Della necessità di dotare l’opposizione al fascismo di agili formazioni armate, in grado di portare a termine attentati contro esponenti del regime, si comincia a discutere in Italia parecchi mesi prima dell’8 settembre; fino al tardo autunno del 1943, però, non se ne farà nulla. A parlare per primo di Gruppi di azione patriottica (Gap) è uno dei tre responsabili del centro interno del Partito comunista, Antonio Roasio, rientrato clandestinamente in Italia dalla Francia nel gennaio 1943: in una lettera «strettamente riservata», inviata alla fine di aprile alle organizzazioni regionali del Pci, Roasio spiega a tutte le strutture di partito l’urgente necessità di attrezzare «i militanti alla lotta armata a mezzo dell’organizzazione di Gruppi di azione patriottica, Gap, capaci di condurre azioni di sabotaggio delle attrezzature militari e contro i massimi dirigenti del partito fascista»1. Anche se ancora mancano i presupposti per una lotta dispiegata contro il regime fascista, la crisi profondissima di consenso alimentata dagli esiti disastrosi della guerra è già ben visibile dalla primavera, e il grande sciopero del marzo 1943 ne ha offerto una prova eloquente. Passare dalla crisi di consenso a una lotta armata diffusa non potrà accadere che in maniera graduale: la creazione dei Gap dovrebbe essere il primo passaggio da compiere in questa direzione.
La struttura organizzativa dei gruppi armati – secondo Roasio – deve essere semplice, basata su piccoli gruppi di combattenti entrati in clandestinità, selezionati fra i militanti comunisti di massima affidabilità e audacia; la mancanza di armi e di esperienza militare non deve costituire un freno; le armi si prendono al nemico, nel catturarle ci si allena «con azioni piú facili», fino a essere in grado di colpire «i massimi dirigenti» del regime fascista. L’organizzazione militare dev’essere separata da quella di partito, fra i combattenti si deve instaurare «una disciplina rigida e solida», gli uomini «devono essere preparati a tutti i rischi e quindi dotati di un alto spirito di sacrificio».
È probabilmente questo il primo documento nel quale si parla esplicitamente dei Gap, la cui struttura è mutuata dalla tipologia organizzativa dei gruppi di Francs-tireurs et partisans (d’ora in poi Ftp)2, che nella Francia del Sud, in particolare tra Lione e Marsiglia, hanno sperimentato l’efficacia di azioni di tipo terroristico sotto la guida di numerosi dirigenti comunisti italiani, forgiati dall’esperienza della clandestinità e della guerra civile spagnola.
Forse i «rivoluzionari professionali» provenienti dall’esilio, come Roasio, si fanno soverchie illusioni sullo stato del Partito in Italia, e sulle concrete possibilità di mobilitare rapidamente sull’obiettivo della lotta armata le federazioni, in gran parte scompaginate dalla repressione e prive di qualunque esperienza che non fosse di tradizionale propaganda e organizzazione politica. Gli esempi del terrorismo urbano francese e della guerra partigiana jugoslava, ben noti ai dirigenti tempratisi nella guerra civile spagnola e nella scuola di partito a Mosca, restano assai lontani dalla cultura e dall’esperienza di ciò che del Partito era sopravvissuto in Italia, cioè molto poco. Prima del rientro dalla Francia e soprattutto dalle galere e dalle isole dei dirigenti comunisti, i progetti di costituzione di gruppi armati capaci di praticare il terrorismo urbano non hanno evidentemente terreno fertile sul quale crescere, tanto che la lettera di Roasio non ha alcun effetto immediato, tranne la creazione di piccoli nuclei partigiani in Friuli.
Alla decisione di impegnare tutto il Partito nell’organizzazione della lotta armata, che diviene da quel momento la priorità assoluta, si giunge ben cinque mesi dopo, quando l’occupazione del territorio nazionale da parte delle truppe tedesche e la disgregazione dell’esercito hanno impresso un brusco cambiamento alla situazione generale, e posto all’ordine del giorno la necessità di organizzare concretamente la guerra di Liberazione. A fine settembre, in una riunione a Milano presieduta da Luigi Longo, appena giunto da Roma per prendere in mano, assieme a Pietro Secchia, l’organizzazione della resistenza armata nell’Italia del Nord, viene creato il Comando delle nascenti brigate Garibaldi; nella stessa riunione, viene anche decisa la costituzione dei Gap. Mentre le brigate Garibaldi saranno aperte a combattenti di qualunque opinione e credo politico, purché decisi a lottare contro i nazifascisti, nei Gap saranno ammessi solamente i comunisti piú sperimentati. Fino al giugno dell’anno successivo, brigate Garibaldi e Gap, nella strategia del Pci, saranno i due fondamentali strumenti della lotta di Liberazione, con funzioni e strutture assai diverse: alle Garibaldi il compito di essere il nerbo dell’esercito partigiano, attestato soprattutto sulle montagne, ai Gap quello di costituire il detonatore della lotta armata, colpendo in città, con azioni «esemplari», uomini e simboli del neonato regime e dell’esercito di occupazione tedesco.
Anche se concepiti contestualmente, è del tutto evidente che questi due strumenti avranno tempi di realizzazione diversi. Creare le brigate Garibaldi presuppone infatti di censire, aggregare, politicizzare, convincere i gruppi di militari sbandati a passare a una resistenza armata attiva: non è progetto di immediata realizzazione, e occorreranno parecchi mesi prima che le bande partigiane, assai varie nella composizione e nelle intenzioni, si trasformino in organismi dalla fisionomia ben definita. Né i partiti, confluiti dopo l’8 settembre nei Comitati di liberazione nazionale (Cln), hanno in generale idee chiare sulle forme da dare alla lotta di Liberazione, pur proclamata senza indugio all’indomani della fuga ingloriosa del re.
I comunisti, da subito, optano per un modello basato sulla guerra per bande, sull’esempio jugoslavo, che prefigura una lotta di popolo; i dirigenti del Pda (Partito d’azione), o almeno una parte di essi (Ferruccio Parri in particolare) preferirebbero la creazione di un esercito piú tradizionale, guidato da quadri militari professionali. Il primo modello rimanda a un’idea di popolo in armi, e dunque anche a una vasta mobilitazione politica che affida ai partiti un ruolo centrale; il secondo modello continua a privilegiare la professionalità dei militari, che devono guidare la guerra di Liberazione con criteri tecnicamente sperimentati.
Per i comunisti il dilemma non si pone: la scelta dello scatenamento di una guerra di popolo, della creazione di un esercito popolare, è confortata dalle sonanti vittorie del maresciallo Tito nella vicina Jugoslavia. Si tratta però, realisticamente, di una strategia che necessita di tempi lunghi. Nell’immediato, il vertice del Partito, collaudato stato maggiore a capo di un esercito con pochi ufficiali e scarsissime truppe, ha bisogno urgente di un detonatore, di una struttura operativa, capace, con azioni di grande risonanza, di dimostrare che la lotta armata, non piú solo contro i fascisti ma anche contro i tedeschi, è possibile, da subito, e proprio nelle città, dove piú radicata è la presenza operaia, e piú denso il controllo delle autorità fasciste e dei comandi tedeschi. Alla «lotta popolare di massa», alle brigate e divisioni partigiane, si sarebbe arrivati piú avanti, quando la guerra di Liberazione fosse davvero iniziata, e finalmente accantonate le titubanze che paralizzano gran parte dei Comitati militari dei Cln.
Per il momento, solamente l’organizzazione di «piccoli nuclei particolarmente audaci», pur basati su una logistica quasi inesistente, selezionati e diretti da alcune decine di quadri di partito sperimentati, di «rivoluzionari professionali», avrebbe permesso di passare immediatamente all’attacco, di iniziare «una lotta spietata»3.
Le circolari diramate negli ultimi mesi del 1943 dai dirigenti comunisti sono scandite da un avverbio ripetuto in modo ossessivo: immediatamente! Nulla, piú dell’insistenza sulla possibilità/necessità dell’attacco immediato, mette in luce la specificità della posizione comunista rispetto a quella degli altri partiti antifascisti relativamente ai tempi e alle forme della guerra di Liberazione.
I rappresentanti comunisti partecipano, piú o meno convintamente, ai Comitati militari che ogni Cln va costituendo, in ossequio alla linea ufficiale del Partito che ribadisce la necessità di coinvolgere unitariamente gli altri partiti antifascisti. Nello stesso tempo da queste estenuanti riunioni ricavano la conferma – questo almeno il loro giudizio – di essere i soli a volere una guerra di liberazione che coinvolga «le masse», indirizzandole verso «una rivoluzione democratica».
L’urgenza della «messa al lavoro» dei Gap, in attesa che si consolidino le brigate Garibaldi, è ampiamente attestata dalla ricca documentazione prodotta dalla Direzione del Partito comunista4, che da Milano coordina le varie federazioni provinciali e regionali. L’interpretazione della situazione politica e sociale che sorregge questa strategia è radicata nella stessa storia del Partito, e può essere schematicamente ricondotta a un paio di capisaldi che verranno tenuti fermi durante tutta la guerra di Liberazione: le masse, in particolare la classe operaia del Nord, hanno un grande potenziale di lotta, che solo la guida e l’esempio del Partito comunista è in grado di attivare; compito prioritario del Partito è quello di dare esempi e strumenti di organizzazione a questo potenziale di lotta.
La combattività delle masse, la disponibilità alla lotta costituiscono verità assiomatiche e indiscutibili, accompagnate però dalla consapevolezza che senza l’intervento attivo di una sparuta avanguardia determinata ad assumersi rischi e sacrifici, a mettere in gioco la vita, prevarranno l’arrendevolezza, la scelta del male minore, la rassegnazione o l’attesa compromissoria. Trasformare la presente passività delle masse in una combattività dispiegata: questo il compito storico del Partito, questa l’irripetibile occasione che solamente esempi concreti di lotta potranno rendere realtà.
Date queste premesse, i centri urbani rappresentano un terreno di lotta privilegiato: qui si sono già svolti i grandi scioperi della primavera del 1943, e la mobilitazione operaia dopo i 45 giorni seguiti alla caduta di Mussolini; qui il Partito, pur in grandi difficoltà organizzative e con strutture ancora assai precarie, sente di poter affermare un’effettiva egemonia, fondata soprattutto su un legame con la classe operaia, affievolitosi durante il regime fascista, ma mai venuto meno completamente; e qui, secondo l’orgogliosa affermazione di Secchia, «solo la superiore efficienza organizzativa del Partito comunista ed il piú elevato spirito combattivo dei suoi militanti poteva dar luogo a quel tipo di lotta»5.
Per mettere in moto questo processo, come continuamente ripetono i dirigenti comunisti, i Gap costituiscono uno strumento di grande importanza, anzi l’unico. Nella prima fase della guerra di Liberazione, a dimostrare che la lotta è possibile, non bastano le migliaia di soldati sbandati e le bande partigiane che si vanno ...