare, ogni mattina che m’alzavo. Con quella buona mi son tirato su. L’Ida in camera s’era svegliata: – Giampiero, chi c’è?
Mentre andavo all’entrata, di nuovo la porta si è messa a tremare per dei colpi sconclusionati, neanche la volessero sfondare.
– Oh, calma, sei dietro a morire? – ho detto io, e l’Ida dal letto: – Giampiero, chi c’è a quest’ora?
– Adesso l’imparo e ti dico.
Ho aperto: era Davide. Grandone, alto com’è sempre stato, tanto che cammina preparato a chinarsi per passare dalle porte. È proprio dalla stazza che l’ho riconosciuto, perché la luce esterna era strinata e lui non ha parlato, inizialmente: ho ravvisato un uomo che nel momento in cui aprivo si tirava indietro, al buio; ero sorpreso perché non avrei mai detto di vedermelo ritornare all’uscio, ma un attimo dopo ho pensato (ed è stato peggio): era destino che arrivasse, prima o poi. Gli occhi ha dovuto abbassarli, per riuscire a guardare me in faccia. Non lo faceva da un bel po’ di anni. Non ho avvertito odore d’alcol, e ho avuto sollievo nel vederlo nuovamente in forma, sbarbato, i capelli castani ordinati in un’onda, da bimbo biondissimi e adesso, rispetto all’ultima volta, stempiati alla scriminatura. Lui se li copriva dal vento con un braccio, in modo buffo, come un ragazzone che uscisse per ballare. Aveva addosso i suoi anfibi da buttafuori, e un maglione di lana infeltrito, di quelli per cui la Silvia un tempo lo prendeva in giro e che però continuava a regalargli, con i fiocchi di neve, i cervi e le stelline. Ma lí sulla porta, per me, sono stati i suoi occhi il problema, perché aveva due occhi impressionanti, come infiammati e soggiogati da uno spirito che li avesse invasi e li stesse facendo ammattire.
– Fammi entrare, Giampiero, – mi ha detto, e quindi io l’ho fatto entrare.
Uno dei ginepri, comunque, era caduto davvero. Ho chiuso la porta: – Vento impestato.
– Chi è? – ha detto da su ancora l’Ida.
– Sono io, – ha risposto Davide. Lui non ha bisogno di vociare, ha un timbro che trapassa i muri.
– Oh, Davide… – le ho risentito quel tono materno che l’Ida usava, parlando di lui, quando rientrava dall’asilo, dopo averlo accompagnato sul pulmino, lei maestra e lui autista, e mi raccontava di come Davide era bravo coi bambini. Faceva anche il giro delle elementari. Guidando, ascoltava il liscio su Nuova Radio Centrale, e i bambini si davano di gomito per i doppi sensi dei testi. Quando toccava rallentare per colpa di un trattore con un carro o una botte di letame, Davide aspettava il tornante favorevole per lasciare la strada e andava giú per i campi, in mezzo ai cespugli, coi sassi che schizzavano e l’erba che frustava le portiere e l’Ida che rideva: «Ma Davide, ma cosa fa?» C’era una convenzione fra di loro sul pulmino, per cui vicendevolmente si davano del «lei». Superato il carro, Davide tornava sull’asfalto e i bambini incitavano e strillavano, si voltavano indietro a salutare: «Ciao Zaccaria!», perché i carri del letame hanno quasi tutti marca Zaccaria.
Appena veniva la neve, lui faceva i testacoda usando il freno a mano. I bambini lo adoravano e nessun genitore s’era mai lamentato. Davide aveva l’aspetto di quello che le signore anziane chiamano «figliolo», o «giovanotto». La faccia pulita, le spalle e le mascelle larghe, sembrava un po’ un rugbista. Tutti gli volevano un gran bene. Le ragazze, ecco, l’avevano sempre snobbato, nonostante il fisico ben messo, perché lo consideravano un ingenuo. Il bel maledetto riscuote piú successo a certe età. Ma tanto, lui, era innamorato della Silvia fin da quando erano piccoli.
D’abitudine, quando io e l’Ida pranzavamo nei giorni feriali – mangiavamo tardi, e ne facevo io, perché venivo apposta dalla falegnameria e aspettavo l’Ida per le tre –, sapevo già che, primissima cosa, lei entrando m’avrebbe raccontato quel che aveva combinato Davide. Io e l’Ida non abbiamo avuto figli.
– Uno dei tuoi ginepri è andato in terra, – le ho detto.
– Davide, hai mangiato? – ha urlato lei.
– Sí, Ida, grazie, ho mangiato.
– Non lo vuoi un po’ di tè? Una tisana?
– È mezzanotte Ida, – ho detto io. – Dormi, amore mio, che adesso arrivo.
– Ma per Dio…
– Ida, davvero, non darti disturbo, – le ha detto lui stesso a quel punto. – Ritorno un’altra volta, a un’ora piú decente, lo prometto.
Siamo rimasti in piedi ad ascoltarla mentre lei si riadagiava, borbottando qualcosa che né io né Davide siamo riusciti a capire.
Non stavo insieme a lui in una stanza da chissà quanto tempo, da quando ancora lavorava con le api, quando ancora era sposato con la Silvia e le cose gli andavano bene. Avevo detto all’Ida «Adesso arrivo», ma dallo sguardo che Davide aveva, venendo a questo modo, dopo anni e a quest’ora di notte, ho capito che non avremmo finito finché lui non si fosse liberato del peso sotto cui strabuzzava gli occhi; a questo gli servivo io.
Mi ha messo le mani sulle spalle: quel tocco, invece, non lo sentivo dal funerale di Uliano, undici anni prima. Quel giorno, nonostante fosse suo padre che era morto, era stato Davide a consolare me, e io gli avevo pianto fra le braccia. Ha due braccia buone, da lavoratore, che ho visto sciuparsi, inflaccidirsi, quando ormai il timore che incuteva nei dancing in cui lavorava non era piú quello sano, reverenziale, conseguenza dei suoi muscoli pronti a colpire per contratto, ma la paura palpitante del suo aspetto dissennato. Lo vedevi tristemente sempre al bar, ubriaco a orari inappropriati, mentre la gente chiacchierava con il giornale in mano, e la Luisa non gli dava piú da bere. La casa che Uliano gli aveva lasciato era vuota. Non c’era piú neanche la Silvia là dentro a piangere da sola: «Non voglio mangiargli la casa, mi interessa solo di non vederlo».
Davide, come si dice, l’ho tenuto sulle ginocchia. Quando lui è nato io lavoravo già con suo padre. Da bimbo veniva nella falegnameria, a giocare coi legnetti e coi ritagli che gli sceglievo io, se non c’erano macchine rischiose in movimento. Cominciò quando sua mamma stava male, e non volevano che Davide passasse tanto tempo su di sopra, quindi Uliano accettava di tenerlo lí con noi, però non gli badava; era andato di testa. Poi la madre morí: cosí è stata sua sorella che l’ha tirato su; lei in casa, e io in falegnameria. Uliano ci mise degli anni a riprendersi, per modo di dire, perché non s’è piú ripreso del tutto. Rimase incapace di tenerezza, ma non è giusto dirlo a questo modo: rimase incapace di esprimerla, e credo che per questo abbia sofferto finch’è morto. Durante quei mesi, lo vedevo incantarsi con due travetti in braccio, fermo a guardare chissà cosa, accanto alla lama del bindello che marciava, e a me ch’ero apprendista veniva un terrore che all’improvviso lui ci mettesse il collo. In qualche modo cercavo di evitare che Davide lo vedesse e mi chiedesse ancora: «Il babbo piange?» Gli facevo usare la pialla, solo in mano mia, poi gliene avevo lasciata una vecchia, senza piú taglio, con cui era impossibile ferirsi. Ci andava matto. A quei tempi la falegnameria era al piano terra della casa, e a lui bastava scendere la scala dall’interno, veniva a rasparmi alla porta come un gatto. Oppure girottava fuori, oltre il portone a vetri insozzato di segatura sporca, e giocava nel cortile in posizioni tattiche rispetto alla mia vista, finché non mi risolvevo a farlo entrare. Si metteva nell’angolo dove spazzavo i trucioli, e ci scopriva dentro, come rovine sepolte, i pezzi di legno di scarto, alcuni piccolini, altri invece di una dimensione tale da non essere sicuro se poterci giocare oppure no, e in quel caso mi guardava, col timore che fossero robe che il padre doveva poi riadoperare. Gli davo un’occhiata che diceva Prendi pure, ma a volte neanch’io ero sicuro: Davide non si attentava a chiederlo a suo padre, perciò tendeva a lasciar perdere i pezzi piú grandi, o con incastri strani – i piú preziosi ai suoi occhi, quelli che parevano esser fatti per un uso adulto e misterioso.
Uliano sopportava, ci guardava spiccio, oppure mi affidava un compito per cui restasse poco da giocare: «Vieni ben qua a darmi una mano». E a Davide: «Stai lí che ti fai male». Se gli occorreva un attrezzo che non aveva comodo alle mani e io ero impegnato in qualcos’altro, non chiedeva a lui ma piuttosto fermava la sega, aspettava che smettesse di girare, andava alla cassetta degli attrezzi e poi tornava a riaccendere. «Levati di qua», diceva sempre, se Davide era fermo davanti a uno scaffale da cui lui dovesse prendere un barattolo.
– Giampiero, mettiti a sedere, – mi ha detto Davide davanti al fuoco. Ha poggiato le sue dita sui nervi della mia mano, e mi ha sorpreso talmente che l’ho lasciato fare, mentre di solito fuggo come una biscia, quando mi toccano la mano rovinata.
Perché era venuto, lo sapevo.
– Non prendi niente da bere? Neanche un grappino?
Mi sono mosso verso la vetrinetta dei liquori, ma lui ha detto: – Lascia stare, – con un tono spazientito, come dicesse Perché mi vuoi far fesso? Cosa credi, che sia venuto per bere un grappino con te? A quel punto avevo la sua mano sulla spalla, e praticamente mi ha spinto sulla sedia.
L’ho fissato negli occhi, da lí schiacciato a sedere dov’ero, e lui ha ritratto il braccio, vergognandosi, e io ho capito di avere lo sguardo di un vecchio.
– M’hanno raccontato che certe volte si vede la sua macchina, – mi ha detto. – Parcheggiata proprio qui davanti.
La Silvia ha una Toyota Yaris rossa, una macchinina abbastanza comune. In paese ad esempio ce l’hanno già in due, l’Alessandra, la moglie di Filippo il modenese, e Giaco della diga. Giaco però non la usa quasi mai, va a lavorare sempre a piedi; ecco, l’Alessandra invece poteva esser passata da me per i mobili della sua tavernetta. Ho pensato se mentire in questo senso. Per cominciare avrei dovuto dire: «Quale macchina?» Ma se qualcuno gliel’aveva riferito, chi poteva essere non so, doveva aver condito la faccenda con una dose di pettegolezzo, tanto per muovere un po’ il mondo. Ho pensato che Davide, sicuramente, aveva altri elementi oltre alla macchina, e negando l’avrei solo innervosito. Perciò gli ho risposto: – È vero. Qualche volta ci viene a trovare. Non è che riesca ad avvertirci con anticipo, ma cosa vuoi, noi tanto siamo qua. Lei passa, si ferma una notte, e riparte.
La Silvia adesso sta in Umbria, vicino a Norcia. Io e l’Ida siamo andati a trovarla. Abbiamo conosciuto il suo compagno, che poi è diventato il suo secondo marito. Per il matrimonio non ce l’avevamo fatta – mi era capitato da sei mesi l’infortunio, ero in ospedale per un’operazione –, però siamo andati al battesimo del bimbo, perché io gli ho fatto da padrino. Mi ero commosso, quando la Silvia mi aveva telefonato per chiedermelo, tanto che l’Ida m’aveva guardato come se stessi per svenirle lí davanti, con la cornetta nella mano buona e l’altra che tremava, appoggiata contro il comodino. Il marito della Silvia ha due salumerie. Vivono bene, e dove stanno è un mezzo paradiso. Il bimbo adesso sta finendo l’asilo. Sebbene a sbalzi, lo vediamo crescere. L’Ida gli ha fatto diversi vestitini. Quando siamo stati là, la Silvia ci ha portati con la Yaris su su, fino in cima, a fare una mangiata a Castelluccio; c’erano le scarpate di ginestra tutte in fiore, e i deltaplani che si buttavano dal Monte Vettore giú verso la piana: «Visto che bello?» diceva la Silvia, e per me e l’Ida è stato come se avessimo una figlia.
Con suo padre, la Silvia ha litigato proprio a causa di Davide, perché Davide continuava a passare da loro con delle scuse, ed Ermanno ogni volta gentile, facilone com’è lui, a dargli corda. Cosicché Davide non si staccava mai, e in qualche modo continuava ad avere notizie insperate di lei su cui ricamare, per sentirsi ancora aggrappato. La Silvia, ogni volta tornare dai suoi e trovarci un regalino a tradimento, un suo vestito vecchio di cui dire: «Bruciatelo pure», non ne poteva proprio piú. Possibile che Ermanno non ci arrivasse? E che sua madre non osasse aprire bocca? A un certo punto, la Silvia ha preso a quattr’occhi suo padre: «Se lo fai entrare un’altra volta, se lo imparo, te lo giuro, non entro mai piú io, ci siamo intesi?» Ermanno, persino in quel momento, a sorridere d’un sorrisino goffo: «Eccomi qua, ve’, un bell’uomo libertario, senza problemi col mondo, arrivo alla soglia dei sessanta e tocca farmi dire da mia figlia chi posso vedere e chi no». «A me papà non me ne frega un cazzo, di chi vedi o chi non vedi in casa tua, ci mancherebbe, non lo decido io. Se è tuo desiderio, per me non c’è problema a non metterci piú piede», e aveva dato un’occhiata alla madre, un’occhiata di pena e sarcasmo che la Silvia, rammaricandosi, s’accorgeva d’avere usato fin dall’adolescenza, e il cui significato era Come ultima arma che mi resta, compatisco la mamma per punire te. La leggerezza di Ermanno, la Silvia non l’ha mai capita: girarci sempre intorno, raccontare barzellette, sorridere e cambiare d’argomento piuttosto che offendere qualcuno. Sarà il lavoro di geometra, che ha fatto per quasi quarant’anni, ad avergli formato quel carattere; dover sempre avere a che fare con la gente, per circuirla e convincerla, tenendo aperta ogni porta. Lei non sa prendere le cose alla leggera, nemmeno quelle che potrebbe, va bene; ma come faceva Ermanno a mettere sullo stesso piano sua figlia e il buon vicinato? «Ma non te ne accorgi, papà? Passa a portare i regalini, ubriaco per farsi coraggio, a fare l’angioletto di casa: anche a me li faceva i regalini!»
Adesso eccolo qua, venuto a tentare un’altra strada; e doveva costargli, Dio lo sa, quanta vergogna, perché non mi faccio mistero, con quello che abbiamo passato, che probabilmente Davide mi odia, o mi ha odiato, e a ragione.
Per questo, penso, è nervoso: per doversi umiliare cosí, tanto che sembra sul punto di aggredirmi o piantare il braccio nel vetro di un’anta. Ma si trattiene e parla lentamente, cercando di tenere bassa la voce per rispetto all’Ida su di sopra.
– Non si può fare, Giampiero, che la prossima volta che lei viene qui da voi, ci sono anch’io? Possiamo farlo di nascosto, senza dirglielo prima. Te ne prego.
Quel suo «Te ne prego», che quand’era ragazzino faceva sciogliere le mamme, e ancora adesso ti vien voglia di proteggerlo, lui grosso il doppio di te, uno che per lavoro, se si rende necessario, prende a cazzotti la gente.
– Sono dieci anni che avete divorziato, Davide, e tu ce ne hai cosa, quaranta? Dovrai ben sopravvivere, smetti di pensarci. Ti stai facendo aiutare da qualcuno?
Mi accorgo che Davide mi fa paura. Parlo con un tono carezzevole, e forse pe...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il giro del miele
  4. Ringraziamenti
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Copyright