– Ehi… Ehi, scusa!
Un ragazzo mi ferma, per strada. – Ma sei tu? – dice.
Dice: – Mi avevano detto che eri alle Maldive. Posso chiederti una firma? – dice. E tira fuori dalla borsa il mio libro su Aleppo.
Mi passa una penna.
– Posso chiederti anche un’altra cosa?
– Certo.
– Un consiglio. Sai, perché sono all’ultimo anno, ormai. Ho finito.
– Cosa studi?
– Economia. Sí, so che è una cosa un po’ diversa. Ma pensavo…
– Ma in realtà, no, non è quello. Neppure io ho studiato giornalismo. No, è che… Non so, è un momento un po’ di crisi. Dipende. Ma scrivi? O fai foto?
Mi guarda.
– Pensavo di andare in Siria.
Sbircia la dedica.
– Ma forse, che dici? Forse è meglio aspettare.
In effetti, Aleppo sta per cadere.
Sta per cadere tutto, qui.
Lo guardo.
– Ma magari mi laureo, prima, – dice.
– Con una laurea, – dice, – poi sono piú utile.
Male è quella di sempre. Torrida, colma di uomini e motorini. Frastorna.
Sentivo qualcosa che mancava, però. E adesso, all’improvviso, capisco cosa: manca il mare, qui. Le strade sono cosí strette, sono vicoli, piú che strade, e sono cosí occupate, cosí gremite, senza un centimetro libero, che non vedi il mare.
Vedi solo cemento.
Anche se in questi giorni Male non è proprio quella di sempre. Nelle scorse settimane c’era una troupe di al-Jazeera, in giro, e ieri è andata in onda un’ora di inchiesta sul presidente Yameen e i suoi fedelissimi. Su violenza e corruzione. Non si parla d’altro, in città: in molti dicono che è tutto un complotto per rovesciare Yameen. Anche se è Yameen, in realtà, a essere arrivato al potere con un colpo di Stato. Cioè: dopo un colpo di Stato. Perché è stato eletto, sí, ma dopo il colpo di Stato che ha rovesciato Nasheed. Che ora si è rifugiato a Londra – e appunto, da Londra è accusato di inviare qui giornalisti stranieri. Nel 2015 è stato condannato a 13 anni per terrorismo. Due dei giudici sono stati anche testimoni. Non sono stati ammessi testimoni a sua difesa: tanto, ha detto la corte, nessuno avrebbe mai potuto confutare prove cosí evidenti.
Dal momento però che siamo alle Maldive, mica in un regime qualunque, l’avvocato di Nasheed è Amal Clooney. Quello del governo, Cherie Blair.
L’appuntamento con Ibrahim Waheed, noto come Asward, è in un caffè vicino al parlamento. Entriamo, e d’istinto, senza dirci niente, andiamo al tavolo in fondo: schiena al muro. Asward è uno dei piú noti giornalisti delle Maldive. Ed essere giornalisti, alle Maldive, significa questo: guardarsi le spalle.
In realtà, sembra un diplomatico. Ha una bellissima camicia celeste a nido d’ape, è elegantissimo, i bottoni cuciti con del filo rosso. La giacca di sartoria. Due anelli. È uno di quelli a cui ti verrebbe da chiedere dove ha comprato l’orologio, un orologio di acciaio, nero, minimale, che ne vorresti uno cosí anche tu. È uno di quelli con cui ti verrebbe da parlare di questo, di moto, di barche: di vita. Poi però si passa una mano sulla tempia, distratto, e intravedi le cicatrici. Ha perso un occhio. Ha un polso fuori uso. Problemi al ginocchio.
E ha 26 anni.
Aveva scritto un pezzo su Gayoom. Sono cominciate le solite telefonate anonime, le solite minacce, ma prima che potesse valutare quanto fossero serie, è stato assalito a sprangate. Nel filmato che è ancora su Youtube, è su una barella tutto fasciato, violaceo. Semincosciente. Sembra a stento un uomo. L’hanno caricato su un elicottero e spedito in ospedale in Sri Lanka, convinti che sarebbe morto. E invece non solo è sopravvissuto: è tornato a Male.
Ed è tornato a scrivere.
Nel secondo filmato che mi mostra, c’è un ragazzo, in piazza, che guarda una manifestazione. È lui. Ma si accorge che è lui anche un poliziotto: dal nulla, gli si avventa addosso, subito seguito da altri poliziotti. Lo pesta a sangue. Gli domando quante volte è stato arrestato, e come gli attivisti di tutto il mondo, mi dice: – Non ricordo. Sei, credo. O forse sette. Non saprei. Se vuoi controllo e ti dico.
– Le nostre Maldive, – dice, – sono completamente diverse dalle vostre. Molti di noi non sono mai stati in un resort. Non sono mai stati neppure fuori dall’atollo in cui sono nati: il trasporto pubblico qui fino a pochi anni fa non esisteva. Le nostre Maldive sono Male. Sono il cemento. Il cemento e la violenza. La scuola dell’obbligo finisce a 16 anni. E quindi prima di iniziare l’università hai due anni liberi: due anni in cui molti, semplicemente, stanno in strada tutto il giorno. Anche perché le case, hai visto, che case che sono. In genere non sono case. Ti ritrovi in una gang anche senza volerlo: la gang è l’organizzazione sociale dei ventenni. E ogni gang è legata a un certo politico, ogni politico è legato a un certo imprenditore: è tutto un sistema. Si intascano i milioni di dollari del turismo, e si comprano il silenzio e la connivenza generale attraverso mance e tangenti.
– Quella che vedi, – dice, – è una falsa economia.
In effetti, in questi ultimi anni dalle casse dello Stato sono spariti oltre 100 milioni di dollari. I giornalisti di al-Jazeera sono entrati in possesso di tre iPhone di Ahmed Adeeb, il vicepresidente. Un tipo dall’aria poco raccomandabile, ora in carcere. Ha solo 33 anni, ma è già stato ministro del Turismo: il dicastero chiave delle Maldive. Nei messaggi, si definisce «il capo di tutte le gang». «Sono la mia flotta», scrive. «Operano ai miei comandi». È un tipo grassoccio, sudaticcio, impomatato, carico di oro: fa molto Scarface. Nei mille selfie che si è scattato, gioca a pallone in spiaggia con dei bermudoni rossi a fiori. Sostanzialmente, negli ultimi anni le isole sono state cedute in concessione agli imprenditori stranieri sottocosto. In cambio di tangenti. Maagau, per esempio: è stata pagata 2,5 milioni di dollari, un quarto del suo valore. E senza asta pubblica.
Il denaro è stato versato a una società intestata a un parente di Ahmed Adeeb.
Ora tre dei ragazzi che consegnavano pacchi di dollari in giro per Male per conto del gruppo di Yameen hanno raccontato tutto davanti alle telecamere di al-Jazeera. In realtà, erano cose note, qui. Ma nessuno ha mai indagato. Cioè: ha indagato il presidente della Corte dei conti. Che però, non immaginando il livello della collusione, ha consegnato tutte le carte proprio a Yameen. Ed è stato subito rimosso. Ahmed Adeeb scrive al capo delle forze speciali. E lo scambio è piú o meno questo: «Concentrati un po’ su questo tipo», gli dice. «Certo», gli risponde quello. «Forse dovremmo bruciargli l’ufficio», dice Ahmed Adeeb. «No, gli dice il capo delle forze speciali. Ha troppe telecamere». «Vabbe’, vedete voi come fare. Fatelo saltare in aria».
È un ufficio in cui lavorano duecento persone.
D’altra parte. A chi consegnare le carte? Con chi parlare? Il presidente della Corte suprema Ali Hameed, un tipo con una specie di parrucchino rosso, il tipo che si vede in un altro filmato, in mutandoni bianchi in una stanza di hotel, in Sri Lanka, insieme a due prostitute, e per una donna sarebbero state cento frustate, a questo punto, e proprio davanti al tribunale di cui è presidente, proprio sotto le sue finestre, scrive: «Non lasceremo che distruggano Yameen».
«Rimarremo soldati fino alla fine della missione».
E per quelli cosí, il pericolo numero uno sembrano essere i giornalisti. Nel 2013, la redazione di Raajje Tv viene incendiata. Ma dopo un po’, le trasmissioni ricominciano. Ahmed Adeeb chiede al capo della polizia di colpirla di nuovo. E quello gli risponde che no, è inutile. Che ha piú senso minacciare i finanziatori. E Ahmed Adeeb non è che ha niente da obiettare. Si fa passare l’elenco.
Sei completamente vulnerabile, qui.
Completamente solo.
Rilwan scompare, e Yameen un giorno scrive al ministro degli Interni. Ma non gli dice di indagare: gli dice di non stare a pensarci troppo.
– Chiunque si oppone, qui, viene punito. Chiunque. Queste sono le nostre Maldive: un paese in cui abbiamo tutti paura. E ora capisci, – dice Asward, – perché i jihadisti sono cosí forti. Negli anni di Gayoom, sono stati tutti arrestati. Tutti con la stessa accusa: di violare il Corano. Di non essere dei veri musulmani. Ti hanno raccontato, no?, di Fareed? Non abita piú a Himandhoo, abita qui, ora. Chiedi in giro. Chiedi chi è Fareed: nessuno ti dirà del califfato. Ti diranno che è uno che è stato maltrattato e umiliato per anni. Uno a cui in carcere radevano la barba, e poi ci strofinavano su il peperoncino. Per molti, uomini come Fareed erano e ancora sono il simbolo della battaglia contro Gayoom. E adesso, contro Yameen, – dice. – La battaglia contro il sistema.
Una sola cosa, qui, è piú rischiosa che occuparsi di politica. Occuparsi di Islam.
L’Islam è l’unico tema che Asward non tocca mai.
Neppure Asward.
Zaheena Rasheed ha 28 anni, e dirige «Minivan News». Sta infilando tutto alla rinfusa in uno zaino, diretta di corsa verso l’aeroporto. Verso il primo aereo che trova: compare nel documentario di al-Jazeera. Ma non ha paura a ripeterlo: – Alle Maldive lo Stato è tipo la mafia. Qui paghi mazzette per qualsiasi cosa, – dice. Non solo per aprire un resort, ma anche per avere una visita dall’oncologo: per avere quello che è tuo diritto avere, – dice. – La corruzione è endemica. E il problema è che le elezioni sono inutili, non cambiano niente. In campagna elettorale, nelle isole arrivano queste barche cariche di decine e decine di pacchi. Da dove vengono, secondo te, tutti questi televisori al plasma? Tutti questi telefonini? I condizionatori? Il parlamento non rispecchia minimamente la volontà popolare. Qui è tutta una compravendita di voti e consenso. Poche centinaia di persone vivono bene, – dice. – Quelle vicine ai cinque, sei oligarchi che si sono impadroniti dell’economia. Per tutti gli altri, non rimane che subire. Perché non puoi sfidarli in parlamento. Né puoi sfidarli in tribunale. I giudici sono parte del sistema. Il problema di fondo è questo. Non hai contrappesi. I giudici blindano il sistema.
– Non è un’isola, questa, è un confino. Sei in trappola, – dice.
– E poi, – dice, – su tutto questo, adesso, l’Islam.
Il rimosso collettivo.
Per il governo, il fondamentalismo qui non esiste. Nel 2014, alla notizia dei primi due maldiviani uccisi in Siria, Yameen ha declinato ogni responsabilità. «Abbiamo sempre raccomandato ai nostri connazionali all’estero di comportarsi bene», ha dichiarato.
Degli uomini dell’attentato del 2007, ti dicono laconici: Erano ubriachi.
Anche se ora sono tutti in Siria.
Dopo un’amnistia approvata da Nasheed, tra l’altro.
Perché sull’Islam, qui, sono ambigui tutti.
Sull’Islam non si espone nessuno.
– Ma se si è pronti ad andare persino in Siria, per non rimanere qui, è evidente che qualcosa non funziona, – dice. – Hai tutti questi ventenni senza un lavoro, e soprattutto, senza competenze per trovarne uno, e spesso, tra l’altro, tossicodipendenti, con pr...