
- 248 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Cattedrale
Informazioni su questo libro
Come descrivere una cattedrale medievale a chi non vede? Si può superare una crisi senza apparenti vie d'uscita? Raccontarsi a un orecchio amico aiuta davvero a voltare pagina e ricominciare? E dove trovare, nella tragedia e nella difficoltà, nel lutto e nell'abbandono, quei piccoli appigli che permettono di andare avanti? Il cuore dell'ultima raccolta di Carver, e dei suoi dodici racconti, sta tutto nella risposta a questi interrogativi: nella possibilità di lasciarsi sorprendere dall'imprevedibilità della condivisione e del contatto umano.
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Informazioni
Febbre
Carlyle era in un bel pasticcio. Era stato in quel pasticcio tutta l’estate, anzi, fin dai primi di giugno, quando la moglie l’aveva piantato. Ma fino a poco tempo prima, solo a pochi giorni dall’inizio dei suoi corsi al liceo, Carlyle non aveva avuto bisogno di una baby-sitter. Aveva fatto tutto da solo. Ogni giorno e ogni notte era stato dietro ai bambini. La mamma, aveva detto loro, era partita per un lungo viaggio.
Debbie, la prima baby-sitter che aveva contattato, era una ragazza grassa di diciannove anni, che aveva raccontato a Carlyle di venire da una famiglia numerosa. I bambini la adoravano, gli aveva detto. Gli aveva anche dato un paio di nomi come referenze. Li aveva scritti a matita su un foglio di quaderno. Carlyle aveva preso i nomi, piegato il foglio di carta e se l’era infilato nel taschino della camicia. Le aveva detto che aveva delle riunioni il giorno dopo. Poteva cominciare a lavorare per lui la mattina dopo. Lei aveva detto: – D’accordo.
Carlyle ormai aveva capito che la sua vita era entrata in una nuova fase. Eileen se n’era andata mentre lui era ancora impegnato a compilare le pagelle. Aveva detto che se ne andava nel Sud della California per rifarsi una vita. Era partita insieme a Richard Hoopes, uno dei colleghi di Carlyle al liceo. Hoopes insegnava teatro e teneva anche un corso di soffiatura del vetro e, a quanto pareva, aveva consegnato i suoi voti in anticipo, preso le sue cose ed era partito in fretta e furia insieme a Eileen. Ora, con la lunga e dolorosa estate ormai quasi alle spalle e la scuola che stava per ricominciare, Carlyle era finalmente riuscito a occuparsi del problema di trovare una baby-sitter. I suoi primi tentativi non erano stati un gran successo. Nella disperazione di trovare qualcuno – chiunque – alla fine aveva assunto Debbie.
All’inizio, era grato che questa ragazza avesse risposto alla sua inserzione. Le aveva affidato la casa e i bambini come fosse una parente. Perciò era convinto di non poter dare la colpa che a se stesso, alla sua imprudenza, quando, in quella prima settimana, un giorno era tornato presto a casa da scuola e aveva parcheggiato sul vialetto accanto a una macchina che aveva un paio di enormi dadi di stoffa appesi allo specchietto retrovisore. Con stupore vide i figli nel giardino di fronte a casa, con i vestiti sudici, che giocavano con un cane abbastanza grande da staccargli una mano a morsi. Il maschietto, Keith, aveva il singhiozzo ed evidentemente aveva appena finito di piangere. Sarah, invece, si mise a piangere appena lo vide scendere dalla macchina. I bambini erano seduti sull’erba e il cane gli leccava le mani e la faccia. Il cane ringhiò contro Carlyle, ma poi si allontanò un po’ quando fece per prendere i bambini. Tirò su Keith e poi anche Sarah. Con un bambino sotto ogni braccio, si diresse verso la porta d’ingresso. Dentro casa, il giradischi andava a tutto volume, tanto da far vibrare i vetri delle finestre.
In soggiorno, tre adolescenti, seduti attorno al tavolinetto, si alzarono di scatto. Il tavolino era ingombro di bottiglie di birra e il posacenere traboccava di sigarette accese. Rod Stewart urlava dallo stereo. Sul divano, Debbie, la ragazza grassa, era avvinghiata a un altro giovanotto. Quando Carlyle fece il suo ingresso nella stanza, lei lo fissò con uno sguardo attonito e incredulo. Aveva la camicetta tutta sbottonata. Teneva le gambe rannicchiate sotto di sé e fumava una sigaretta. La stanza era piena di fumo e di musica. La ragazza grassa e il suo amichetto si alzarono in tutta fretta dal divano.
– Un momento, signor Carlyle, – disse Debbie. – Posso spiegarle.
– Lascia perdere, – disse Carlyle. – Sparisci subito da qui. Anche voialtri. Prima che vi butti fuori a calci –. Strinse la presa sui figli.
– Mi deve quattro giorni, – disse la ragazza grassa, nel tentativo di riabbottonarsi la camicetta. Teneva ancora la sigaretta tra le dita. La cenere continuava a caderle dalla sigaretta mentre cercava di infilare i bottoni nelle asole. – Oggi non lo conti. Non mi deve niente per oggi. Signor Carlyle, guardi che non è mica come sembra. Sono solo passati un attimo per ascoltare questo disco.
– Capisco, Debbie, – disse Carlyle. Lasciò i bambini sulla moquette. Però gli rimasero attaccati alle gambe a osservare tutta quella gente nel loro soggiorno. Debbie li guardò e poi scosse la testa lentamente, come se non li avesse mai visti prima. – Maledizione, uscite subito! – disse Carlyle. – Subito. Filate via. Tutti!
Si spostò e andò ad aprire la porta. I ragazzi si muovevano come se non avessero alcuna fretta. Raccolsero le loro birre e s’avviarono lentamente verso la porta. Il disco di Rod Stewart andava ancora a tutto volume. Uno dei ragazzi disse: – Il disco è mio.
– Riprenditelo, – disse Carlyle. Fece un passo verso il ragazzo e poi si fermò.
– Non mi tocchi, va bene? Non s’azzardi a toccarmi, – disse il ragazzo. Si avvicinò al giradischi, alzò il braccetto, lo spostò e tolse il disco dal piatto che ancora girava.
A Carlyle tremavano le mani. – Se quella macchina non è sparita dal mio vialetto tra un minuto, un minuto esatto, chiamo la polizia –. La rabbia gli aveva fatto venire una specie di nausea e un senso di vertigine. Vedeva letteralmente macchioline ballargli davanti agli occhi.
– Ehi, senta, ce ne stiamo andando, va bene? Ce ne andiamo, – disse il ragazzo.
Uno alla volta uscirono tutti dalla casa. Appena fuori, la ragazza grassa incespicò. Si avvicinò alla macchina, barcollando un po’. Carlyle la vide fermarsi e portarsi le mani al volto. Rimase lí cosí, in mezzo al vialetto, per qualche secondo. Poi uno dei ragazzi la spinse alle spalle e la chiamò per nome. Lei lasciò cadere le mani e salí sul sedile posteriore della macchina.
– Adesso papà vi metterà dei vestitini puliti, – disse Carlyle ai figli, cercando di controllare la voce. – Ci faremo un bel bagnetto e poi ci metteremo i vestitini puliti. Poi si va tutti fuori a mangiare la pizza. Vi andrebbe una bella pizza?
– E Debbie dov’è? – gli chiese Sarah.
– Se n’è andata, – disse Carlyle.
Quella sera, dopo aver messo a letto i bambini, chiamò Carol, la donna che aveva conosciuto a scuola e con cui era uscito nell’ultimo mese. Le raccontò quel che era successo con la baby-sitter.
– I bambini stavano fuori in giardino con un cane grosso da far paura, – disse. – Il cane sembrava un lupo, giuro. La baby-sitter era dentro casa con una manica di teppistelli amici suoi. Avevano messo Rod Stewart a tutto volume ed erano lí che si sbronzavano di birra mentre i bambini erano fuori con quel cane mai visto –. Si portò le dita alle tempie e le tenne lí mentre parlava.
– Oh Signore! – esclamò Carol. – Povero tesoro, mi dispiace tanto –. La voce gli arrivava un po’ confusa. Se la immaginò con la cornetta schiacciata sotto il mento, com’era sua abitudine fare quando parlava al telefono. L’aveva vista fare cosí parecchie volte. Era un’abitudine che lui trovava vagamente irritante. Voleva che facesse un salto da lui?, chiese lei. L’avrebbe fatto volentieri. Le pareva una buona idea, disse. Avrebbe chiamato la sua, di baby-sitter, e poi sarebbe corsa in macchina da lui. Ne aveva davvero voglia. Non doveva mica avere paura di dirlo se aveva bisogno di affetto, aggiunse. Carol era una delle segretarie del preside del liceo dove Carlyle insegnava disegno e storia dell’arte. Era divorziata e aveva un figlio, un ragazzino nevrotico di dieci anni che il padre aveva chiamato Dodge, come la sua macchina.
– No, va tutto bene, – disse Carlyle. – Però ti ringrazio. Grazie davvero, Carol. I bambini sono a letto, ma mi sa che mi sentirei un po’ strano, sai, ad avere compagnia stasera.
Lei non insisté. – Tesoro, mi dispiace per quel che è successo. Ma ti capisco se vuoi stare solo stasera. Lo rispetto. Ci vediamo domani a scuola.
Sentiva che stava aspettando che lui dicesse qualcos’altro. – Cosí sono già due baby-sitter in meno di una settimana, – disse Carlyle. – Questa faccenda mi sta mandando al manicomio.
– Tesoro, non ti demoralizzare, – disse lei. – Vedrai che qualcosa cambierà. Ti aiuto io a trovarne una questo fine settimana. Andrà tutto bene, vedrai.
– Grazie ancora perché ci sei quando ho bisogno di te, – le disse lui. – Sei piú unica che rara, lo sai.
– ’Notte, Carlyle, – disse lei.
Dopo aver riattaccato, desiderò averle detto qualcos’altro invece di quello che aveva detto. Non aveva mai parlato in quel modo in vita sua. Non che stessero vivendo una storia d’amore, non l’avrebbe definita cosí, ma Carol gli piaceva. Lei si rendeva conto che per lui era un periodo difficile e non avanzava pretese.
Dopo che Eileen se n’era andata in California, per il primo mese Carlyle aveva passato ogni minuto di veglia accanto ai suoi bambini. Secondo lui, era stato lo shock dell’abbandono a causare quel comportamento, ma fatto sta che non voleva perdere d’occhio i bambini neanche per un secondo. Non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello di vedere altre donne, anzi, per un certo periodo aveva creduto che la cosa non gli sarebbe interessata mai piú. Era come essere in lutto. Passava giorno e notte in compagnia dei figli. Cucinava per loro – anche se lui non aveva appetito – gli lavava e stirava i vestiti, li portava a fare gite in campagna, dove raccoglievano fiori selvatici e mangiavano panini avvolti nella carta oleata. Li portava a fare la spesa al supermercato e li lasciava scegliere quello che volevano. E ogni tanto andavano ai giardinetti oppure in biblioteca o allo zoo. Quando andavano allo zoo si portavano dietro pane secco da sbriciolare per le anatre. La sera, prima di rimboccare loro le coperte, Carlyle leggeva qualche favola: Esopo, Hans Christian Andersen, i fratelli Grimm.
– Quand’è che torna mamma? – gli chiedeva uno dei figli nel bel mezzo di una favola.
– Presto, – rispondeva. – Uno di questi giorni. Adesso state a sentire cosa succede –. Quindi leggeva la storia fino alla fine, gli dava il bacio della buonanotte e spegneva la luce.
E, mentre i bambini dormivano, lui vagava per le stanze della casa con un bicchiere in mano, dicendosi che, sí, prima o poi, Eileen sarebbe tornata. Poi, neanche il tempo di respirare e diceva: – Non voglio piú vedere la tua faccia. Questa non te la perdonerò mai, brutta stronza! – Un attimo dopo, l’invocava: – Ti prego, amore, ritorna! Ti amo e ho bisogno di te. E anche i bambini hanno bisogno di te –. Certe notti, quell’estate, s’era addormentato davanti alla televisione e s’era svegliato con l’apparecchio ancora acceso e l’effetto neve che riempiva lo schermo. Questo nel periodo in cui credeva che non sarebbe piú uscito con una donna per un bel pezzo, se non addirittura mai piú. La sera, seduto davanti alla televisione con accanto a sé un libro o una rivista chiusi, pensava spesso a Eileen. Quando gli capitava, ricordava la sua risata dolce oppure la mano che gli massaggiava il collo se si lamentava che gli faceva male lí. Era in momenti come quelli che gli sembrava di volersi mettere a piangere. Pensava: «Si sente sempre parlare di cose del genere, ma capitano agli altri».
Appena prima dell’incidente di Debbie, quando una parte dello shock e del dolore erano sfumati, aveva telefonato a un’agenzia di collocamento per far presente la sua situazione e le sue esigenze. Qualcuno aveva annotato i suoi dati e gli aveva detto che l’avrebbero richiamato. Non c’erano molte persone disposte a fare i lavori di casa e allo stesso tempo a badare ai bambini, avevano detto all’agenzia, ma avrebbero trovato qualcuno. Pochi giorni prima che dovesse tornare a scuola per le riunioni e le iscrizioni, li aveva richiamati e gli avevano detto che la mattina dopo, presto, qualcuno si sarebbe presentato a casa sua.
Quel qualcuno era una signora sui trentacinque anni con le braccia pelose e le scarpe consunte. Gli strinse la mano e lo ascoltò senza fare neanche una domanda sui bambini, neanche come si chiamavano. Quando la portò sul retro della casa dove i bambini stavano giocando, la donna si limitò a fissarli per un minuto senza dire niente. Quando finalmente si decise a sorridere, Carlyle si accorse per la prima volta che le mancava un dente. Sarah lasciò perdere i suoi pastelli a cera per avvicinarsi a lui. Gli prese la mano e rimase a fissare la donna. Anche Keith la fissava, ma poi si rimise a colorare. Carlyle ringraziò la donna per essere venuta e le disse che le avrebbe fatto sapere.
Quel pomeriggio, aveva ricopiato un numero di telefono da un annuncio sulla bacheca del supermercato. Qualcuno che si offriva come baby-sitter. Referenziata. Carlyle chiamò quel numero e fu cosí che contattò Debbie, la ragazza grassa.
Nel corso dell’estate, Eileen aveva spedito cartoline, lettere e foto ai bambini e anche degli schizzi a penna che aveva fatto da quando era andata via. Aveva anche mandato a Carlyle lunghe lettere piene di divagazioni in cui gli chiedeva tutta la sua comprensione per quella storia – quella storia – ma poi finiva per dirgli che tutto sommato era felice. Felice. Come se, pensava Carlyle, la felicità fosse l’unica cosa che contasse nella vita. Gli diceva che se veramente l’amava come diceva e come lei stessa era convinta che l’amasse – e anche lei lo amava, non doveva dimenticarlo – allora l’avrebbe capita e accettato le cose come stavano. Scriveva: «Quel che è veramente unito da un vincolo non può mai essere disunito». Carlyle non aveva capito se stava parlando del loro rapporto o della sua nuova vita laggiú in California. La parola vincolo, poi, gli dava sui nervi. Che c’entrava con loro due? Credeva forse che formassero una specie di società? Pensò che Eileen doveva proprio aver perso la testa, per parlare in quella maniera. Rilesse quella parte della lettera e poi l’appallottolò.
Ma qualche ora dopo recuperò la lettera dal cestino della carta straccia dove l’aveva gettata e la mise insieme alle altre lettere e cartoline in una scatola sullo scaffale del suo guardaroba. In una delle buste c’era una foto di lei in costume da bagno, con un grosso cappello floscio in testa. E c’era un disegno a matita su cartoncino di una donna sulla riva di un fiume con addosso una gonna trasparente, le mani che si coprivano gli occhi, le spalle curve. Secondo Carlyle, rappresentava Eileen stessa che mostrava la sua sofferenza riguardo alla situazione. All’università si era specializzata in belle arti e, anche se aveva acconsentito a sposarlo, diceva sempre di avere intenzione di mettere a frutto il proprio talento artistico. Carlyle le aveva detto che non le avrebbe permesso di sprecarlo. Lo doveva a se stessa, le disse. Lo doveva a tutti e due. Si erano amati tanto a quei tempi. Lui lo sapeva bene. Non riusciva a immaginare di poter amare nessun’altra come aveva amato lei. E si era sentito amato anche lui, certo. Poi, dopo esser stata sposata otto anni con lui, Eileen aveva mollato. Come diceva nella sua lettera, aveva deciso di «andare a realizzarsi».
Dopo aver parlato con Carol, passò a dare un’occhiata ai bambini e li trovò che dormivano tranquilli. Allora andò in cucina e si versò qualcosa da bere. Gli venne in mente di chiamare Eileen per discutere con lei del problema baby-sitter, ma poi decise di lasciar perdere. Naturalmente aveva sia l’indirizzo sia il numero di telefono di dov’era adesso. Ma l’aveva chiamata solo una volta e finora non le aveva mai scritto. Un po’ per la sensazione di sconcerto che la situazione gli procurava, un po’ per la rabbia e l’umiliazione subita. Una volta, all’inizio dell’estate, dopo aver bevuto un po’, aveva rischiato l’umiliazione e aveva telefonato. Aveva risposto Richard Hoopes. – Ciao, Carlyle, – aveva esordito Richard, come fosse ancora suo amico. Poi, come se si fosse improvvisamente ricordato qualcosa, aveva aggiunto: – Aspetta un attimo, va bene?
Eileen aveva preso la linea e aveva detto: – Carlyle, come stai? Come stanno i bambini? Raccontami un po’ di te –. Lui le aveva de...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Cattedrale
- La vita cosí com’è di Francesco Piccolo
- Cattedrale
- Penne
- La casa di Chef
- Conservazione
- Lo scompartimento
- Una cosa piccola ma buona
- Vitamine
- Attenti
- Da dove sto chiamando
- Il treno
- Febbre
- La briglia
- Cattedral
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright