La buona storia
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La buona storia

Conversazioni su verità, finzione e psicoterapia

  1. 144 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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La buona storia

Conversazioni su verità, finzione e psicoterapia

Informazioni su questo libro

Un grande scrittore e una psicoterapeuta si confrontano sulla necessità dell'uomo di raccontarsi e di inventare delle storie. J. M. Coetzee e Arabella Kurtz prendono in considerazione la pratica psicoterapeutica, e il suo piú ampio contesto sociale, partendo da prospettive diverse, ma al centro di entrambi i loro approcci vi è il comune interesse per la verità e per le storie. Uno scrittore lavora in solitudine, ed è l'unico responsabile della storia che racconta. Il terapeuta, viceversa, collabora con i pazienti per far emergere un racconto della vita e dell'identità del paziente che sia allo stesso tempo significativo e vero. Che tipo di verità le storie create dal paziente e dal terapeuta cercano di scoprire? La verità oggettiva o quella mutevole e soggettiva dei ricordi esplorati e rivissuti durante la relazione terapeutica?
Confrontandosi con le opere di grandi scrittori come Cervantes e Dostoevskij o di psicoanalisti quali Freud e Melanie Klein, e discutendo di psicologia individuale o dei gruppi (le classi scolastiche, le bande giovanili, le società coloniali), Coetzee e Kurtz propongono al lettore illuminanti intuizioni sulla nostra capacità – e difficoltà – di analizzarci e di raccontare, a noi stessi e agli altri, le storie della nostra vita.

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Informazioni

Otto

Esperienze di gruppo: musica, calcio, religione estatica. ‘Sapere’ condiviso all’interno del gruppo. Problemi teorici sul pensiero di gruppo. L’individuo vs il gruppo: esperienza personale in Sudafrica. Il nazionalismo come esperienza di gruppo regressiva. Bion sul pensiero di gruppo. Eugène Marais sull’anima collettiva. L’esperienza di nascere in una grande famiglia (allargata). La natura dell’attività di gruppo, ieri e oggi. Lavoro di gruppo e alienazione. Appartenenza al gruppo: volontaria vs involontaria. Classi scolastiche come gruppi. Comportamento regressivo in classe. Bande giovanili.
Aspetti positivi, non-regressivi del nazionalismo. Capire la mentalità di gruppo. Esperienza del gruppo nel neonato. La triade familiare come gruppo fondamentale. Assistenza Sanitaria Nazionale come impegno collettivo. L’alienazione nel servizio sanitario di oggi. La famiglia come palestra per il successo nel gruppo. Lo sviluppo edipico. La «posizione depressiva» (Melanie Klein) e il suo impatto sulla vita del gruppo. «Spazio triangolare» (Ronald Britton) e adattamento del sé nel gruppo. Conseguenze del tentativo mancato di occupare il terzo spazio.
JMC L’altro giorno ho acceso la radio e c’erano le Variazioni Goldberg. Un’esecuzione che trovavo interessante, anche se un po’ troppo romantica per i miei gusti, ma profonda e coinvolgente. Poi ho sentito una tosse soffocata, e mi sono reso conto che si trattava di un concerto dal vivo, o almeno della registrazione di un concerto dal vivo. Benché mi trovassi a casa, da solo, stavo ascoltando musica in compagnia, o forse solo in compagnia registrata, di un gruppo di sconosciuti.
Non vedevo questi compagni di ascolto, non avevo idea di dove vivessero, né di chi fossero come individui, ma c’era certamente qualcosa che ci univa: eravamo disposti a lasciar perdere altre occupazioni per ascoltare, come poi scoprii, Angela Hewitt. Eravamo riuniti ad ascoltare una pianista che conoscevamo e ammiravamo mentre lei si lasciava trascinare dalla musica, e attraverso di lei, anche noi lo facevamo lasciandoci inondare. Per la durata dell’esecuzione eravamo, per cosí dire, un’anima sola, uniti, non so trovare una parola migliore, dall’amore. Non tutti occupavamo lo stesso spazio fisico, ma dal nostro corpo collettivo fluiva una corrente d’amore che attraverso l’esecutore-officiante, chino sulla tastiera, andava verso Johann Sebastian, e verso chi o cosa ne aveva guidato la mano. E attraverso la musica, anche noi sentivamo fluire in noi una specie di amore (perché altrimenti ci trovavamo lí?)
Poi il pezzo terminò e ci fu un lunghissimo silenzio prima che qualcuno osasse applaudire.
Quella che ho descritto è un’esperienza di gruppo, un’esperienza in cui la consapevolezza del proprio ego è soppressa o indebolita. Il mondo appare all’improvviso piú semplice. Si è tutt’uno con i propri vicini, in uno stato di lieve estasi, fuori dal sé di ogni giorno.
Una versione meno nobile di estasi di gruppo è quella della folla del calcio. Ci sono persone che vanno alle partite non tanto per il gioco quanto per avere l’esperienza della folla – ma naturalmente il collante della folla è in quel caso dato dalla concentrazione dei singoli membri su un evento unico, di per sé molto affascinante, cioè la gara sul campo.
Se si è ostili al fenomeno della folla, se ne parla come massa, da mobile vulgus, la marmaglia di strada le cui passioni sono mobili, facilmente eccitabili, imprevedibili. Esiste anche la psicologia della folla o della massa, ma non mi sembra utile parlarne insieme a quella dell’individuo. Il fatto è che ad alcuni non piace stare soli, lo sentono come una specie di oppressione, e si sentono pienamente vivi solo insieme agli altri, in un gruppo o anche tra una folla. La società punisce le persone rinchiudendole da sole, e dunque sembra ci sia una sorta di consenso sociale nel ritenere poco piacevole trovarsi da soli per un lungo periodo di tempo.
Lei esprime qualche dubbio sulla possibilità o utilità di passare dalla psicologia individuale a quella che stiamo definendo, genericamente, psicologia di gruppo. Concorderei nel dire che è difficile usare la psicologia dell’individuo per capire la ‘psicologia’ della folla, cosí come la psicologia dell’individuo non ci aiuta a capire gli stati di estasi in generale, poiché gli stati di estasi si riferiscono a una fuga o abbandono del sé.
Ma lei pone il problema in maniera piú profonda: come possiamo conoscere i gruppi in quanto gruppi, invece di conoscerli come pluralità di individui? E, sulla scorta di Menzies Lyth, lei suggerisce che un gruppo spesso può arrivare a capire un altro gruppo meglio di quanto non ci riesca un ricercatore da solo.
Se pensiamo ai gruppi a livello di folla o perfino maggiori, si può capire come i gruppi conoscano altri gruppi, benché come intellettuali nutriamo una diffidenza quasi viscerale per questo tipo di conoscenza. Penso a come si conoscono nazioni o tribú confinanti con una lunga storia di conflitti alle spalle. Essendo vicini sanno molte cose l’uno dell’altro; ma quello che sanno è colorato o inquinato da una specie di pregiudizio generalizzato (gli scozzesi sono avari, gli inglesi sono traditori, e cosí via) e irragionevole, che fa parte della cultura e dunque è incontestabile.
Come intellettuali neghiamo validità a questo tipo di conoscenza. Ma poiché viene ritenuta valida dai suoi detentori («Noi conosciamo gli scozzesi e voi no, abbiamo vissuto a stretto contatto con loro fin dall’inizio della storia») non possiamo non tenerne conto.
Ancora un avvertimento: in tutte le religioni del mondo gli stati estatici hanno fatto parte dell’esperienza religiosa. Ci sono varianti estatiche della cristianità (troppe per nominarle), del giudaismo (il chassidismo), dell’islam (i sufi). Le varianti ‘alte’ o razionali di queste religioni tendono a disprezzare quelle estatiche come regressive, come un cedimento o un ritorno a un modo primitivo di accedere al divino. Penso che dovremmo andare cauti, nelle nostre riflessioni sulla psicologia di gruppo, nell’accogliere questo pregiudizio ‘alto’ contro il non-razionale (l’‘irrazionale’), nel ritenere a priori che la psicologia di gruppo sia ‘primitiva’ e perciò priva di complicazioni.
Naturalmente il suo interesse, professionale e personale, va a gruppi piú piccoli delle folle. Lei osserva che spesso i gruppi vengono capiti meglio da altri gruppi, come per esempio i gruppi di studio, piuttosto che dai singoli ricercatori; e scrive cose interessanti sulla dinamica psichica del gruppo di ricerca. Lei sostiene che, almeno nella tradizione anglosassone, il linguaggio tecnico per descrivere i fenomeni di gruppo è poco sviluppato.
La mia sensazione, non suffragata da alcuna autorità, è che culture piú comunitarie della nostra – per esempio le culture africani tradizionali – siano meglio attrezzate concettualmente per comprendere questo campo, e riescano meglio di noi a pensare ai fenomeni di gruppo. Sfortunatamente non possiamo trasferire tale apparato concettuale senza importare l’intera cultura, l’intera Weltanschauung.
Lei pensa che il mio interesse per il pensiero dei gruppi derivi dal fatto che sono cresciuto nel Sudafrica dell’apartheid.
Forse ha ragione, ma lo sviluppo del mio interesse non segue un percorso diretto come potrebbe sembrare. Gli afrikaner, la tribú o gente tra cui sono nato e con cui mi sono violentemente scontrato specialmente nell’infanzia, avevano un gran bisogno, almeno nel corso del XX secolo – ora non piú tanto – di serrare le fila come gruppo contro un mondo ostile, e tendevano a classificare le persone con loro o contro di loro, senza stadi intermedi. Una relazione con il gruppo di tipo piú complesso, come quella che avevo (e che ho), era impossibile.
Per quanto ci fosse pressione dall’alto, dalla componente piú ideologica della leadership, a favore di manifestazioni organizzate di patriottismo o di pensiero di gruppo – per esempio riunioni di massa e parate militari, come quelle che si associano alla Germania nazista – non ho mai percepito un grande entusiasmo per queste cose tra la gente comune. Non bisogna dimenticare che gli afrikaner hanno vissuto il loro momento migliore nella guerra anglo-boera, quando riuscirono a mettere insieme una forza di combattimento molto efficiente benché irregolare, caratterizzata piú dall’individualismo che dalla disciplina di gruppo: gli uomini (esito a chiamarli soldati) pensavano che fosse loro diritto abbandonare il campo di battaglia, sellare il cavallo, e tornare a casa dalle loro famiglie per il fine settimana. Come stile di vita il militarismo ci invita a rinunciare alla facoltà di giudizio individuale e a sottometterci alle passioni del gruppo dominante. Il calvinismo, la religione ufficiale dello stato afrikaner, era ed è una religione della ragione, diffidente verso le forze irrazionali. Questo è il motivo principale per cui le chiese calviniste del Sudafrica stanno decisamente scomparendo a favore di quelle pentecostali.
La mia battaglia dell’infanzia contro il mondo afrikaner non era contro un sistema che cercava di inglobare tutti, me incluso, nella sua irrazionalità (un sistema di quel tipo potrebbe essere il maoismo), ma contro il trionfalismo afrikaner: i valori della piccola borghesia afrikaner, con tutti i suoi feroci pregiudizi, dominavano il discorso pubblico, e la benché minima voce di dissenso veniva schiacciata.
All’epoca in cui, come tutti i bambini, mi sforzavo di capire il mio posto nel mondo, la mia famiglia mi ha certamente fornito un materiale morale sconcertante. Penso in primo luogo a mia madre, i cui rapporti con gli altri esseri umani mi sembravano moralmente ammirevoli a livello personale, ma che nondimeno sosteneva se non l’apartheid come sistema sociale, certamente coloro che governavano il paese. (Mia madre era apolitica nel senso in cui lo sono quasi tutti: si identificano con i capi piuttosto che con le linee politiche). Nel caso di persone come mia madre si può a buon diritto parlare di regressioni e riprese, che si alternavano mentre lei oscillava tra essere se stessa ed essere una sudafricana bianca.
Dunque, per ribadire apertamente la tesi implicita in quel che ho detto: il nazionalismo (tribalismo) è una condizione regressiva; e se sono interessato ai gruppi (al pensiero di gruppo, al comportamento di gruppo) è perché nel corso di tutta una vita, pagando un certo prezzo, mi sono per reazione ben guardato dal regredire nel gruppo.
Un certo prezzo perché penso che la regressione sia una parte naturale della vita umana. Arriverei addirittura ad affermare che la regressione periodica possa far parte della naturale economia psichica, del modo in cui ci conserviamo sani (‘equilibrati’).
È quasi inutile dire che l’interesse di Wilfred Bion per i gruppi nasceva dal mondo intorno a lui che, tra il 1914 e il 1918, era regredito a una follia collettiva, il cui aspetto piú folle era l’apparenza di razionalità estrema (ad esempio, la pianificazione militare). Come lei nota è stato sempre difficile pensare in quanto gruppo; e potrebbe essere necessario elaborare, come suggerisce, un linguaggio tecnico adeguato prima di cominciare a parlare di pensiero di gruppo. In proposito si potrebbe cominciare a riflettere sulla nozione stessa di pensiero. È una buona idea usare lo stesso termine per quello che fanno gli individui e quello che fa il gruppo? Cosa facciamo quando pensiamo di stare pensando?
Un’altra nota sulla genesi del mio interesse per il pensiero di gruppo. Una generazione dopo il primo studio sulla psicologia della folla di Gustave Le Bon (che Freud aveva letto attentamente), un afrikaner di nome Eugène Marais pubblicò un libro sulle colonie di termiti; la sua tesi era che la colonia avesse una mente sola, collettiva1. Secondo Marais questa mente unica non doveva intendersi metaforicamente: si trattava in realtà di una mente che trascendeva la somma delle intelligenze delle singole termiti. Marais, poeta, medico e intellettuale indipendente, aveva a sua volta scritto un libro sul momento in cui nella storia dell’evoluzione la coscienza individuale si separa dal gruppo.
AK Si direbbe che lei associ qualsiasi forte senso di appartenenza a un gruppo con la regressione. In effetti molte delle maggiori conquiste umane sono il risultato di gruppi che lavorano insieme e che sviluppano di conseguenza un forte senso di identità condivisa. Il pubblico di un concerto o la folla a una partita di calcio possono godersi una esperienza di gruppo relativamente facile, in cui si sentono all’unisono con un corpo piú ampio, trasportati fuori da sé e oltre i limiti dell’individualità. Ma la squadra in campo o i musicisti dell’orchestra lavorano sodo e, a differenza del pubblico, lottano contro i loro limiti individuali, e agiscono sulla base di una comprensione del loro piccolo ruolo in un insieme complesso – o almeno provano a farlo.
Per lo stesso motivo, non credo che il nazionalismo di per sé rappresenti una forma di regressione. Bisogna fare una distinzione tra il giusto orgoglio di gruppo nazionale per i propri successi e il tipo di sentimento nazionalista o di sciovinismo dettato dal bisogno di rinforzare la propria parte a scapito di un’altra spesso mediante atti di intimidazione e di aggressione. Come lei osserva, questo tipo di nazionalismo tende ad accompagnarsi a un’estrema intolleranza nei confronti del dissenso interno. Ma un genuino e giusto orgoglio nazionale dovrebbe essere alla base di relazioni, nazionali ed estere, migliori, non peggiori.
I suoi ultimi commenti mi hanno spinto a riflettere su quanto avevo scritto in merito all’utilità di considerare un gruppo come tale piuttosto che come pluralità di individui. Ritengo ancora che da un punto di vista tecnico ci sia del buono in questa idea. Sono stata colpita dalla capacità di alcuni colleghi che si occupano di terapia familiare e di gruppo di osservare e capire quanto accade nella stanza di consultazione a livello di gruppo, piuttosto che farsi coinvolgere dall’esperienza di un individuo o di una piccola cerchia di persone all’interno del gruppo. Ho già menzionato Bion, che ha scritto delle tendenze osservate nei primi gruppi psicoterapeutici da lui condotti dopo la prima guerra mondiale, che lo consideravano loro guida, mostrando aspettative forti e del tutto ingiustificate nei suoi confronti, aspettative che non necessariamente albergavano nella mente dei singoli, ma che gli venivano comunicate in maniera chiara dal modo in cui il gruppo si comportava nel suo insieme.
Tuttavia, la conclusione da non trarre da questo tipo di osservazione, e in particolare l’osservazione che l’atteggiamento del gruppo non è presente in modo esplicito nelle menti degli individui, è che il gruppo è una cosa e gli individui del gruppo sono un’altra. È facile cadere in questa trappola perché i due possono apparire cosí lontani. Nel ruolo di insegnanti, per esempio, io e i miei colleghi spesso ci troviamo a pensarla in questo modo: «Quel gruppo di studenti è cosí difficile, ma presi individualmente sono completamente diversi».
A me sembra che quando un gruppo agisce sulla base di contributi di cui i singoli membri sono a conoscenza, che hanno davvero acquisito, si verifica una situazione, simile a quella di una efficiente democrazia nella vita nazionale, in cui la vita individuale e quella di gruppo vengono percepite come strettamente collegate. Ma spesso prevale l’altra situazione, quella in cui un gruppo agisce in modi incomprensibili per i singoli individui che lo compongono – o almeno per molti di loro. In questo caso il comportamento di gruppo potrebbe intendersi come il risultato dei contributi di tutti i membri del gruppo, grande o piccolo che sia, ma molti di costoro non hanno idea del tipo di contributo portato e neppure di averlo portato. L’esperienza individuale, la mentalità e il comportamento del gruppo di cui l’individuo fa parte possono apparire molto scollegati. Questo non vuol dire che siano scollegati, ma solo che bisogna cercare di capire la natura della relazione che intercorre tra loro.
La sfida per gli individui, il loro compito sociale e psicologico, a mio modo di vedere, è sviluppare la comprensione del ruolo svolto nel gruppo, mentre per il gruppo, grande o piccolo, la sfida è aiutarli in quel compito.
Trovo utile tornare all’inizio della vita, alla nascita del bambino in una famiglia, per capire meglio il compito dell’individuo di stabilire una relazione con il gruppo. Nasce un bambino e quel che scopriamo è che fin dall’inizio il neonato dipende in tutto e per tutto dalla madre, o da chi se ne prende cura, ed è ben consapevole della sua presenza, come della sua assenza – con tutta la storia dell’attesa di essere nutrito o pulito e preso in braccio...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Nota degli autori
  4. La buona storia
  5. Uno
  6. Due
  7. Tre
  8. Quattro
  9. Cinque
  10. Sei
  11. Sette
  12. Otto
  13. Nove
  14. Dieci
  15. Undici
  16. Il libro
  17. Gli autori
  18. Degli stessi autori
  19. Copyright