
- 152 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Cico c'è
Informazioni su questo libro
Mariù ha diciott'anni, e un corpo che è un fusto di canna: incinta, lei, figurarsi. Eppure lo sa dal primo minuto, sarà impossibile ma Cico c'è. E accanto a lei la rabbia di Erina, la sapienza di Rachele, le confuse attenzioni di Federico e tutti i pensieri incontrollati che si agitano intorno all'idea stessa di futuro.
Il viaggio accidentato attraverso il paese del corpo, in un singolare e ironico romanzo «fisiologico» dove il sesso, l'amore e la paura tornano alla loro natura chimica
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Informazioni
Print ISBN
9788806167455eBook ISBN
9788858424247Seconda parte
Uno
Non ci si dà conto, all’inizio, è sempre cosí: è una specie di rude discrezione. Tutto, all’entrare, è stato tacitamente diviso in parti uguali: una sedia ciascuno, metà del tavolo, un’anta d’armadio, un comodino, un abat-jour a testa. Cesso e telefono sono inevitabilmente da condividere, e cosí il piccolo crocifisso di callo e una cartolina cui hanno messo la cornice. Appesa a una delle smunte pareti della stanza, un po’ insulsamente, com’è naturale che sia in un ospedale, raffigura un giallognolo Canal Grande chiuso dentro un rettangolo di plastica madreperlata.
Sua madre è piú calma, ora. È strana, distesa su quel bianco scoraggiante, addosso, di sbieco, la giacca del tailleur. La faccia cucita, ostenta di sonnecchiare. Erina ne approfitta per sistemare la roba. Tira fuori camicia e babbucce ma non gliele dà. La trasformazione in degente in certi casi avviene piano piano. Certuni sfilano la giacca, infilano il pigiama e insaccano il letto. Altri cedono i capi abituali come bucce, come pelle di muta. Sua madre certamente è dei secondi.
– Io te le preparo qui, mamma.
Dentro, anche lo stipetto di lamiera è separato in due. A destra si ammonticchiano i beauty-case della Vivian, le sue scarpe, la sua vestaglia. La Vivian è una giovane donna grassa e sta dentro l’altro letto, addio letto ha pensato Erina quando le hanno indicato la ventotto. Nelle stanze a prezzo intero, invece, c’è un letto per chi fa la notte oltre alla tivú al frigobar e a un vero armadio.
Ma la metà della Vivian è ordinata. Che si chiama Vivian, Erina lo sa perché prima è entrato un uomo senza bussare, ma aveva un camice bianco. – Signora Vivian? – ha chiamato a muso duro, la pelle cenere, e ha piantato gli occhi in quelli di Erina. – Sí, – ha risposto pronta la madre che l’assiste.
Cosí Erina ha appreso che non è solo grassa, è anche incinta, e che sarà un cesareo. Ci risparmia le doglie, ha considerato. E ha richiuso lo sportello di latta senza accorgersi di fare troppo rumore.
Ma la Vivian non è solo incinta, è anche grassa come un bambino, e sa di borotalco. I capelli rossi separati con diligenza e legati a treccia, spruzzi rosa di lentiggini sulle carni latticine. Una camicia corta, maniche a sbuffo, fragoline, sembra piú giovane di quello che denuncia una fede esagerata intorno al dito e la pancia che pare una bomba innescata. Non si muove, sotto quella pancia, come un insetto sotto un sasso, e gli occhi rotondi sono sempre colmi di un umore di lumaca. – ’Ngiorno, – ha detto Erina entrando, e lei ha appena torto il collo.
Saluta la madre per lei. Fa molte altre cose, per lei: apparecchia e sparecchia, sforna e inforna l’armadio, carica e scarica la pala sfiatando energicamente per la stanza. È una cavalla bionda sulla cinquantina, cosce alte, lombi di chiatta, occhi costantemente appannati dall’ansia. – Mm… – fa la figlia. – Cossa ghe se? Niente, niente, – e quegli occhi di stagno precipitano in una risata che si sforza d’essere corroborante, che le strappa il viso e le taglia le guance di rughe, è tutto passato, su, su.
La figlia, il collo torto in modo innaturale, la guarda sollevando i suoi occhi bovini come chi pensa: ma tu che ne sai. Erina la spia con stizza ogni tanto, ma che ha, l’allergia? Le dà sui nervi come le danno sui nervi i bambini, perché è vietato picchiarli, anche se ti fanno diventare pazza. Ma la Vivian non fa diventare pazzo nessuno. Sta messa lí, nel suo angolo, raccolta attorno al suo pancione, non fiata, aspetta e aspetta, tenendo a pelo i lacrimoni.
L’occasione d’approccio si presenta da sé. Può essere chiedere di adoperare la «loro» sedia, scusarsi di invadere la «loro» metà di tavolo: la risposta è quasi sempre generosa, per quel naturale istinto di solidarietà fra parti lese, io aiuto te, tu me quando verrà l’ora perché verrà. Si inizia cosí. Due parole, poi nulla. Un’informazione discreta sull’ora dei pasti poi zitte, ognuna intenta alla sua inferma. Poi magari entra una visita e ci si sente in dovere di presentare.
– Mio genero… – È appena entrato un uomo tarchiato, e la Bionda ha fatto un timido cenno.
– Piacere, – ribatte Erina dall’altra sponda, una distanza sicura per non essere costretta a stringergli la mano. Ha una gran faccia abbronzata su una stazza che scoppia di peli da tutte le parti e due occhi colore bottiglia, anche i suoi sbavo di lumaca, ma insomma che iella pensa Erina, e intanto sorveglia l’andamento impacciato delle sue grosse mani, che non fanno nulla e si capisce tutto quello che vorrebbero fare. Gli occhi sono per la suocera, a lei domanda: – Novità? – Un sospiro, poi la donna inizia a parlare veloce e sommessa, e Erina ostenta la propria discrezione. Alla fine l’uomo si fa largo fra i letti e conquista la sedia al capezzale: la moglie rovescia il capo sull’altra spalla. Piú che parlare sembrano fiutarsi, capirsi a brevi mugolii, a rapidi, approssimati gesti, e restano a mangiarsi gli occhi. Erina mostra di non guardare e si passa inavvertitamente una mano sull’altra.
Quand’è stata l’ultima volta? Stamani, per lavarsi… Si guarda le palme: righe di tagli, la pelle dura, zigrinata, a passarle una sull’altra scorza di noce, e cosí sulle braccia. Non resiste e fila in bagno. Lí, le bagna subito e non le asciuga. Tutto sta a vedere fuori quanto dura, se c’è l’aria secca, e in ospedale c’è spesso l’aria secca: appena fuori, si mette a strisciare subito fra le dita, Erina si sente asciugarsi. Finisce che passa due energiche manate sui pantaloni e non se ne parla piú.
Infine il marito accosta la guancia puntuta a quella rosacea della moglie e si decide ad andare, cosí Erina può finalmente provvedere alla muta di sua madre. Complice il suo stato di semicoscienza, in cinque minuti dalla camicia sbucano i radi capelli inariditi dall’ultima tintura e quella faccia ostinatamente chiusa. È la faccia di quando le rimprovera la sua inettitudine, la sua ignavia di egoista, «arrúnchiati sempre!» le urla di solito in questi casi. Ma l’ha appena cambiata che entra il medico, quello di prima, quello della Vivian. Dev’essere lui Ginevra.
– Dottore, – geme sua madre, e gli abbandona il polso fra le dita. Allora sei sveglia, pensa Erina. Lui china la fronte come per tuffarsi a capofitto nel caso, ma dopo quindici secondi di assoluta concentrazione la molla.
– A posto.
– Quanto?
– A posto, – e va verso la porta. È alto, corpacciuto, si muove con cauta indifferenza, il passo è pesante, in fondo impacciato. Giovane lo è, anche se il neon batte su di lui un livore di tubero lesso.
– Dottore, quando ripassa? – chiede Erina rimuginando sull’anestesia.
– Stasera, – si getta alle spalle uscendo, con voce uguale.
Ma la sera lo hanno aspettato fino all’una, le due. – Forse è di turno, forse passa piú tardi, – le ripete la Bionda ogni quarto d’ora, quando la testa crolla sul grosso petto svegliandola di soprassalto. Lei scatena la zazzera gialla come fanno i cavalli e tira energicamente su col naso. Erina si è stretta addosso la giacca di sua madre e si è seduta anche lei sulla sedia che le spetta. La guarda nella penombra dell’abat-jour: l’ultimo tranquillante l’ha stroncata come un colpo di taglio sulla nuca. L’altra, la Vivian, dorme che pare un bambino, un respiro mite passa appena dalle sue labbra. La Bionda intanto tenta un’altra posizione: fronte in mano, il gomito puntato sulla pancia, si spegne per un altro quarto d’ora: Erina conta. Poi il sonno di piombo sconquassa il difficile gioco di leve: la donna sussulta, rialza la cresta e i suoi occhi ghiacciati incontrano quelli di Erina: – No, forse piú tardi. Certe volte verso le tre… – soggiunge, come se avessero smesso di parlare da un minuto. Da quanti giorni, tre, cinque, sette, fa questa vita?
All’improvviso la porta si apre, una lama di neon taglia trasversalmente i corpi delle degenti: una figura in camice, bruna in controluce, sembra gettare uno sguardo e scompare subito, senza richiudere.
– Ma chi era? – fa curiosa la Bionda. Erina non la guarda e non risponde. Si alza, si tira addosso la giacca ed esce. Fuori, nessuno. Un corridoio lungo come uno sbadiglio, per terra la cipria di una stanza insonne. Ma la porta dell’infermeria laggiú è spalancata e manda una luce violenta. Qualche passo verso la scala basta a distinguere grida orrende su dal piano di sopra.
– Aiuto!
– No, no!
– Perché?
– Dottore, dottore!
– Perché?
Sono tre, quattro voci di uomini e donne, forse di piú. Le parole si sformano, si sovrappongono, l’eco delle rampe le dilata. Poi di colpo piú nulla, come quando si spegne la televisione. Erina fa dietrofront e si chiude la porta alle spalle.
L’altra non chiede niente. È lei a domandare: – Che c’è sopra?
– La sala operatoria, – ribatte quella pronta. Poi caccia un sospiro e conclude: – Ognuno gavemo le nostre.
Voleva esserci pietà nella battuta. Approfittando della penombra, Erina china la faccia e sputa tre volte nel cavo delle mani, accorta a fare meno rumore possibile. E subito ficca i pugni sotto le braccia. Proprio come faceva da bambina. – Arrúnchiati sempre! – le urlò una volta sua madre, perché sostiene che uno egoista è principalmente uno fottuto di paura.
Due
Che Cico ci sia lo sa bene ormai, non ha bisogno di aspettare la conferma di un test. Non ha fame, Mariú, e si sveglia al mattino e si corica la sera con un retrogusto di succhi amari, come se il suo stomaco avesse deciso di divorare se stesso e producesse incontrollabilmente acquolina all’idea. Invece è lui, il germe. Se lo figura che fa su e giú per le sue viscere, e in bagno spinge sugli addominali, come se potesse farlo fuori cosí. La notte, il suo cuore si scatena in fibrillazioni, e allora gli vede puntare zampine di ragno fino a solleticarglielo, poi il formicolio sale lungo il petto, lo sente in gola Mariú, diventa un nodo insopportabile, la soffoca e lei tossisce, tossisce per sputarlo come un boccone andato per travers0. Macché.
Dispone ormai del suo corpo. Lei cerca di non convincersene, non molla, combatte istante per istante: deglutisce se lui le stringe la gola, se le fa bruciare sotto ci orina sopra, s’impone pratiche yoga se le pulsazioni aumentano troppo, o ingoia un calmante. Non molla Mariú, non vuole ammetterlo, ma perde terreno ogni giorno, ogni ora, ogni minuto. Chiude gli occhi e lo vede. Punge e succhia, succhia e scava finché dalla buca non esce l’acqua, finché non mette radici, le radici crescono e lui, a poco a poco, non la sventra.
– Non pensarci piú, – le ha detto mamma. E invece il pensiero di Cico sta piano piano allagando i suoi pensieri. Qualunque cosa, la piú lontana, per le associazioni logiche piú impervie. Il docciaschiuma in offerta, le uova fatte sode che vengono piú leggere: eccola, la spaventosa idea. Un attimo è nel boccone che non scende, in una fitta. In un brutto sogno. Uno starnuto. Eccola, la prova lampante: Cico c’è.
Mamma la vede continuare la sua vita di sempre, sveglia alle dieci, la mattina cercare lavoro al computer, telefonate, poi pranzo, poi il corso di inglese o stretching, e ringrazia fra i denti Cristo santo. Ma che ne sa perché le è presa tutt’assieme la mania di bere d’un fiato l’acqua gelata o il tè bollente, o di portare i pantaloni una taglia sotto e la cinta due misure indietro, e perché non perde occasione, da un po’ di tempo, di piegarsi in due, se capita, e indulgere in quella posizione, e improvvisamente a casa si offre volontaria per tutti i lavori pesanti: scaricare la spesa settimanale, trasportare bidoni, sollevare tinozze, spingere i mobili se è ora di fare le pulizie. E perché considera a lungo la rampa, ogni volta, prima di iniziare a scendere le scale… È il suo modo minimo, perfettamente dissimulato, di ucciderlo un po’. Quel pugno di acidi e proteine, quella virgola invertebrata che le scodinzola in fondo, quello scarafaggino, quella tarma…
Ha pensato pure a mandar giú un paio di pillole anticoncenzionali: ne ha trovato una scatola fra i farmaci di mamma e ha letto le indicazioni. Curano l’acne, l’ovaio policistico, ma parla anche di Cico, se ci fosse. Cosí andrebbe via, dice la carta, annegato nel sangue e poi travolto, trascinato dalla tempesta endometriale, recisi quei tenaci filamenti, quei peduncoli ciliati che lo appiccicano alle pareti uterine con l’ottusa irremovibilità dei parassiti. Cosí dice. Sarebbe uno scherzo. Che aspetta Mariú? Ma all’ultimo istante, ogni volta, la parola «teratogeno», elencata con nonchalance tra gli effetti indesiderati, non sa che vuol dire ma basta ad atterrirla. – Non pensarci piú, me lo prometti? – In quel preciso istante deve aver deciso di essere diventata adulta e che era ora di andare via.
Perciò ha richiamato Erina e le ha dato la risposta. Si sono accordate per l’indomani, con la massima urgenza, perché lei ha la madre in clinica e non starà molto a casa nei prossimi giorni. Ha fatto un salto da lí, per incontrarla. Le ha consegnato una copia delle chiavi e Mariú la sua quota di mensilità. In poche battute hanno diviso gli spazi utili, Erina le ha illustrato le abitudini di una vecchia, capricciosa lavatrice, e come si chiude la manopola del gas.
– E non ti montare la testa col fatto che non ci sono. Tornerò appena posso, non avrò orari, alle due di notte come a mezzogiorno, intesi?
Mariú, che nella camera che sarà sua ha chiesto il permesso di procurarsi un poco di spazio (– Che cavolo chiedi, ora questa è pure casa tua, – le ha risposto Erina, facendola felice) ormai lo capisce subito cosa intende. È inutile, considera, quella che non funziona sono io. – Sai come parli? – le risponde, ma senz’astio, anzi quasi contenta. – Come mia madre.
A Erina che fa bagagli in bagno la boccetta di tonico sguscia fra le dita e si rompe. – Che hai detto? – le grida.
– Niente. Che farò la brava, promesso.
Piú o meno quello che ha detto anche a mamma, con la quale a comunicarle che se ne andava è finita meglio di quanto Mariú si aspettasse. Gli occhi sgranati, Mariú aspettava… Niente, non ha pianto né invocato Cristo santo: farfugliava a o...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Cico c’è
- Prima parte
- Seconda parte
- Terza parte
- Ancora qualche grazie.
- Il libro
- L’autore
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