Il postino di Neruda
eBook - ePub

Il postino di Neruda

  1. 128 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il postino di Neruda

Informazioni su questo libro

Mario Jiménez, giovane pescatore cileno, perdutamente innamorato della bellissima e sensuale Beatriz González, un giorno decide di abbandonare il proprio lavoro e di diventare il postino di Isla Negra, un'isola dal fascino magico dove l'unica persona che riceve e invia corrispondenza è il grande poeta Pablo Neruda. Tra i due, lontani per cultura ed educazione, nasce a poco a poco un fortissimo legame d'amicizia umana e di complicità poetica, sullo sfondo di un Paese che si sta avvicinando a un tragico e drammatico destino.
Da questo romanzo l'indimenticabile film di Michael Radford, interpretato da Massimo Troisi, Philippe Noiret e Maria Grazia Cucinotta.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806221317

Prologo

A quel tempo io facevo il redattore culturale per un quotidiano minore. La sezione di cui dovevo occuparmi era contrassegnata dall’idea di arte che aveva il nostro direttore, il quale, orgoglioso delle sue amicizie nell’ambiente, mi obbligava a rincorrere e a intervistare esponenti di compagnie di teatro leggero, a recensire libri scritti da ex investigatori, a scrivere articoli riguardanti circhi ambulanti o a fare elogi sperticati ai successi della settimana che avrebbe potuto buttare giú anche il primo che passa.
Negli umidi uffici di quella redazione ogni notte agonizzavano le mie illusioni di diventare scrittore. Rimanevo lí fino al mattino iniziando nuovi romanzi che interrompevo a metà deluso dal mio talento e dalla mia pigrizia. Altri scrittori della mia età avevano un discreto successo in patria e ricevevano persino premi all’estero: come quelli di Casa de las Américas, di Biblioteca Breve Seix-Barral, di Sudamericana o di «Primera Plana». L’invidia, piú che da stimolo per indurmi un giorno a portare a termine un lavoro, su di me aveva l’effetto di una doccia fredda.
In quei giorni, in cui cronologicamente cominciai questa storia – che come si accorgeranno i miei ipotetici lettori inizia in modo entusiasta e termina sotto l’effetto di una profonda depressione – il direttore si accorse che quel mio periodo bohémien aveva pericolosamente accentuato il mio pallore e cosí decise di farmi fare un servizio in un luogo di mare, che mi desse la possibilità di trascorrere una settimana al sole: vento salmastro, frutti di mare, pesce fresco, e magari degli incontri importanti per il mio futuro. Si trattava di dare l’assalto all’isolamento marino di Pablo Neruda e, intervistandolo, di ottenere, per i depravati lettori del nostro fogliaccio, qualcosa come, secondo lo stesso direttore, «la geografia erotica del poeta». In parole povere, farlo parlare, nel modo piú esplicito possibile, delle donne che si era portato a letto.
Alloggiato in un albergo di Isla Negra, spesato come un principe, automobile noleggiata alla Hertz, la sua Olivetti portatile in prestito, furono i diabolici argomenti con cui il direttore mi convinse a impegnarmi in quell’ignobile incarico. A queste argomentazioni, e con l’idealismo tipico della gioventú, io ne aggiungevo un’altra accarezzando un manoscritto interrotto a pagina 28: nei pomeriggi avrei scritto la cronaca su Neruda, e la notte, con il rumore del mare in sottofondo, avrei portato avanti, fino a terminarlo, il mio romanzo. Non solo, mi proposi qualcosa che divenne un’ossessione, e che inoltre mi permise di sentirmi estremamente affine a Mario Jiménez, il mio eroe: ottenere che Neruda facesse un prologo al mio testo. Con un simile prezioso trofeo avrei bussato alla porta dell’Editorial Nascimento e avrei ottenuto ipso facto la pubblicazione del mio libro cosí dolorosamente in ritardo.
Affinché questo prologo non diventi eterno e per evitare false aspettative nei miei remoti lettori, concludo chiarendo fin da subito alcuni punti. Primo, il romanzo che il lettore ha tra le mani non è quello che avrei voluto scrivere a Isla Negra né nessun altro iniziato in quel periodo, ma un prodotto collaterale del mio fallito assalto giornalistico a Neruda. Secondo, malgrado alcuni scrittori cileni continuassero ad abbeverarsi alla coppa del successo (tra le altre cose per frasi come queste, mi disse un editore) io rimasi – e rimango – rigorosamente inedito. Mentre altri sono maestri del racconto lirico in prima persona, del romanzo nel romanzo, del metalinguaggio, della distorsione di tempo e spazio, io ho continuato all’interno delle esagerate metafore tipiche del giornalismo, luoghi comuni raccolti in mezzo al popolo, brillanti aggettivi mal interpretati in Borges, e soprattutto legato a quello che un professore di letteratura definí con ribrezzo: un narratore onnisciente. Terzo e ultimo, la succosa intervista a Neruda che sicuramente il lettore preferirebbe avere tra le mani al posto di questo imminente romanzo che lo incalza a partire dalla prossima pagina e che forse mi avrebbe tirato fuori dal mio anonimato con ben altro titolo, non fu possibile a causa dei principî del vate e non a causa della mia mancanza d’impertinenza. Con un’amabilità che non meritava la bassezza dei miei propositi mi disse che il suo grande amore era l’attuale sua moglie, Matilde Urrutia, e che non provava né entusiasmo né interesse a resuscitare quel «pallido passato», e con un’ironia che si era meritata la mia audacia di chiedergli un prologo per un libro che ancora non esisteva, mi disse, buttandomi fuori di casa: «con molto piacere, quando l’avrà scritto».
Nella speranza di farlo, rimasi a lungo a Isla Negra, e per alleviare la fiacca che mi invadeva tutte le notti, i pomeriggi e le mattine di fronte al foglio bianco, decisi di gironzolare attorno alla casa del poeta e, intanto, di gironzolare attorno a quelli che vi gironzolavano. Ed è cosí che conobbi i personaggi di questo romanzo.
So bene che piú di un impaziente lettore si starà chiedendo come un povero pazzo come me abbia potuto portare a termine questo libro, per breve che possa essere. Una spiegazione plausibile è che ci misi quattordici anni a scriverlo. Se si pensa poi che nello stesso periodo di tempo Vargas Llosa, per esempio, pubblicò Conversazione nella «Catedral», La zia Julia e lo scribacchino, Pantaleón e le visitatrici e La guerra della fine del mondo, questo è francamente un record del quale non posso inorgoglirmi.
Ma vi è anche una spiegazione complementare e di natura sentimentale. Beatriz Gonzaléz, con la quale pranzai piú di una volta nei giorni delle sue visite ai tribunali di Santiago, volle che fossi io a raccontare per lei la storia di Mario, «non importa quanto ci metterai e cosa inventerai». Cosí, giustificato da lei, feci tutti e due quegli errori.
Nel giugno 1969 due motivi, tanto fortunati quanto banali, indussero Mario Jiménez a cambiare mestiere. Primo, la sua disaffezione per le fatiche della pesca, che lo buttavano giú dal letto prima dell’alba, e quasi sempre mentre sognava di audaci amori impersonati da eroine ardenti simili a quelle che vedeva sullo schermo del cinematografo di San Antonio. Questo talento, unito alla conseguente simpatia per i raffreddori, reali o finti, mediante i quali si sottraeva un giorno sí e uno no alla preparazione dell’attrezzatura sulla barca di suo padre, gli permetteva di crogiolarsi sotto le spesse coperte cilene, perfezionando i suoi onirici idilli, finché il pescatore José Jiménez tornava dall’alto mare inzuppato e affamato, ed egli mitigava il suo complesso di colpa imbandendo una colazione di pane croccante, chiassose insalate di pomodoro con cipolla, piú prezzemolo e coriandolo, e una drammatica aspirina che inghiottiva quando il sarcasmo del genitore gli penetrava fino alle ossa.
– Cercati un lavoro, – era la frase semplice e feroce con cui l’uomo concludeva uno sguardo accusatore che riusciva a tenere fino a dieci minuti, e che mai comunque durò meno di cinque.
– Sí, papà, – rispondeva Mario, pulendosi il naso con la manica del pullover.
Se questo fu il motivo banale, quello fortunato fu il possesso di un’allegra bicicletta marca Legnano, valendosi della quale Mario lasciava ogni giorno il limitato orizzonte della caletta dei pescatori diretto al piccolissimo porto di San Antonio, ma che a paragone del suo casale gli dava un’impressione di fasto babilonico. La mera contemplazione dei cartelloni del cinema, con quelle donne dalla bocca torbida e inquietante e certi tipi di duri che masticavano avana tra denti perfetti, lo precipitava in una trance da cui usciva solo dopo due ore di pellicola, per ritornare pedalando sconsolato alla sua routine, talvolta sotto una pioggia costiera che gli ispirava epiche infreddature. La generosità di suo padre non si spingeva però ad alimentare le sue mollezze, talché per svariati giorni alla settimana, a corto di denaro, Mario Jiménez doveva accontentarsi di qualche incursione alla bottega di riviste usate, dove contribuiva a sfogliare le foto delle sue attrici predilette.
Fu in uno di quei giorni di sconsolato vagabondaggio che scoprí un avviso sulla finestra dell’ufficio postale; benché fosse scritto a mano e su un modesto foglio di quaderno di matematica, materia in cui non si era distinto durante le elementari, non seppe resistervi.
Mario Jiménez non aveva mai portato cravatta, ma prima di entrare si aggiustò il colletto della camicia come se ne portasse una, e con due colpi di pettine tentò con qualche risultato di abbreviarsi la chioma, ereditata dalle foto dei Beatles.
– Sono qui per l’avviso, – proclamò al funzionario, con un sorriso che emulava quello di Burt Lancaster.
– La bicicletta ce l’hai? – domandò annoiato il funzionario.
Il suo cuore e le sue labbra risposero all’unisono: – Sí.
– Bene, – disse l’ufficiale postale pulendosi le lenti, – si tratta di un lavoro da postino, per Isla Negra.
– Che coincidenza, – disse Mario. – Io abito proprio da quelle parti, nella caletta.
– Questo va benissimo. Il male è che c’è un solo cliente.
– Uno solo?
– Eh sí. Alla caletta sono tutti analfabeti. Non sanno leggere neanche i conti.
– E chi è il cliente?
– Pablo Neruda.
Mario Jiménez inghiottí quello che gli parve un litro di saliva.
– Ma è formidabile.
– Formidabile? Riceve chili di corrispondenza ogni giorno. Pedalare con la borsa sulla schiena è come portarsi un elefante in spalla. Il postino che lo serviva è andato in pensione gobbo come un cammello.
– Ma io ho solo diciassette anni.
– E sei sano?
– Io? Una salute di ferro! Non ho mai preso un raffreddore in vita mia!
Il funzionario fece scivolare gli occhiali lungo il naso e lo guardò al di sopra della montatura.
– Lo stipendio è di merda. Gli altri postini si arrangiano con le mance. Ma, con un cliente solo, ti basterà appena per andare al cinema una volta la settimana.
– Voglio il posto.
– Va bene. Mi chiamo Cosme.
– Cosme.
– Mi devi chiamare «don Cosme».
– Sí, don Cosme.
– Sono il tuo capo.
– Sí, capo.
L’uomo sollevò una biro azzurra, le alitò sopra per intiepidire l’inchiostro e domandò senza guardarlo:
– Nome?
– Mario Jiménez, – rispose Mario Jiménez solennemente.
E, appena terminò di esalare questa vitale comunicazione, si avvicinò alla finestra, staccò l’avviso e lo pigiò nei piú profondi recessi della tasca posteriore dei pantaloni.
Ciò che non ottenne l’Oceano Pacifico con la sua pazienza simile all’eternità, lo ottenne il semplice e dolce ufficio postale di San Antonio: Mario Jiménez non solo si alzava all’alba fischiettando, il naso sgombro e gagliardo, ma aggrediva il suo compito con tanta puntualità che il vecchio funzionario Cosme gli affidò la chiave dell’ufficio, caso mai si fosse deciso, una volta tanto, a compiere un’impresa da tempo sognata: dormire al mattino cosí a lungo che fosse già l’ora della siesta, e concedersi una siesta tanto lunga che fosse già l’ora di andare a letto, e andando a letto dormire cosí bene e profondamente da sentire il giorno dopo per la prima volta quella voglia di lavorare che Mario irradiava, e che Cosme ignorava meticolosamente.
Con il primo stipendio, pagato come si usa in Cile con un mese e mezzo di ritardo, il postino Mario Jiménez acquistò i seguenti beni: una bottiglia di vino Cousiño Macul Antiguas Reservas per suo padre; un biglietto d’ingresso al cinema, grazie al quale si gustò West Side Story con inclusa Natalie Wood; un pettine d’acciaio tedesco al mercato di San Antonio, da un ambulante che lo offriva accompagnandosi col ritornello: «La Germania ha perso la guerra ma non l’industria. Pettini inossidabili marca Solingen»; nonché l’edizione Losada delle Odi elementari del suo cliente e vicino Pablo Neruda.
Si proponeva, in un momento in cui il vate gli fosse parso di buon umore, di ficcargli in mano il libro insieme alla corrispondenza e di procacciarsi un autografo con cui millantarsi davanti alle ipotetiche ma bellissime donne che un giorno avrebbe conosciuto a San Antonio, o a Santiago, dove si sarebbe recato grazie al suo secondo stipendio. Piú volte fu sul punto di compiere il gesto, ma lo inibivano tanto la pigrizia con cui il poeta riceveva la corrispondenza e la celerità con cui gli elargiva la mancia (sempre piú che regolare), quanto la sua espressione di uomo rivolto abissalmente verso l’interno. In realtà, per un paio di mesi Mario provò l’inevitabile sensazione, ogni volta che suonava il campanello, di assassinare l’ispirazione del poeta proprio quando era sul punto di incorrere in un verso geniale. Neruda prendeva il pacco della corrispondenza, gli allungava un paio di monete e si congedava con un sorriso lento come il suo sguardo. A partire da quel momento, e fino alla fine della giornata, il postino si portava in giro le Odi elementari con la speranza di trovare un giorno quel po’ di coraggio. Tanto si trascinò appresso il libro, tanto lo maneggiò, tanto lo tenne in gremb...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Il postino di Neruda
  3. Prologo
  4. Epilogo
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright