Frammento 1
Agosto 1950
Che cos’è la politica?
1. La politica si fonda sul dato di fatto della pluralità degli uomini. Dio ha creato l’Uomo, gli uomini sono un prodotto umano, terreno, il prodotto della natura umana. Poiché la filosofia e la teologia si occupano sempre dell’Uomo, e tutti i loro enunciati sarebbero giusti anche se esistesse soltanto un Uomo, o soltanto due Uomini, o soltanto uomini identici, esse non hanno trovato una valida risposta filosofica alla domanda: che cos’è la politica? Peggio ancora: per tutto il pensiero scientifico esiste solo l’Uomo, in biologia o in psicologia come in filosofia e in teologia, cosí come per la zoologia esiste solo il leone. I leoni sarebbero una faccenda che riguarda soltanto i leoni.
Balza agli occhi, in tutti i grandi pensatori, il divario tra le filosofie politiche e le altre opere: persino in Platone. La politica non raggiunge mai la stessa profondità. La mancanza di profondità altro non è infatti che scarsa sensibilità per la profondità su cui poggia la politica.
2. La politica tratta della convivenza e comunanza dei diversi. Politicamente gli uomini si organizzano in base a determinati tratti comuni essenziali all’interno di un caos assoluto, oppure da un assoluto caos di differenze. Finché gli organismi politici sono edificati sulla famiglia e intesi nel quadro della famiglia, l’affinità ai suoi vari livelli è considerata da un lato l’elemento che può unificare i diversi, e dall’altro quello che consente a strutture di tipo individuale di discostarsi e distinguersi l’una dall’altra.
In questa forma di organizzazione, l’originaria diversità viene annullata con la stessa efficacia con cui, quando è in gioco l’Uomo, viene distrutta la sostanziale uguaglianza di tutti gli uomini. La duplice rovina della politica deriva dallo sviluppo degli organismi politici a partire dalla famiglia. Qui appare già accennato ciò che diviene emblematico nell’immagine della Sacra Famiglia: l’idea che Dio abbia creato non tanto l’uomo quanto la famiglia.
3. Se nella famiglia si ravvisa piú della partecipazione, la partecipazione attiva alla pluralità, ci si comincia a credere Dio, cioè a fingere che si possa uscire per vie naturali dal principio della diversità. Invece di procreare un uomo si cerca di creare, a propria immagine e somiglianza, l’Uomo.
Ma in senso pratico, politico, la famiglia acquista la sua connaturata importanza perché il mondo è organizzato in maniera da non lasciare spazio al singolo, al diverso. Le famiglie vengono fondate come ripari e fortezze in un mondo inospitale ed estraneo, in cui si vorrebbe portare affinità. Tale aspirazione conduce alla fondamentale perversione del politico,a poiché annulla la qualità di fondo della pluralità o meglio la perde introducendo il concetto di affinità.
4. L’Uomo, cosí come lo intendono filosofia e teologia, in politica esiste – o si realizza – soltanto all’interno degli uguali diritti che i diversi si garantiscono. Con questa spontanea garanzia e concessione di un diritto giuridico uguale, si riconosce che la pluralità degli uomini, i quali devono la loro pluralità a loro stessi, deve la propria esistenza alla creazione dell’Uomo.
5. La filosofia ha due buoni motivi per non trovare mai neppure il luogo dove nasce la politica. Il primo è:
1) Lo zoon politikon: quasi che nell’Uomo vi fosse un elemento politico che è parte della sua essenza. Proprio questo è falso; l’Uomo è a-politico. La politica nasce tra gli uomini, dunque decisamente al di fuori dell’Uomo. Perciò non esiste una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell’infra, e si afferma come relazione. Hobbes questo lo aveva capito.
2) L’idea monoteistica del Dio a immagine del quale deve essere creato l’uomo. In questo senso in effetti può esistere solo l’Uomo, e gli uomini sono ridotti a una replica piú o meno riuscita del medesimo. L’uomo creato a immagine della solitudine di Dio è alla base dello state of nature as a war of all against all di Hobbes. È la guerra di ribellione di ognuno contro tutti gli altri, i quali vengono odiati perché il loro esistere è privo di senso: privo di senso per l’uomo creato a immagine della solitudine di Dio.
La via di uscita occidentale da questa impossibilità della politica all’interno del mito occidentale della creazione, è la metamorfosi o la sostituzione della politica con la storia. Nell’idea di una storia universale, la pluralità degli uomini si confonde in un unico individuo umano che per di piú è chiamato umanità. Da qui l’aspetto mostruoso e disumano della storia, che soltanto con la sua fine si afferma appieno e brutalmente nella politica stessa.
6. È davvero difficile realizzare che vi è un ambito in cui dobbiamo essere veramente liberi, cioè né spinti da noi stessi né dipendenti da un materiale dato. La libertà esiste soltanto nel peculiare infra della politica. Da questa libertà ci rifugiamo nella «necessità» della storia. Una orribile assurdità.
7. Può darsi che la politica abbia il compito di realizzare un mondo che sia tanto trasparente alla verità quanto la creazione divina. Nei termini del mito ebraico-cristiano vorrebbe dire che l’Uomo, creato a immagine di Dio, ha ricevuto la facoltà di procreare per organizzare gli uomini a immagine della creazione divina. Probabilmente è una assurdità. Ma sarebbe la sola possibile dimostrazione e legittimazione dell’idea della legge naturale.
È nella assoluta diversità di ogni uomo dall’altro, che è piú grande della diversità relativa tra popoli, nazioni o razze, è nella pluralità che è contenuta la creazione dell’Uomo per mano di Dio. Con questo però la politica non ha niente a che fare. La politica infatti organizza a priori gli assolutamente diversi in vista di una uguaglianza relativa, e per distinguerli dai relativamente diversi.
Frammento 2a
Capitolo primo: I pregiudizi
§1 Oggi la politica consiste in effetti nel pregiudizio verso la politica.
Se vogliamo parlare di politica ai giorni nostri, dobbiamo partire dai pregiudizi che noi tutti, se non siamo politici di professione, nutriamo nei confronti della politica. Tali pregiudizi, che sono comuni a noi tutti, rappresentano a loro volta, nel senso piú ampio del termine, un fattore politico: essi non derivano dalla presunzione delle persone istruite, né sono dovuti al cinismo di chi ha troppo vissuto e troppo poco compreso. Non possiamo ignorarli, dato che si agitano dentro di noi, e non possiamo sopirli attraverso il ragionamento poiché sanno fare appello a realtà incontestabili e rispecchiano fedelmente, proprio nei suoi aspetti politici, la reale situazione odierna. Eppure questi pregiudizi non sono giudizi. Essi denunciano che siamo finiti in una situazione in cui non siamo, o non siamo ancora, in grado di muoverci politicamente. Il rischio è che il politico scompaia del tutto dalla faccia della terra. Ma i pregiudizi precorrono i tempi; gettano via il bambino con l’acqua sporca, confondono con la politica ciò che alla politica porrebbe fine, e presentano quella che sarebbe una catastrofe come se fosse insita nella natura delle cose, e dunque ineluttabile.
Oggi, e cioè dopo l’invenzione della bomba atomica, dietro i pregiudizi nei confronti della politica si celano la paura che l’umanità possa autoeliminarsi mediante la politica e gli strumenti di violenza di cui dispone, e, in stretta connessione con tale paura, la speranza che l’umanità si ravveda e anziché se stessa tolga di mezzo la politica, ricorrendo a un governo universale che dissolva lo stato in una macchina amministrativa, risolva i conflitti politici per via burocratica e sostituisca gli eserciti con schiere di poliziotti. Certo tale speranza è del tutto utopica se per politica si intende, come normalmente avviene, una relazione tra governanti e governati. In questa ottica, invece di una abolizione del politico otterremmo una forma dispotica di governo di dimensioni mostruose, in cui lo iato tra governanti e governati assumerebbe proporzioni cosí gigantesche da impedire qualunque ribellione, e tanto piú qualunque forma di controllo dei governanti da parte dei governati. Tale carattere dispotico non cambierebbe neppure qualora in quel regime mondiale non si potesse piú individuare una persona, un despota; infatti il dominio burocratico, il dominio mediante l’anonimità degli uffici, non è meno dispotico perché «nessuno» lo esercita; al contrario: forse è ancora piú terribile, poiché nessuno può parlare o presentare reclamo a quel Nessuno. Se però per politico si intende una sfera del mondo dove gli uomini si presentano primariamente come soggetti attivi, e dove conferiscono alle umane faccende una stabilità che altrimenti non le riguarderebbe, la speranza appare tutt’altro che utopica. L’eliminazione degli uomini in quanto soggetti attivi è riuscita spesso nella storia, sebbene non a livello mondiale: sia sotto forma di quella tirannide che oggi ci sembra antiquata, dove la volontà di un uomo pretendeva totale libertà di azione, sia sotto forma del moderno totalitarismo, dove si vorrebbe liberare la presunta superiorità dei processi e delle «energie storiche» impersonali e sottomettervi gli uomini. Il carattere intrinsecamente impolitico, nel senso piú profondo del termine, di questa forma di dominio, si rivela proprio nella dinamica che le è peculiare e ne è scatenata, in cui ogni cosa e persona che ieri era ancora considerata «grande» oggi può e deve essere consegnata all’oblio, affinché il movimento mantenga il suo slancio. E non può certo servire a tranquillizzarci constatare che nelle democrazie di massa, senza alcun terrore e per cosí dire spontaneamente, prendono piede da un lato un’analoga impotenza degli uomini e, dall’altro, un analogo processo di logoramento e oblio che sembra ribaltarsi di continuo, per quanto tali fenomeni, nel mondo libero e non terrorizzato, rimangano confinati all’ambito strettamente politico ed economico.
Ma i pregiudizi verso la politica, l’idea che la politica in sostanza sia una trama di menzogne e inganni prodotta da interessi meschini e da una ancor piú meschina ideologia, e che la politica estera oscilli tra vuota propaganda e nuda violenza, sono assai piú antichi dell’invenzione di strumenti che consentono di distruggere tutta la vita organica sulla terra. Per quanto riguarda la politica interna, essi hanno per lo meno la stessa età, dunque poco piú di cento anni, della democrazia partitica, la quale, per la prima volta nella storia moderna, pretendeva di rappresentare il popolo; benché proprio il popolo non lo abbia mai creduto. Quanto alla sfera della politica estera, la loro origine dovrebbe risalire a quei primi decenni di espansione imperialista a cavallo tra Ottocento e Novecento, quando lo stato nazionale cominciò, non in nome della nazione ma certo per amore di interessi economici nazionali, a portare il dominio europeo nel mondo intero. Ma quello che oggi è il momento cruciale del corrente pregiudizio nei confronti della politica, e cioè la fuga nell’impotenza, il disperato desiderio di essere esentati dalla facoltà di agire, all’epoca era ancora pregiudizio e privilegio di un ceto ristretto, convinto, come Lord Acton, che il potere corrompa e il possesso del potere assoluto corrompa in modo assoluto1. Nessuno meglio di Nietzsche, nel suo tentativo di riabilitare il potere, si è reso chiaramente conto che tale condanna del potere doveva corrispondere in pieno ai desideri ancora inarticolati delle masse; per quanto anche lui, fedele allo spirito del tempo, confondesse o meglio identificasse il potere, che un singolo individuo non può mai avere poiché nasce solo dal comune agire di molti, con la violenza, di cui il singolo può senz’altro impossessarsi.
Frammento 2b
Capitolo primo: I pregiudizi
§ 1 Pregiudizio e giudizio
Se vogliamo parlare di politica ai giorni nostri, dobbiamo partire dai pregiudizi che noi tutti, se non siamo politici di professione, nutriamo nei confronti della politica. I pregiudizi che condividiamo con gli altri, che ci vengono spontanei, che possiamo scambiarci nella conversazione senza prima doverli spiegare diffusamente, rappresentano infatti a loro volta, nel senso piú ampio del termine, un fattore politico: qualcosa che è parte integrante delle umane faccende nella cui sfera ci muoviamo ogni giorno. Il fatto che i pregiudizi svolgano un ruolo cosí straordinariamente grande nella vita quotidiana, e dunque nella politica, non è di per sé deplorevole; e per nessun motivo dovremmo cercare di cambiare le cose. Nessuno infatti può vivere senza pregiudizi; e non solo perché nessuno è abbastanza intelligente o assennato da riuscire a dare un giudizio originale su tutto ciò che nel corso della sua vita gli viene richiesto di giudicare, ma perché una tale mancanza di pregiudizi esigerebbe una vigilanza sovrumana. Perciò la politica ha sempre e dovunque a che fare con il chiarimento e la dissipazione di pregiudizi; il che però non significa che essa aspiri a educare alla mancanza di pregiudizi, né che chi è impegnato in questa opera di formazione sia a sua volta libero da pregiudizi. L’entità della vigilanza e dell’apertura determina il livello politico e la fisionomia generale di un’epoca; ma è impensabile un’epoca in cui gli uomini, per buona parte dei giudizi e delle decisioni, non possano richiamarsi, e affidarsi, ai loro pregiudizi.
Evidentemente, all’interno della vita quotidiana questa legittimità del pregiudizio come misura del giudizio ha i suoi limiti. In primo luogo ha valore soltanto per i veri pregiudizi, quelli cioè che non pretendono di essere dei giudizi. Di norma, i veri pregiudizi si possono riconoscere dal loro disinvolto richiamarsi a un «si dice» o «si pensa», naturalmente senza che tale richiamo debba essere dichiarato in modo esplicito. I pregiudizi non sono idiosincrasie personali: queste, pur essendo sempre indimostrabili, fanno comunque riferimento a un’esperienza personale entro la quale hanno l’evidenza di percezioni sensorie. I pregiudizi non hanno mai questo tipo di evidenza, neppure per chi vi è soggetto, poiché sono privi di una base empirica. In compenso, non essendo vincolati a una persona, possono contare molto facilmente sull’altrui consenso, senza doversi sobbarcare a uno sforzo di persuasione. In ciò il pregiudizio si distingue dal giudizio, al quale d’altro canto lo accomuna il fatto che per suo tramite gli uomini si riconoscono e si sentono affini; cosicché l’uomo che è schiavo dei pregiudizi in fondo è sempre certo dell’effetto, mentre l’idiosincrasia non riesce praticamente ad affermarsi nello spazio pubblico-politico e si fa valere soltanto nell’intimità del privato. Di conseguenza il pregiudizio svolge un ruolo di rilievo nell’ambito puramente sociale: di fatto non esiste società che non si costituisca piú o meno in base ai pregiudizi, i quali fanno sí che certe specie di uomini siano ammesse e altre escluse. Piú un uomo è libero da pregiudizi, meno sarà adatto alla vita sociale. Ma all’interno della società non pretendiamo neppure di giudicare; e questa rinuncia, questo surrogare il giudizio con i pregiudizi, diventa rischioso solo quando invade la sfera politica, dove non possiamo muoverci affatto senza giudicare poiché, come vedremo piú avanti, il pensiero politico si fonda essenzialmente sul giudizio2.
Uno dei motivi dell’efficacia e della pericolosità dei pregiudizi è che in essi si cela sempre un pezzo di passato. A ben vedere, un vero pregiudizio si riconosce anche perché in esso si cela un giudizio formulato tempo addietro, il quale in origine aveva un fondamento empirico legittimo e pertinente e si è mutato in pregiudizio soltanto perché si è trascinato attraverso gli anni senza controlli o revisioni. Sotto questo aspetto il pregiudizio si distingue dalla mera diceria, che non sopravvive al giorno o all’ora della chiacchiera e mescola come in un caleidoscopio le opinioni e i giudizi piú eterogenei. Il rischio del pregiudizio sta proprio nel suo essere in realtà sempre ben radicato nel passato, cosicché esso non solo previene e ostacola il giudizio ma, oltre al giudizio, impedisce anche una effettiva esperienza del presente. Se si vogliono dissipare i pregiudizi, per prima cosa si deve sempre ritrovare il giudizio passato che vi sta dietro, dunque di fatto rilevarne il tenore di verità. Se non si tiene conto di ciò, nulla otterranno interi battaglioni di oratori illuminati né intere biblioteche di pubblicazioni; come risulta chiaramente dagli sforzi quasi infiniti, e infinitamente infruttuosi, nei riguardi dei problemi gravati da pregiudizi del genere piú antico, come la questione dei neri negli Stati Uniti oppure la questione ebraica.
Poiché il pregiudizio previene il giudizio richiamandosi al passato, la sua legittimità temporale è limitata alle epoche storiche che a livello meramente quantitativo costituiscono la parte maggiore della storia, quelle cioè in cui il nuovo è relativamente raro e il vecchio predomina nella compagine politica e sociale. Il termine giudicare ha assunto nel linguaggio comune due significati senz’altro distinguibili l’uno dall’altro, ma che continuano a confondersi quando parliamo. Da un lato esso sta a indicare la sussunzione ordinatrice del singolo e del particolare sotto un’entità generale e universale, la valutazione normalizzatrice secondo criteri in base ai quali il concreto deve legittimarsi e in base ai quali se ne decide. Questo tipo di giudizio contiene sempre un pregiudizio: a essere giudicato è soltanto il particolare, ma non il criterio in sé, né il suo essere commisurato a ciò che deve misurare. Anche il criterio è stato a suo tempo deciso con un giudizio, ma adesso quel giudizio è stato adottato ed è divenuto per cosí dire un mezzo per poter continuare a giudicare. Giudicare può però riferirsi anche a qualcosa di completamente diverso, ogniqualvolta veniamo confrontati con qualcosa che non abbiamo mai visto e per cui non abbiamo a disposizione alcun criterio. Questo giudizio, che è privo di criteri, non ha altro riferimento che l’evidenza del giudicato e non ha altri presupposti che l’umana facoltà di giudizio, la quale ha molto piú a che fare con la facoltà di discernere che con la facoltà di ordinare e sussumere. Questo giudizio privo di criteri ci è ben noto sotto forma di giudizio estetico o di gusto, sul quale, come ebbe a dire Kant, non possiamo disputare ma certo litigare e trovare un accordo; e lo ritroviamo nella vita comune, ogniqualvolta in una condizione ancora incerta pensiamo che questo o quello avrebbe giudicato la situazione bene o male. In ogni crisi storica i pregiudizi sono i primi a vacillare, non vi si può piú fare affidamento, e proprio perché essi, per il disimpegno del «si dice» e «si pensa», per lo spazio ristretto in cui trovano legittimazione e utilità, non possono piú contare su un riconoscimento, accade facilmente che si consolidino in un qualcosa che non corrisponde affatto alla loro natura: quelle pseudoteorie che sotto forma di Weltanschauungen, o di ideologie che hanno una spiegazione per tutto, ...