Quel tramonto struggente che le aveva descritto sua madre non si è degnato di darle il benvenuto. Al suo posto un cielo brumoso si stende su un terreno già maltrattato dalla natura stessa.
Rebecca guarda il nastro dei bagagli che gira ancora a vuoto. Come la sua vita anni fa, quando la fuga era l’unica trama possibile. Fuggire è nel nostro destino, si diceva. Sfidiamo la sorte come stanchi guerrieri e approdiamo a nuove albe. Cosí al canto del gallo aspettiamo nuovi inizi. Cantano alla stessa ora ovunque, i galli? Esther, sua madre, racconta spesso dei galli, galli affannati che con tanta brama annunciano il giorno nascente. Tutti nel sentire il nome di questo paese pensano subito alle aquile, invece lei per tutta l’infanzia l’aveva immaginato pieno di galli tremanti nel battere le ali. Il loro canto per lei non era altro che una disperata elegia al volo mancato.
Rebecca il suo volo l’ha spiccato. Con qualche anno di ritardo. Era stato come una richiesta d’asilo.
Voleva allontanarsi da Thomas. A un grande amore, come il loro, andava risparmiata la fase pietosa della consunzione. Entrambi odiavano i sentimentalismi. Preferivano decretare la fine che prolungare l’agonia. Rebecca aveva deciso di fare quello che fanno di solito gli innamorati quando non si aspettano piú nulla dal loro amore: andarsene.
La sua domanda però era rimasta a lungo coperta di polvere sotto altre scartoffie. Fino a un mese prima. Nel frattempo con Thomas le cose erano cambiate.
Arriva la prima valigia e Rebecca l’afferra con un movimento secco. Immagina qualcuno ad attenderla oltre la porta scorrevole, in mano un cartello con su scritto il suo nome. Si pente di non aver mandato una mail con la sua descrizione fisica, ma cosa avrebbe potuto scrivere? «Caro Andi, arrivo alle 18 p. m. ora locale, per riconoscermi in mezzo alla folla dei viaggiatori fornisco alcuni dettagli. Castana con capelli fino alle spalle, no, sotto le spalle. Non tanto alta ma nemmeno bassa. Magra, o forse non cosí magra». È incapace di descrivere se stessa fisicamente, alla fine. Arrivano anche le altre valigie e, dopo averle messe sopra al carrello, si avvia verso l’uscita.
Nessun cartello col suo nome. Una voce rauca chiede dietro le sue spalle: – Rebecca Cohen?
Davanti a lei un ragazzo alto, spalle leggermente curve. Indossa un abito elegante con una cravatta color porpora che come la lingua di un maratoneta pronto ad abbandonare la gara striscia stanca sulla camicia chiara. Una cravatta démodée di quelle strette che non usa piú nessuno.
– Sono Andi, – dice lui, – il tuo assistente.
Rebecca allunga la mano e stringe forte la sua, in una morsa che stupisce ogni volta tutti, soprattutto gli uomini. Lei le donne che lasciano scivolare la mano le ha sempre odiate.
Andi non sembra stupito dalla sua stretta. Rebecca cerca i suoi occhi. Sono verdi, il verde di quella pietra preziosa di cui ora non riesce a ricordare il nome.
Fuori non c’è il sole mediterraneo che brucia, screpola le labbra e fa diventare la pelle squamata come quella di un serpente. L’aveva immaginato cosí lei sin da bambina.
– D’estate è diverso, – dice Andi, come se le avesse letto nel pensiero. – Il sole arde cosí tanto che a volte la gente impazzisce. La luce accecante ti scava nel cervello. Non ti resta che aspettare.
– Aspettare cosa? – chiede Rebecca.
– Le piogge, – dice lui guardando altrove. Come se fosse tormentato dall’assenza delle piogge durante il caldo torrido al punto da non potersene fare una ragione.
Andi parla con tono svociato e lei lo ascolterebbe a occhi chiusi per ore. Le sembra di udire delle parole dimenticate che all’improvviso danno una nuova possibilità di vita al silenzio delle cose. Quella voce a tratti strappata le fa venire in mente un cantante di una band heavy metal. Nonostante l’abito grigio, anzi fumo di Londra, che lo fa sembrare il testimone di nozze del suo miglior amico all’alba del giorno dopo la cerimonia.
– Chi mette piede in questa terra, poi non se ne vuole piú andare, – la avverte Andi dopo aver sistemato i bagagli in macchina.
Rebecca lo scruta perplessa. Deve rimanere in questa città cinque anni. Un giorno se ne andrà come tutti. Ora questo sconosciuto che guida l’auto e dice di essere il suo assistente vorrebbe farle credere che questo luogo fra non molto le apparterrà.
– Ma qui parlate tutti in questo modo? – chiede Rebecca aggrottando un po’ le sopracciglia.
Sarà difficile adattarsi. Forse per Thomas, invece, potrebbe essere il posto ideale.
– Prendiamoci un caffè, – dice Andi accostando di fronte a una struttura di legno. Una scritta grande lampeggia con mille colori: «Kafeteria».
Si siedono a un tavolino. Accanto a loro un gruppo di uomini chiacchiera rumorosamente. Sul tavolo cinque bottiglie vuote di birra Tirana.
Tirana, si ripete nella mente, la mia nuova città.
– Qui bevono un po’ tutti, – dice Andi. – È una novità, questa. Gli uomini bevono la birra al posto dell’acqua. Prima erano tutti snelli e magri. Ora hanno la pancia.
– Prima di cosa? – Rebecca non capisce.
– Prima del… dopo la… insomma ora che siamo nel capitalismo, – Andi è rosso in viso.
Qui il tempo è scandito in due parti: prima, cioè durante il comunismo, e dopo, nel capitalismo. Nei paesi del blocco socialista mancavano tante cose, la Coca-Cola, i jeans, i profumi, il trucco, ma che mancasse la birra è la prima volta che lo sente, Rebecca.
– Mancavano i bar, – dice Andi. – La gente lavorava e non c’era il tempo per stare seduti. Ora invece al bar si lavora, – precisa. – Sono tutti diventati affaristi e concludono le trattative davanti a bottiglie di birra, vino o whisky. Si compra, si vende, si ricompra, si svende, e cosí via.
Rebecca beve velocemente il caffè, poi escono dal bar.
Cosa starà facendo Thomas adesso? E Sarah, la loro amata figlia? Un brivido la percorre, si chiude bene il trench, non sa se per il freddo o perché ha paura di ciò che l’aspetta in questo posto. Lei è una di quelle persone che se ne vanno, che cambiano, che dimenticano. Si dimenticherà anche di loro due?
– L’inverno qui non è cosí duro, – le dice Andi rientrando in macchina, – è questo avanzare verso il vero freddo che sfinisce.
Sono arrivati davanti all’albergo. Andi scende e accende una sigaretta. Al bar non lo aveva visto fumare. Lui, con quell’aria da scolaretto che assume a tratti, nasconde la mano e corre a tirare fuori le valigie. A Rebecca viene da ridere. Questo ragazzo passa da atteggiamenti da uomo vissuto a quelli di un adolescente che ha persino timore di fumare davanti agli adulti.
Gli dice che può finire la sua sigaretta, lei non ha nessuna fretta. Fumava anche lei una volta, ma ha smesso. Lui afferra le valigie e con la sigaretta che pende da un lato della bocca si dirige verso l’ingresso. Si ferma per spegnerla davanti alla porta scorrevole prima che faccia quel suono strano strisciando.
Dentro l’ascensore Rebecca si rende conto che quella tenda sottile che ondeggia nell’aria non è solo nebbia. È polvere. Che si attacca a tutto. Si guarda nello specchio. È la prima volta che lo fa, qui a Tirana. Sembra piú giovane. Le rughe d’espressione sulla fronte, le zampe di gallina attorno agli occhi sono quasi sparite.
Dopo aver dato e aver tolto cosí tanto al mio passato, a me cosa darà questo luogo, oltre all’illusione della bellezza? pensa Rebecca mentre due grosse lacrime inaspettate si fanno strada in mezzo alla polvere sul suo viso.
Si stende sul letto della sua stanza e cade in un lungo sonno pesante, senza sogni.
La prima cosa che fa appena riapre gli occhi è chiamare la reception per ordinare un caffè.
– Espresso, macchiato, americano o turco? – sembra una voce registrata.
– Americano, – dice lei velocemente. Quando mai si è visto un americano che ordina un caffè turco?
Sono qui, pensa, qualche minuto dopo, sorseggiando quel torbido liquido marrone. Ha portato la sua vita nella lontana terra dove vagano ancora le ombre della sua infanzia. E in realtà le sembra quasi innaturale aver aspettato tanto a lungo.
Il cielo fuori sfuma verso una tonalità rossastra inusuale. Andi l’aspetta nella hall e di nuovo come se le leggesse nel pensiero dice guardando il cielo: – È il colore che precede la pioggia. È strano che non piova ancora.
– Speriamo di no, – dice Rebecca, – almeno finché non siamo arrivati in ufficio.
– Per questo non c’è da preoccuparsi, le cose di passaggio qui durano per sempre, – ride lui. – Si è adattato persino il tempo.
Rebecca si chiede quanto le ci vorrà ad abituarsi a questo modo di parlare, drammatico e beffardo allo stesso tempo. Le sembra troppo faticoso. E se non ci riuscisse? Se questo paese nel cuore d’Europa ha bisogno della nostra costante presenza ora so il motivo, si dice. Le persone qui potrebbero investire molto meglio tutta l’energia che sprecano per comunicare come personaggi di romanzi ottocenteschi.
Si pente quasi subito di questi pensieri e si avvia verso la macchina di Andi.
Rebecca è esile, con una chioma castana che si poggia su un incarnato tanto pallido da farla sembrare un dipinto della Belle Époque. Indossa abiti raffinati e ondeggia su tacchi alti, e sí, è impossibile inquadrarla subito. A prima vista sembra la direttrice di una rivista di moda.
A volte le persone le sorridono con aria complice: alla bellezza si perdona tutto, la natura ti ha già dato tanto, l’intelligenza non è indispensabile. La cosa che le fa piú rabbia è che spesso sono le donne a pensare cosí. Una sua collega, piú alta di lei in grado, una volta le aveva detto: – Il tuo posto Becky cara è a Los Angeles, dove stanno quelle come te. – Quelle come me in che senso?
Guarda fuori dal finestrino. Sembra una città diversa da quella che ha intravisto dal suo albergo. Il grande boulevard si popola in pochi minuti. Sfila una serie di edifici importanti, il palazzo dei Congressi, il pala...