Strinse la cintura cosí forte e all’improvviso che a Monica la lingua si graffiò sui denti quando un conato violento gliela spinse fuori tra le labbra socchiuse. Lei spalancò gli occhi nel buio, senza capire, perché stava dormendo rannicchiata come un feto, con la spalla e la tempia appoggiate alla pelle calda del sedile e aveva mormorato appena, nel sonno, sentendo il fruscio sottile del cuoio attorno al collo e poi il dente della fibbia che tintinnava rapido sui buchi.
Lui sollevò le gambe, piantandole le ginocchia nella schiena inarcata e strinse ancora, tirando il capo della cintura con tutte e due le mani. A Monica sfuggí un ringhio mentre si graffiava il mento con le unghie, cercando di infilare le dita sotto la cinghia, poi allargò le braccia a croce, annaspando per alzarsi, ma riuscí soltanto a sfiorare il poggiatesta e a piantare i polpastrelli nello specchietto della lunetta parasole abbassata. Allora gemette, piegando le labbra in fuori, roteò i polsi irrigidendo le braccia e rovesciò gli occhi, indietro, fino al bianco, mentre il primo morso le lacerava la spalla. Col piede nudo sferrò un calcio contro il cruscotto che le spezzò di netto il mignolo sinistro, ma a quel punto era già morta e non se ne accorse neppure.
Quando la lasciò, tirandosi indietro sul sedile per appoggiare le spalle alla portiera, sentí sui denti il sapore dolciastro e appiccicoso del sangue. Chiuse gli occhi, piegando la testa di lato, e come al solito il contatto con il finestrino umido e freddo attraverso i capelli che gli coprivano la nuca gli fece venire voglia di andarsene immediatamente, di tornare a casa. Sospirò, stanco, ma si fece forza, raggiunse la portiera con uno scatto di reni e aiutandosi con le ginocchia fece rotolare Monica fuori dalla macchina, nel fosso, appena sotto le ruote. Si aggiustò sul sedile, infilando la cintura nei passanti e si lisciò la camicia sotto i pantaloni con cura, prima di stringere la fibbia al solito buco, poi sfilò dalla tasca il fazzoletto e lentamente, sporgendosi verso il retrovisore appannato, si pulí le labbra, il mento, gli angoli della bocca.
Mise in moto e quando con un colpo secco girò al massimo la manopola della ventola, il soffio dell’impianto di aerazione divenne un ruggito potente.
– Quanto tempo ho?
– Non ho detto questo...
– Hai detto che è incurabile. Quanto tempo ho?
– Dio mio... ma come fai a essere cosí? Adesso ti spiego tutto da capo...
Bonetti si tocca la punta di un dito, pollice su indice, ad angolo retto, abbandonandosi contro lo schienale della poltrona imbottita, mentre il bavero del camice gli sale fino al mento. Piega la testa di lato e un riflesso di sole gli vela di bianco le lenti degli occhiali. Io mi sfrego le palme delle mani sulle braccia perché sono in canottiera, proprio sotto il soffio dell’aria condizionata. Fa freddo, anche se è ancora estate. Farebbe freddo comunque.
– Allora, punto primo: potresti soffrire di Insonnia familiare letale, che è una malattia genetica del sistema nervoso, rarissima, tanto che in tutto il mondo ci sono sí e no cinquanta casi accertati.
– Cinquantuno.
Bonetti fa una smorfia e si tocca un altro dito ad angolo retto, indice su indice.
– Punto secondo: potrebbe diventare incurabile e mortale se non la si prende con la dovuta cautela. Prima una progressiva incapacità di dormire associata a scosse muscolari, pressione alta, tachicardia, sudorazione, febbre... poi disturbi neurologici sempre piú gravi e alla fine il coma.
L’angoscia che mi stringe lo stomaco. Il pensiero della morte scivola lontano. Non voglio pensarci, ora.
– Quanto tempo ho?
– E dài... ascolta prima il terzo punto – indice su medio, unghia contro unghia –: ho usato il condizionale. Potresti soffrire di Insonnia familiare, come di un’altra grave nevrosi specifica di carattere psicosomatico.
– Vuoi dire che sono matto...
– Quello lo sei sempre stato... è da quando eravamo nello stesso banco al liceo che te lo dico.
Sorrido e sorride anche lui, sollevato. Sotto quel tono sbrigativo da medico pragmatico è preoccupato, Bonetti, piú preoccupato di me. Sarà perché non mi ricordo piú l’ultima volta che ho dormito, sarà che il sonno rappreso mi brucia agli angoli delle palpebre e sembra quasi che mi appanni la vista, ma all’improvviso l’idea di morire non mi turba piú di tanto. Vorrei solo sapere quanto tempo ho.
Bonetti si sporge in avanti, appoggiando i gomiti sul piano della scrivania. Il riflesso di sole che gli velava le lenti si apre come un sipario e appaiono gli occhi azzurri, sempre sgranati e un po’ sporgenti. Infila il volto tra le mani, e le guance, schiacciate tra le palme, gli premono sotto le palpebre, dandogli un’aria vagamente orientale.
– Allora? – mormora. – Che si fa?
– Non lo so, – dico. – Sei tu il medico. Io di mestiere faccio il questurino.
– No, guarda... io lo so cosa si deve fare, ma chi deve decidere sei tu. Perché io ti conosco, tu parti già con l’idea che tanto sei malato e che non c’è niente da fare. Invece qui ci sarebbero da fare delle altre analisi e dovremmo anche studiare meglio la storia clinica di quella tua sorella che è morta chissà di cosa dieci anni fa. Ma soprattutto, dovresti farti ricoverare qui in ospedale...
Scuoto la testa, poco, perché è quasi mezz’ora che sto seduto a spalle curve e i muscoli del collo mi si sono intorpiditi. Ma con decisione, tanto che la cervicale mi scricchiola dolorosamente.
– Ecco, vedi... e allora? Io che faccio se non collabori? Perché non ne parli con tua moglie...
– È dal 1990 che non parlo con mia moglie....
– Già, è vero... Be’, direi che è perfetto. Sei separato in casa da quattro anni e fai il dirigente alla Squadra mobile... è la condizione ideale per uno che deve assolutamente evitare ogni forma di stress. Complimenti...
Un rumore strano, sottile e insistente. Già da un pezzo ho la fronte corrugata con lo stesso fastidio con cui registro il beep della sveglia, alla mattina, in quei pochi minuti in cui riesco ad addormentarmi. Bonetti indica la mia giacca, appesa all’attaccapanni accanto al lettino.
– Credo che sia il tuo telefonino... – dice, – ma se ci tieni alla salute, ti prego, non rispondere adesso. Ecco, sí, ciao...
La voce frigge nel microfono, disturbata dalla batteria scarica del cellulare che mi dimentico sempre di sostituire. Riconosco le o aperte di Grazia e le sue doppie marcate, da pugliese.
– Commissario Romeo? Sono... ’sistente Negro, dottore... ’i sente?
– Sí, la sento... – Urlo: – La sento! Cosa c’è? – Urlo: – Cosa c’è?
– ...’azza morta... ’olini Monica... tossica prosti... obitorio perché quei coglio’...
Giro per la stanza col telefonino incollato all’orecchio, come se servisse a qualcosa e intanto agito una mano verso Bonetti che mi sta parlando.
– Ti scrivo una lettera per il tuo medico perché ti prescriva certe cure e un esame urgente e poi...
– ...denti sul culo e io ho pensa’... non l’avrei disturbata se... ’stituto proc...
– Negro? Grazia, non sento un cazzo... ti dò un numero da richiamare...
– E voglio che domani vai a Bologna al Maggiore a farti dare una copia della cartella clinica di tua sorella e poi...
– ...’izio... ’ata... ’uce...
– Grazia...
– E intanto ti dò una cosa per dormire e poi...
– Cristo, Bonetti, per favore!
Tace, di colpo. Mi avvicino alla finestra, con l’antenna puntata verso il cielo. Sto per aprire il vetro quando tra le scariche a singhiozzo mi giungono due parole, solo due, nitide e forti, che mi coprono la schiena di brividi.
– Lupo mannaro.
Fa un freddo cane all’obitorio. Me ne accorgo appena Grazia si tira su la zip fino al collo e infila il mento nel bavero del bomber verde oliva, le mani affondate nelle tasche. Desolata, Grazia, nonostante non abbia nessuna colpa se i due idioti della volante arrivata sul posto hanno chiamato subito l’ambulanza per far portare via il cadavere. Senza aspettare la Scientifica e senza l’autorizzazione del magistrato. Cosí, quando ho fermato la macchina davanti alla vecchia fornace, in fondo a una stradina appartata che taglia per i campi tra Modena e Pavullo, nel fosso c’erano solo il fotografo del «Carlino» e Pagliarini, della Scientifica, curvo a frugare nell’erba. Qualche indizio? Niente di niente, a parte un extracomunitario che dormiva nella fornace e un fascio di erba schiacciata dove stava il cadavere. E adesso dov’è? Il cadavere o il negro? Tutti e due. Dove è giusto che siano: uno all’Ufficio stranieri e l’altro all’obitorio.
– Spazzali Monica, anni ventuno, nata a Pavullo e residente a Modena in via non importa. Tossicodipendente e prostituta occasionale con una serie di 121 bis per uso personale e modica quantità. Batteva alla stazione.
Grazia solleva gli occhi dal taccuino su cui sta leggendo e alza anche il mento, per fissarmi, perché mi sta davanti ed è piú bassa di me.
– Come Albertini Fabiana, – aggiunge, – e Sangiorgi Francesca.
Fa davvero un freddo cane all’obitorio e sembra ancora piú freddo per la luce candida dei neon che si riflette abbagliante su tutto.
Il biancore luminoso delle piastrelle mi circonda come l’alone sfocato di un grandangolo.
Il chiarore lunare del pavimento che rintocca sotto i miei passi.
La montatura d’argento degli occhiali del dottore e il pallore cereo delle sue mani lunghe, che tiene allacciate sul camice immacolato.
E soprattutto la pelle lucida e livida di Spazzali Monica, anni ventuno, residente in via non importa, stesa su un tavolo di marmo verdastro, con un cartellino di plastica rigida legato all’alluce di un piede bianchissimo, quasi azzurro. E quel riverbero accecante e allucinato che mi fa vacillare, assieme a quell’odore acido di morte congelata che mi prende allo stomaco e lo schiaccia. Ma voglio vedere.
E vedo.
Vedo i segni bluastri dei denti sulle gambe della ragazza, i buchi violacei che le scavano la pelle in una corona stretta e profonda, perfettamente circolare. E vedo anche quelli sul sedere, tanti e scuri, quando il dottore l’afferra per un braccio per voltarla sul tavolo di marmo con uno schiocco molle e sgonfio che mi sorprende. A forza di guardare quel corpo liscio e bianco, quasi trasparente, mi ...