Albert Cossery nasce al Cairo nel 1913. Nel 1945 si trasferisce a Parigi. Alloggia per breve tempo in un appartamento, poi in un altro, infine si stabilisce all’hotel La Louisiane, che abita ininterrottamente sino alla sua morte, nel 2008. Ha scritto una raccolta di racconti e sette brevi romanzi, tutti ambientati in Egitto, e tutti in francese.
Queste quattro brevi frasi, che sembrerebbero per ritmo e surreale asciuttezza di eventi un tentativo di haiku giapponese, o una finta nota biografica alla Perec, costituiscono la piú vera, la piú giusta presentazione possibile della vita di questo scrittore egiziano di lingua francese, come lui stesso amava definirsi, le cui opere seducono e conquistano irreversibilmente chiunque abbia la fortuna di imbattercisi. Si tratta di un percorso esistenziale insieme ascetico e gaudente, fra le cui pieghe vale la pena d’insinuarsi un po’ piú in profondità, soprattutto attraverso le testimonianze di chi lo ha conosciuto, gli è stato amico, o dei rari studiosi che se ne sono interessati, e di quel poco che lo stesso Cossery, squisitamente socievole nel privato quanto straordinariamente refrattario nel pubblico (nel senso della mondanità in vista del successo, o piú semplicemente della «pubblicità» letteraria), ha fatto trapelare nelle sue sporadiche interviste. Non si tratta ovviamente di cercare nella vita i dettagli che ne spieghino l’opera, ma di osservare il precoce formarsi di un progetto, di una ricerca globale, che ha saputo sposare armoniosamente, stabilmente, il vivere e il creare: Cossery infatti, scivolando attraverso il suo tempo con naturale eleganza, vi ha messo al centro quell’amore per l’essenziale, il gratuito, e finalmente il far nulla, il nulla tout court, come armi contro l’impostura rappresentata dal lavoro, che sono appunto i tratti essenziali della sua inimitabile poetica.
Il padre di Albert Cossery possedeva alcune terre nel Delta del Nilo. La rendita che ne ricavava, sia pur modesta, gli permetteva di vivere e far vivere con certo agio la sua famiglia (anche se con qualche momento di affanno, e allora la moglie andava a vendere un gioiello...), nel contempo dispensandolo da qualunque attività di tipo lavorativo: la principale occupazione della sua giornata era leggere il suo quotidiano. La madre era analfabeta, ma appassionata di cinema. È proprio redigendo storie a partire dai film visti insieme a lei che il piccolo Albert scopre il suo talento con la penna. Aveva dieci anni e, come racconterà oramai piú che ottantenne, sapeva già come avrebbe speso la sua vita, e che la scrittura ne sarebbe stata il filo conduttore. Scrivere, e in francese: perché è alla scuola francese che viene mandato sin da bambino, per via di una antica tradizione francofila, persino nella scelta del nome dei figli, propria di alcuni settori della buona società egiziana – ma anche per motivi piú concreti: la sua famiglia, di confessione greco-ortodossa (era probabilmente d’origine siro-libanese), si era installata in un quartiere copto, e le scuole francesi erano le piú vicine (il che, nel suo ricordo, avrebbe allettato la pigrizia del padre). In questo Albert segue la strada dei fratelli piú grandi, quegli stessi fratelli che per primi gli fanno conoscere la letteratura russa, e soprattutto francese (Balzac, poi Stendhal, sarebbero fra i suoi primi amori). I genitori tuttavia, che pur avevano spinto i figli in questa direzione, parlano solo arabo, e questa lingua sarà una componente fondamentale del francese di Cossery che, già scrittore affermato, continuerà, secondo quel che lui stesso racconta, a pensare nel suo idioma materno. Ai primi anni Trenta risale la sua unica raccolta di poesie: Morsures (Morsi), pubblicata – Cossery non aveva che 17 anni – negli ambienti francofoni del Cairo. Anche se sarà poi ripudiata dall’autore, vi ritroviamo alcuni dei suoi temi fondamentali: la ricerca di un modo di vita libero dal lavoro, il disprezzo aristocratico per «l’infetta accozzaglia» dei borghesi, trepidi delle loro inutili convenzioni e attività, la predilezione per il sorprendente mondo dei marginali, dei mendicanti, degli straccioni. Di fatto, anche se alloggia nella parte europea della città, è in quella popolare che passa le sue giornate, nei caffè della Cittadella, in particolare il Fishawi, il «caffè degli specchi» (che fu anche tra gli altri il luogo di ritrovo di Naguib Mahfouz), semplicemente per osservare la gente, seguirne gli andirivieni, ascoltarne i discorsi. Sempre degli anni Trenta è un suo primo soggiorno a Parigi per continuare gli studi: che non continuerà. In ogni modo, nel 1938 è di nuovo in Egitto. Qui frequenta i membri del gruppo surrealista di Georges Henein «Art et Liberté» o gli intellettuali filocomunisti che fanno capo a Henri Curiel: Cossery tuttavia non milita né con gli uni né con gli altri, non si sente legato da particolari «affinità ideologiche» ma semplicemente dal fatto che sono tutti «amici». Del resto, anche se mostra una chiara sensibilità antifascista e antinazista (proprio nel ’38 firma insieme ad altri intellettuali il Manifesto Vive l’art dégénéré, in difesa dei pittori messi al bando da Hitler) non si può dire uno scrittore impegnato – o meglio, è impegnato ma in senso diverso, piú radicale, rispetto all’«attività politica» dei suoi amici intellettuali che trova inutile, chiusa in uno sterile gioco separato dalla realtà, e soprattutto noiosa: l’ironia, il ridere corrosivo, la profonda leggerezza di non prendersi mai sul serio, di cui sono pervasi i suoi scritti sono per lui, esplicitamente, rivoluzione ben piú totale. Ce n’è abbastanza in ogni caso perché il governo egiziano lo segnali come sovversivo: cosí Cossery, anche temendo il possibile arrivo dei tedeschi, si rifugia nel sud, ad Assuan, poi nel 1942 s’imbarca come steward in una nave commerciale, che però trasporta anche passeggeri, soprattutto ebrei in fuga dai paesi occupati dalla Germania nazista verso gli Stati Uniti. Torna in Egitto nel ’43, quindi nel ’45, con la guerra finita, a Parigi.
Cossery ci arriva da scrittore già «internazionalmente» riconosciuto. In Egitto infatti, a partire dalla metà degli Trenta, ha cominciato a pubblicare racconti su riviste cairote in francese, in particolare la prestigiosa «Semaine égyptienne». Ne scrive cinque, e li riunisce nel volume Les hommes oubliés de Dieu (Gli uomini dimenticati da Dio), che esce nel 1941. I racconti sono letti e apprezzati, fra altri suoi amici, da Georges Henein, ma anche da Lawrence Durrell, che in quel periodo vive in Egitto. E soprattutto lo scopre Henry Miller, che lo fa uscire in traduzione inglese negli Stati Uniti. Il suo è un autentico colpo di fulmine: Cossery – afferma Miller – è l’autore vivente che «descrive nel modo piú acuto e implacabile la vita dell’umanità sommersa», ed è paragonabile ai grandi scrittori russi del passato, anzi «raggiunge abissi di disperazione, di avvilimento e di rassegnazione che neanche Gor′kij o Dostoevskij hanno registrato»1. I protagonisti di questi racconti sono prostitute, piccoli delinquenti, mendicanti filosofi, barbieri ambulanti, artigiani sfaccendati e miserabili, o ancora spazzini che non vogliono piú spazzare, postini che si autoproclamano profeti, ragazzini resi adulti dalla povertà, attori disoccupati... Vivono tutti in un Cairo popolare, sommerso, s’incontrano di preferenza al caffè, e si battono contro i diversi rappresentanti di un potere oppressivo (memorabile il ritratto del gendarme Gohloche) per imporre la loro originale rivoluzione, fondata sostanzialmente sul non agire, il non fare – e questo per salvare, dentro e contro la degradazione, la miseria, la rassegnazione, un tempo diverso: in cui poter contemplare la vita in tutta la sua pienezza, e da qui godere appieno dei sensi, e anche, molto, pensare, o dormire – in due parole: essere liberi. Quindi nel 1944, sempre in Egitto (e di nuovo in traduzione negli Stati Uniti, con grandi apprezzamenti della stampa inglese e americana), esce La maison de la mort certaine (La casa della morte sicura). È il suo primo romanzo: un vecchio straccione, un falegname morto di fame, un cantante da (sordido) caffè, un carrettiere, un uomo che vive esibendo una scimmia... – insomma, una nuova, improbabile galleria di personaggi – abitano insieme in un palazzo fatiscente, che potrebbe crollare da un momento all’altro, e si alleano contro il dispotico padrone di casa per non pagare l’affitto. Non serve la violenza, si deve scrivere al governo – unico problema: il governo sa leggere?
Arrivando a Parigi, insomma, Cossery ha già un contratto in tasca con un piccolo editore francese per la riedizione di questi due libri. Eppure non è per costruire la sua carriera letteraria che Cossery approda nella capitale francese, ma per viverci pienamente, liberamente, nel senso che gli è proprio; e in quel senso Parigi, «quella» Parigi, è il luogo ideale. Parigi, o meglio: la rive gauche, Saint-Germain-des-Prés, che nell’immediato dopo guerra è diventato il cuore intellettuale e artistico della città, succedendo alla straordinaria Montparnasse che lo scrittore ha conosciuto negli anni Trenta. Intellettuale e artistico, ma «alla Cossery»: a Parigi «ci si diverte», in quegli anni, la festa ricomincia ogni sera (il Montana è uno degli appuntamenti preferiti), e il divertimento – come racconterà molti anni dopo – è parte fondamentale della sua vita. A letto mai prima delle due o tre di notte, in piedi mai prima di mezzogiorno. In questa prospettiva, dopo alcuni anni di vagabondaggio da un appartamento all’altro, nel 1955 Cossery approda con le sue magre valigie – pochi libri, qualche pagina scritta di suo pugno, alcuni completi, cravatte – al piccolo hotel La Louisiane, da cui non si muoverà piú: unico mutamento, nel 2002 passerà dalla camera 58 alla 77. (La leggenda del resto semplificherà ulteriormente questo itinerario, facendolo abitare al La Louisiane sin dal 1945...) Libero cosí dal possesso di una casa, come di una macchina – perché il possesso, il superfluo generano schiavitú – Cossery, che al Cairo ha vissuto da egiziano francofilo, organizza la sua esistenza a Parigi all’orientale, da perfetto principe egiziano: come per molti dei suoi personaggi, il caffè è il suo regno di predilezione, la siesta regolare, imprescindibile, l’elemento fondamentale della sua vita «attiva». I caffè, disposti in un piccolo perimetro percorribile comodamente a piedi: il Flore innanzitutto, ma anche i Deux Magots, lo Chai de l’Abbaye, o altri piccoli locali meno conosciuti dei dintorni, dove ancora lo si poteva incontrare, oramai ultranovantenne, sino a pochi giorni prima della sua morte. Qui, impeccabilmente vestito, passava lunghe ore, seduto, ad osservare, ad ascoltare... Ma osservava, ascoltava, contemplava il mondo anche su una panchina dei «Jardins du Luxembourg», o semplicemente passeggiando... E poi ci sono le donne, molte, da attirare, sedurre, e gli amici: la gente «meravigliosa» con cui lo scrittore si lega e che lo radicano per sempre a Parigi. Parli, anche se non esaustiva, la lista dei piú significativi: Henry Miller e Lawrence Durrell, di cui si è già detto, e poi Albert Camus, Raymond Queneau, Boris Vian, Alberto Giacometti, Jean Genet, Louis Guilloux, Roger Nimier, o ancora Tristan Tzara, Juliette Greco, Mouloudji, Monique Chaumette (che ha anche sposato per un breve periodo), Marcello Mastroianni, Jean Vilar, Michel Mitrani, Georges Moustaki, Maurice Merleau-Ponty, e tanti altri che lo hanno semplicemente cercato, ammirato, amato: Michel Piccoli, Richard Bohringer, Patrick Modiano... Tutti artisti, o intellettuali, come si vede, fra i quali molti scrittori – ma nessuna amicizia «letteraria». Tutto è sempre nel segno della leggerezza, del piacere, dell’avventura galante (per le quali si diceva facesse affettuosamente a gara con il non meno seducente Camus). Con un qualcosa in piú, una sorta di «Cossery touch», difficile da definire... Una sua antica amante – ne aveva avute molte – lo incontra per la strada, gli riassume gli eventi dei quarant’anni trascorsi: tre figli, due divorzi, quattro traslochi...; poi lo interroga su cosa abbia fatto lui: «Oh! Per me, niente è cambiato... – risponde Cossery – faccio sempre la siesta nel letto dov’ero sdraiato quando mi hai lasciato»... Folgorante come una perla di saggezza orientale – e ce ne sono tante altre d’identico stampo, gli aneddoti di tradizione orale che lo concernono sono numerosi – questa risposta, che sembra echeggiare nello stile il Marco Polo delle Città invisibili, evoca meglio di tante spiegazioni la musica segreta che ha animato la vita di questo scrittore2.
Lo si sarebbe detto insomma un originale dandy d’antan, un po’ Proust un po’ Stefan Zweig – ma levantino appunto, piú che mitteleuropeo, e piú riservato, completamente alieno come era alle sirene del successo e della società letteraria. Del resto, se quel particolare mondo parigino è stato tutto il suo spazio di vita – non avrebbe potuto neanche immaginare di vivere altrove –, se il francese è stato sin dall’inizio la sua lingua d’arte, Cossery non si è mai fatto francese; e la Francia come l’Europa tutta sono praticamente assenti dai suoi romanzi: ha raccontato esclusivamente l’Egitto. Perché giustamente c’è un’unica «attività» che si è concesso, a cui anzi, pur non «attivandosi», si è consacrato: la scrittura.... In oltre sessant’anni di attività letteraria, ha scritto altri sei romanzi, uno ogni dieci anni: il ritmo è indolente dunque, ma è ritmo – implacabile, regolare, necessario, come il respiro. È come se avesse voluto mantenere un equilibrio tra fare e non fare, lavorare non lavorando. D’altronde lo ha affermato esplicitamente ogni volta che ha avuto modo di esprimersi in tal senso: la scrittura non deve esistere a detrimento della vita, ma esserne parte. Anche, irride quelli che pretendono di scrivere tutti i giorni, si prendono sul serio, s’inorgogliscono di quel che fanno, in una parola sono degli «imbecilli», o peggio: son contenti di sé. Lui no, e non ha nessuna fretta: non ha orari, né scadenze, scrive due o tre frasi la settimana, le aggiusta e le riaggiusta a lungo, ricercando ossessivamente una perfezione che pur sa impossibile, nella consapevolezza, verrebbe da dire borgesiana, che sarà forse solo la fatica a fissarle nella loro forma definitiva3; o magari scrive per quindici giorni con regolarità, poi per uno, due, tre mesi non scrive piú nulla, ci torna sopra, ma senza mai sapere se e dove arriverà. Ed ecco che dietro il dandy appare il monaco, l’asceta, o se vogliamo il filosofo, nel senso caro a Pierre Hadot. Non solo infatti non c’è frattura, in Cossery, fra vita, scrittura e oggetto della scrittura, ma soprattutto la chiave di questa armoniosa continuità sembra una riformulazione moderna dell’antica ostilità dei Greci per la banausía, il lavoro, nel senso del lavoro manuale, o piú in generale il mestiere, a cui si oppone la libertà di pensare il mondo. In questa prospettiva, lo scrivere scandisce, serve, l’offrirsi di una vita libera dalla schiavitú del lavoro (quello manuale, certo, ma anche ogni attività salariata, o che abbia come fine il profitto) e in quanto gratuita attività dello spirito obbedisce alle leggi dell’ozio piú che a quelle del lavoro, e anzi non può propriamente essere considerato tale: «non far nulla è un lavoro interiore»4. L’opera insomma chiude il cerchio, diventando il luogo dello spirito che dispiega la vita libera, e di piú: lo strumento che ne permette la piena realizzazione – lo si può dire con una frase, ricorrendo alla sua risposta oramai mitica a chi gli chiedeva perché scrivesse: «perché qualcuno che mi ha appena letto decida di non andare a lavorare l’indomani»5.
Il primo dei romanzi scritti in Francia – e dunque suo secondo – è proprio Les fainéants dans la vallée fertile (I fannulloni nella valle fertile), che esce nel 1948, e narra di Rafik e della sua famiglia, interamente consacrata a difendere il proprio sonno, unico vero obiettivo dell’umanità. Segue nel 1955 Mendiants et orgueilleux (Mendicanti e orgogliosi), che racconta di Gohar, il filosofo che si è fatto mendicante per scelta e assassino per caso, insieme al suo lunare cenacolo di discepoli straccioni o marginali, che preferiscono, allo squallido quotidiano in cui son costretti a vivere, l’amore, la droga, la poesia6... La violence et la dérision (La violenza e la derisione), del 1964, ruota attorno a Heykal, altra straordinaria figura di mendicante, che ha capito che la violenza dell’autorità non si può combattere con altra violenza, ma solo insegnando al popolo a ridere. Ridere della sconfinata stupidità del potere, travorgerla costruendo scherzi, feroci prese in giro. Nel 1975 esce Un complot de saltinbanques (Un complotto di saltimbanchi), che insieme al precedente potrebbe formare un singolare manuale per rivoluzionari atipici: tre marginali sfaccendati, con alla testa Medhat, tentano a loro modo di sovvertire l’ordine costituito e si divertono a mettere sulla pista di un inesistente complotto uno stolto capo della polizia. Une ambition dans le désert (Un’ambizione nel deserto) esce nel 1984. Si cambia di epoca e di luogo (tutti gli altri racconti e romanzi di Cossery sono ambientati nell’Egitto della sua giovinezza, gli anni Trenta), ma è solo per aggirare il lettore e offrirgli un quadro sostanzialmente simile, e soprattutto la stessa ossessione: in un immaginario paese mediorientale del presente Samantar, fedele alla sua oasi di pace di fronte al mare – è la...