Lei così amata
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Lei così amata

  1. 512 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Lei così amata

Informazioni su questo libro

Annemarie Schwarzenbach (1908-1942) fu scrittrice, archeologa, fotografa, giornalista, una donna colta, raffinata e bellissima, che «sembrava incarnare tutta la storia d'Europa». Figlia di un ricco industriale zurighese, avrebbe potuto godere di un'esistenza agiata e comoda; per essere fedele a se stessa, invece, scelse una vita irregolare e scandalosa, sempre in fuga, sempre in viaggio, dalla Persia agli Stati Uniti fino in Congo, alla ricerca di «nient'altro che se stessa». Muovendosi sapientemente tra verità documentaria e invenzione, Melania Mazzucco sottrae all'oblio un personaggio femminile straordinario, figlio del Novecento come pochi altri, e lo trasfigura in una grande prova narrativa. *** «Nessuna battaglia è persa finché ci sono ancora libri come quelli che scrive Melania Mazzucco».
«El País» *** «Melania Mazzucco racconta con forza epica e grande leggerezza, disegnando eventi e personaggi con precisione, ironia e partecipazione emotiva».
«Süddeutsche Zeitung»

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806231163
eBook ISBN
9788858426364
TERZA PARTE

Io abiterò il mio nome

Oh, foresta fu l’anima,
stroncati gli alberi dall’uragano.
Mi avete sentito piangere?
Ché spalancati vidi i tuoi occhi ed impauriti.
Stelle spargono il nero della notte
nel sangue che scorre.
Ormai la mia anima si sdraia nel sonno
ed esita in punta di piedi.
ELSE LASKER-SCHÜLER, Meine Wunder.

Hotel Bellevue

Alle undici del mattino di un giorno di dicembre l’atrio dell’Hotel Bedford, nella Quarantesima Strada, tra Lexington e Park Avenue, è animato da un frenetico andirivieni. Ospiti appena arrivati a Manhattan dalla provincia incrociano habitué che leggono il giornale sui divani; altri ascoltano la radio, ciondolano tra il bar e la reception, si incontrano, scrivono. La porta girevole è in continuo movimento, perciò passa del tutto inosservato l’ingresso di un medico con la valigetta del pronto soccorso e di un uomo estremamente nervoso, coi baffetti biondicci a spiovere sul labbro, seguiti da due infermieri con una barella. Solo il direttore dell’albergo, che li aspettava, avvicina i quattro uomini, rimproverandoli con uno stizzito «Ma quanto tempo ci avete messo? Ci vuol tanto a far arrivare un’ambulanza?», e li sospinge concitato nell’ascensore. «Di che si tratta?» s’informa il dottore, Leslie Field, che è uscito in tutta fretta dalla clinica, subito dopo la telefonata di Schwarzenbach, ed è a dir poco frastornato. «Si è tagliata le vene. Sembra una cosa seria. Le sue amiche stanno facendo una cagnara pazzesca», risponde sottovoce il direttore. Non nasconde che l’incidente è molto spiacevole per la reputazione del Bedford. È vero che vi abitano centinaia di persone, per le quali l’albergo è come una casa, e molte altre – soprattutto i profughi che si sono riversati qui dall’Europa, dopo l’inizio della guerra – per le quali lo è davvero, e l’unica che hanno. È vero che come in una città vi prosperano malumori, infelicità, nevrosi, intrighi. Ogni giorno qualcuno beve troppo, rifiuta di pagare, dà in escandescenze, ama, odia, insulta – insomma, vive. Ma morirci, no, questo non è ammesso.
Anche l’uomo coi baffetti biondicci, livido in viso, è impermalito per il contrattempo, e ascolta il Direttore con fastidio. Avrebbe voglia di sfasciare la cabina dell’ascensore, e di urlare. Urlare contro il senso del dovere che lo costringe ad abbandonare l’ufficio e una quantità di affari arretrati per precipitarsi a soccorrere quella svergognata di Annemarie. Mio padre è morto, mia sorella è pazza, la mia famiglia è distrutta, la mia azienda in rovina, io produco seta, seta, mentre c’è una guerra mondiale, seta! Sto solo cercando di tener duro, – questo vorrebbe urlare. Ma si trattiene, reprime, limitandosi a esternare la rabbia con striduli colpi di tosse. Una volta amavo Annemarie, una volta la invidiavo perché era la beniamina della banda di Bocken, e regnava sulla tribú di cugini e fratelli, e io ero soltanto un suddito, una volta tutti amavamo Annemarie. Poi è andato tutto in pezzi. E adesso non hanno piú niente in comune a parte la madre, l’infanzia e il nome. Freddy è un uomo serio, posato, non fuma, non beve, non si droga, non si abbandona ad amori irregolari, ha una moglie e due bambine. È un dirigente d’azienda: lavora dodici ore al giorno, la domenica va a messa e poi resta in famiglia. Un uomo tranquillo. Freddy fissa istupidito la fuga dei corridoi che a ogni piano gli si apre davanti con le porte scorrevoli dell’ascensore. Non è mai entrato al Bedford prima d’ora. Benché l’hotel si pubblicizzi come “a combination of american comfort and continental charm”, è uno scoraggiante edificio di mattoni scuri, con un servizio trasandato, camerieri distratti, affollato di emigranti e fuorusciti tedeschi. Freddy detesta gli alberghi. Diffida delle persone che vivono negli alberghi. Gente che non vuole assumersi le responsabilità di una casa. Gli alberghi hanno sempre un’aria di precarietà, perdizione e solitudine. È quasi comprensibile che vi si finisca per impazzire.
L’ascensore li deposita in un corridoio illuminato a malapena da lampadine agoniche. Una moquette giallastra corre tra due file di porte chiuse. Una cameriera trascina verso di loro il carrello con la colazione: tazze sporche macchiate di rossetto, brioche mordicchiate, barattolini di marmellata. Ma Annemarie non ha consumato la sua colazione, oggi. Ha messo La morte e la fanciulla sul grammofono, si è aperta le vene con un coltello, e, mentre le note di Schubert intrecciavano la loro danza incalzante, ha aspettato la pace. La liberazione. La morte. Cosí, a tutti i suoi peccati ha aggiunto l’estremo – il piú imperdonabile. Quello di farsi arbitra della sua vita e del suo destino. E invece non abbiamo questo diritto. La Morte viene quando Dio lo vuole, e c’è già stato un morto, per gli Schwarzenbach, in questi giorni. Mio padre che teneva unita la famiglia, mio padre che ci mostrava la strada, se n’è andato. Il sacrificio è stato considerato sufficiente, e la Fanciulla è stata salvata. Il direttore è rimasto nell’ascensore. «Vi prego di non dare scandalo», conclude con fredda cortesia, «e di non turbare i miei clienti. Il buon nome dell’hotel non deve essere coinvolto in nessun modo in questa storia. Portatela via dall’uscita di servizio».
La camera di Annemarie è aperta e, per i gusti di Freddy, c’è già troppa gente. Due cameriere – di cui una negra – dall’aria costernata, un capannello di femmine a lui sconosciute, un facchino con la giubba rossa. C’è perfino un cane, un barboncino nero con un ciuffetto rosa infiocchettato sul cranio. La camera è ingombra di bottiglie di whisky vuote, cartacce, portacenere stracolmi di cicche e altri segni di degrado. Le disgrazie degli altri attirano la curiosità degli esseri umani come non riescono né la felicità né la fortuna. Ma forse alla fine anche le disgrazie isolano, perché a prima occhiata Schwarzenbach non riconosce nessuno degli amici di Annemarie. Neanche l’ombra dei Mann, né di quel medico, Gumpert, che una volta le ha curato la setticemia, né degli altri tedeschi che bivaccano al Bedford. È proprio vero che alla fine si muore soli. Qualcuno ha rimesso sul grammofono il disco di Schubert, e il ritornello dei violini diffonde nell’appartamento un’allarmante minaccia. Freddy osserva gelidamente la modestia dell’alloggio di sua sorella. È lui che lo pagherà. Perché gli Schwarzenbach hanno perso i tre quarti del loro patrimonio, quest’anno, e Annemarie ha smesso di ricevere la rendita da casa. Non potrebbe mantenersi scrivendo i suoi articoli. Deve chiedere prestiti al fratello imprenditore – che non fuma, non beve e lavora dodici ore al giorno. E la cosa è ancora piú detestabile perché lei non gli sarà mai grata della vita che le regala. A Sua Altezza è sempre stato tutto dovuto.
Annemarie giace sul letto, le braccia avvolte in asciugamani inzuppati di sangue. Il suo viso non è affatto come Freddy immaginava dovesse essere il viso di chi ha cercato di uccidere una persona e se stessa – e in entrambi i casi ci è quasi riuscita. È un viso angelico, da bambina. Severo, sconsolato, ma per nulla pentito. «Lasciatemi in pace», mormora, «sono stanca, voglio restare sola...» Freddy è sopraffatto dall’imbarazzo. Non sa dove mettere le mani, lo sguardo, se stesso. Sono cose personali, problemi intimi, si lamenta Annemarie, che diavolo ci fa tutta quella gente lí? non ho bisogno di nessuno, andate via; monologa con le ultime forze residue, non sembra affatto una persona rassegnata né pronta a morire, adesso, è solo in collera con chi l’ha salvata, con chi non l’ha capita, con se stessa – e con lui. Quando lo vede cerca di nascondere il viso col lenzuolo – come volesse scacciare la sua immagine. «Va’ via, Freddy, ti prego», gli dice, ma Freddy non si muove. L’hanno chiamato, è venuto, rappresenta la famiglia, sistemerà tutto. Chini su di lei, gli infermieri le prestano le prime cure, e Annemarie non ha la forza di opporsi. I tagli ai polsi sono profondi, ma non abbastanza, e l’emorragia viene fermata. Field orienta verso la luce una fiala: la agita, la spezza e aspira il liquido con la siringa. «Lei ha bisogno di dormire, signora», ribadisce, con voce monotona. «Vedrà che le faccio fare un bel sogno». Annemarie non vuole dormire, i suoi sogni sono incubi spaventosi, di questi tempi – perciò contesta, si agita, s’inalbera, si ribella, si solleva sul letto, ricade esanime, continua a mormorare le sue proteste, finché le palpebre s’abbassano e dalla sua bocca escono soltanto gemiti sconnessi.
Solo adesso Freddy identifica la donna bruna che accarezza meccanicamente il barboncino col fiocco rosa. È lei, la baronessa Margot. L’ultima amante di sua sorella. Avrà una quarantina d’anni e l’aspetto algido e inflessibile. Qualcosa che gli sembra stranamente familiare. Di quella donna lo colpiscono gli zigomi slavi e gli occhi scuri, che lampeggiano di una volitiva impulsività. La baronessa deve avere un carattere di ferro perché, date le circostanze, non sembra affatto sconvolta. Accarezza il cane, gli alliscia il pelo e segue con lo sguardo gli infermieri che s’affannano attorno ad Annemarie, tranquilla perché tutto sembra sotto controllo. Si comporta con invidiabile disinvoltura. È abituata al rischio. Suo marito Fritz è un famoso corridore automobilistico: un pioniere che ha spinto l’automobile-razzo da lui stesso progettata e costruita fino ai duecentotrenta chilometri orari. Il nonno di Fritz ha fondato quella che è diventata una delle principali case automobilistiche tedesche, ma lui deve essere un temerario, perché s’è messo a progettare missili. Non si sa bene cosa siano venuti a fare – il barone e la baronessa – in America, né perché abbiano abbandonato la Germania. Si professano antifascisti, ma la comunità degli espatriati diffida di loro, che infatti non sono venuti ad abitare al Bedford ma al piú lussuoso Pierre Hotel, sulla Fifth Avenue, fra Central Park e Madison. I Mann sospettano addirittura che siano spie naziste, ed Erika ha perfino offerto la sua collaborazione all’FBI per smascherarli – col risultato che, a sua insaputa, adesso l’FBI spia lei e i suoi amici, archiviandone meticolosamente gli incontri, i discorsi e le attività erotiche, catalogate come “sexually perverted”. Ma di questi tempi a New York c’è una vera psicosi – non si parla d’altro che di spie naziste, di quinta colonna, di cavalli di Troia, di sabotatori –, e l’accento tedesco, il nome tedesco, sono già una condanna. Margot comunque non ha affatto l’aria circospetta della spia, è solo una donna sfacciatamente sicura di sé. Annemarie ha amato, ed è stata amata da piú donne di quante Freddy ne abbia mai sognate.
«Grazie di essere venuto», mormora Margot, con voce assai piú contrita del volto. Gli porge la mano, ma Schwarzenbach non gliela stringe, per chiarire tutto il suo disprezzo per lei, e con ostentazione appoggia la sua sulla spalliera del divanetto. La squadra freddamente – con sguardo vitreo. Il barboncino, che ha fiutato l’ostilità di Freddy per la sua padrona, gli ringhia contro ferocemente, sguainando la patetica dentatura del cane da salotto. Profuma in modo ripugnante di shampoo e lozione femminile. Margot accarezza il dorso del cagnolino, o meglio della cagnolina – buona, ripete, buona Mizzi. È incerta fra una salutare crisi di nervi e un attacco di fou rire. Perché questa situazione è spaventosa e insieme grottesca – come la faccia di Alfred Schwarzenbach: Freddy, con quei baffetti spioventi e il viso cereo, sembra un prete il giorno di un funerale. Non avrebbe dovuto né voluto chiamarlo, ma non sapeva cos’altro fare, e ha dovuto decidere in fretta. Anche se Annemarie di questi tempi è astenica, intontita dall’alcol e dai barbiturici, ha avuto davvero paura di lei. È ancora sotto shock, e da quando l’hanno chiamata dal Bedford per dirle che Annemarie ha cercato di uccidersi continua a ripetersi che bisogna chiuderla, questa storia folle – definitivamente. Buona Mizzi, va tutto bene. Vorrebbe svegliarsi, e scoprire che è stato solo un incubo. L’amico di Erika, quel medico, Gumpert, le ha detto una volta che durante le crisi psicotiche – quando la vita interiore si disancora da ogni riferimento reale e l’immaginario dilaga – le persone sentono voci che ordinano loro di fare questo o quello. Di buttarsi dalla finestra, tagliarsi le vene, ammazzare il primo che passa o la propria moglie, nella quale si nasconde il demonio. Possibile che ad Annemarie sia successo qualcosa di simile? Gridava in maniera selvaggia, stanotte, disumana, come se volesse liberarsi di Dio e dei suoi sbirri – la malattia, la follia, il dolore. Doveva proprio finire in un modo tanto terrificante la loro amicizia? A me è dato il potere di uccidere, ma non quello di morire. Sta’ buona Mizzi. Quanto deve odiarla, Annemarie, per averla aggredita a quel modo. L’ha scambiata per qualcuno? O era proprio lei l’oggetto del suo odio?
Leslie Field ha convinto Annemarie a sottoporsi al disonore di lasciarsi ricoverare in un ospedale, o forse l’ha convinta il sonnifero, ma tant’è: gli infermieri la adagiano sulla barella e stringono le cinghie di cuoio attorno al suo corpo. Per evitare sballottamenti, dicono. Se questo non è un tradimento, gli assomiglia molto. Ma ciò che è successo stanotte libera Margot da ogni senso di colpa. È lei la piú minacciata, dopotutto. Straniera, invischiata in una liaison comunque pericolosa, con la prospettiva di ritrovarsi senza casa, con la polizia che l’ha torchiata di domande e trattato lei, una baronessa, come l’ultima delle delinquenti. Eppure ha la certezza di aver fatto una scelta irrevocabile – e cosí questo, che l’abbia previsto o no, è proprio un addio. Non ci sarà un viaggio insieme, niente Mongolia, niente avventure – nessun futuro. Scosta il lenzuolo dal viso di Annemarie, e Annemarie è per lei un paese ignoto, piú remoto dell’Alaska. Annemarie non sembra sapere piú dov’è né cosa stia accadendo e balbetta parole confuse. Forse anche lei sta sognando che tutto questo non sia vero. Ma quando Margot le sfiora la guancia con la mano, riconosce perfettamente il ritornello che Annemarie ha ripetuto in questi ultimi giorni. Padre, padre, padre, non lasciarmi, non giudicarmi, rispondimi – padre, padre, padre.
«Se ne vada subito», sibila Freddy, cacciandosi la mano in tasca per impedirsi di prendere a sberle la baronessa. Margot arrossisce. Per un attimo lo fissa con disgusto. «Non ho voluto far niente senza consultare un medico», sussurra a Field, «la situazione è andata troppo oltre. Ho paura. Non per me, so difendermi. Intendo, per lei...» «Mi spieghi meglio, baronessa. In che senso ha cercato di ucciderla?» chiede Field: non fa giri di parole, il medico – va subito al dunque. Margot abbassa lo sguardo e tace. Scosta appena il foulard accuratamente annodato sotto il mento. Segni, graffi, lividi s’allargano sul suo collo – sfregi violacei sulla pelle chiara.
ANONIMO DI UNA GAZZETTA CITTADINA (cronaca nera locale). Ieri notte, verso le 3, la signorile quiete del Pierre Hotel è stata turbata da un episodio di violenza. A. S., d’anni 32, giornalista e fotografa, destatasi all’improvviso cercò di strangolare la baronessa M. v. O., d’anni 40, ospite abituale dell’albergo. La polizia, accorsa sollecitamente, impedí l’omicidio. Secondo gli inquirenti, il fatto fu provocato da motivi passionali o da un raptus di follia. Le due donne sono di nazionalità tedesca.
MORGAN, PORTIERE DI NOTTE DEL PIERRE HOTEL (ride). Una storia banale. La bionda ha lasciato l’albergo all’alba, ho chiamato io stesso il taxi. I crucchi non li posso proprio vedere, però la baronessa von Opel è una delle nostre clienti migliori – mance a pioggia, manicure e parrucchiera tutti i giorni. La bionda io non sapevo nemmeno che fosse una donna. Pensavo che fosse un ragazzo finché non l’ho vista scamiciata ieri notte. Roba da non credere. Alla fine, la von Opel se l’è cavata con qualche livido sul collo. L’appartamento, invece... Devastato. Danni per centinaia di dollari. Il portacenere, il lampadario di Murano, il vetro della finestra, una statua della Libertà di gesso fatta a pezzi. Quando siamo entrati, la bionda tirava contro lo specchio tutto quello che le capitava a tiro. La baronessa la prendeva a schiaffi per farla tornare in sé. C’è stata un po’ di confusione. La cagnetta mi ha morso. La von Opel è riuscita a calmarla, le ho permesso di far riposare la pazza al Pierre ancora qualche ora, poi l’abbiamo buttata fuori. Tutto qui.
FRITZ VON OPEL (evasivo, lo sguardo celato dietro gli occhiali spessi come fondi di bottiglia). Io avevo avvertito Margot che Annemarie era una donna pericolosa. Affascinante, senza dubbio, ma troppo complicata e un po’ paranoica. Sono troppo duro? Lei come definirebbe una donna che per anni fugge da un continente all’altro come inseguita dalle furie? Margot la frequentava dai tempi dell’Engadina: abbiamo uno chalet a St. Moritz. Fino a questa primavera, per precauzione, Margot non è mai voluta restare sola con lei. Poi siamo venuti in America. La nostra situazione in Germania era disperata. Abbiamo fatto il viaggio in nave insieme, noi tre. Non fraintenda, non tiri in ballo bassezze come la gelosia – ma è stata una convivenza allucinante. All’inizio sembrava che le cose si mettessero bene. Annemarie ha preso contatto con i giornali di qui, sa, in questi anni i suoi reportage dalla Dixie Line e dall’Afghanistan le hanno procurato la fama di giornalista impegnata, nell’ambiente progressista. Perfino quelli della rivista «Life» le hanno chiesto un servizio. Ma nel giro di poche settimane in Europa è crollato tutto. Il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo, poi anche la Francia, invasi. Scoramento collettivo. A New York l’ambiente diventava deprimente. Io me la sono battuta subito. Margot e Annemarie sono rimaste sole tutta l’estate. Sono andate in vacanza a Nantucket, sull’oceano. Ci sentivamo spesso al telefono. Margot era tesa, allarmata, la situazione un tantino morbosa – le donne come Annemarie è piú facile amarle che viverci insieme. Ma niente faceva presagire un tentativo di omicidio. Annemarie avrà avuto un crollo nervoso. Non è che i suoi amici l’abbiano aiutata molto, in questi mesi. Sa che diceva Erika Mann di Annemarie? Bambina, mulo e gallina. Ce l’aveva ancora con lei per una vecchia storia – un matrimonio con un ricchissimo banchiere ebreo che Annemarie le mandò a monte qui a New York facendo fallire il suo cabaret, credo. Anche se in fondo non so di che si lamenta: la Mann era un’attrice semisconosciuta ed è diventata una conferenziera ben pagata. Rimproverava Annemarie di essersene andata in Asia, nei “campi di papaveri”, non so bene. Avevano fatto scelte diverse. Comunque alla fine d’agosto la Mann se n’è andata in Europa. Anche il piccolo Mann evitava Annemarie. Ho sentito dire che hanno dei guai familiari – il fratello prigioniero in Francia, la sorella vedova col marito silurato in mare – storie cosí. Tutti abbiamo i nostri guai – Margot però il guaio se lo è preso in casa. Annemarie s’è aggrappata a Margot. Non aveva nessun altro. Be’, l’importante è che nessuno si sia fatto male, almeno adesso è finita.
MARGOT (con aristocratico understatement). Ancora con questa storia del Pierre Hotel? Basta, non rimestare nel torbido. Non c’è niente da dire. L’amico di Erika, Gumpert, mi disse già alla fine di ottobre che Annemarie era sull’orlo, se non già dentro, una psicosi. Poi ha avuto la notizia della morte del papà, e ha perso la testa. Pauvre enfant.
Il 17 novembre, Freddy – col quale, benché fosse suo fratello e vivesse a Manhattan, Annemarie si sentiva pochissimo – aveva telefonato per darle la notizia della morte dell’altro Alfred, suo padre. Era malato da tempo. Era triste, angosciato per via della guerra, per la catastrofe della sua azienda, per molte cose che non funzionavano piú, oltre al suo cuore. Qualche settimana prima si era dimesso da tutte le cariche. Sapeva di dover morire. E domenica se n’era andato, con signorilità e senza clamore, come aveva vissuto. I funerali erano fissati per mercoledí alle undici al Krematorium di Zurigo. Era rischioso, ma prendendo l’aereo si poteva ancora accompagnarlo “all’estrema dimora”. Hans e Freddy divenivano i nuovi amministratori dell’azienda. La Ro. Schwarzenbach & Co. passava il peggior momento della sua storia, le esportazioni bloccate, il giro d’affari crollato. Ma nonostante il ridimensionamento era ancora viva, e forse un giorno la pazzia del mondo guarirà e si riprenderà a vendere la seta.
Alfred le era diventato con gli anni estraneo e perfino nemico. Ma la sua morte ebbe su Annemarie l’effetto di un terremoto. Il viso accigliato di suo padre la scrutava dalla prima pagina della «Neue Zürcher Zeitung». Io l’ho ucciso, si ripeteva, lasciando che le lacrime scendessero sul suo viso senza asciugarle. Anch’io ho ucciso mio padre. Ho ucciso tutto ciò che amava. E rivedeva ossessivamente Alfred che nel salone di Bocken agitava la «National Zeitung» nella quale, per settimane, era apparso il suo reportage dagli Stati Uniti. Un giornale che Alfred e Renée definivano un “foglio scandalistico pieno di inesattezze, orientato da una parte sola, antisvizzero”. Il reportage lei lo aveva firmato con uno pseudonimo, perché il suo nome non le apparteneva piú dell’azienda.
Luoghi comuni marxisti! urlava Alfred. Se ti vedesse tuo nonno che montava i telai della nostra fabbrica con le sue mani! Cosa credi, piccola comunista cieca, che qualcuno ci abbia regalato la Ro. Schwarzenbach & Co.? Chi mi ha mai regalato qualcosa, Anne? Chi mi ha regalato la capacità di tessere la migliore organza da abburattare della Svizzera? Chi mi ha regalato le macchine Turbo che essiccano trentaseimila spole in ventiquattro ore? Quando tuo nonno mi ha lasciato l’azienda avevamo ancora i telai a mano! Qualcuno mi ha regalato qualcosa nel 1921? È stato l’anno terribile. Le aziende svizzere hanno perso in dodici mesi quarantaseimila quintali di export. Abbiamo perso centoventi milioni di franchi. Avrei voluto ritirarmi – coltivare rose e allevare pulcini –, ecco cosa volevo fare. Ma non l’ho fatto – per voi. Oh, ma tu sei una giornalista, tu stai dalla parte degli oppressi, il governo di Roosevelt ti ha fatto l’onore di mandarti in giro a documentare la depressione in America, tu hai solo fatto delle fotografie, hai solo intervistato della povera gente che è stata in galera perché difendeva il suo posto di lavoro – è questo che vuoi dirmi? Che cosa commovente! Quanto ti offendono la miseria e la fame – i bambini denutriti che giocano nei rigagnoli dei ghetti e nelle discariche del paese modello del capitalismo, che lavorano dieci ore al giorno perché costano meno degli adulti, le nostre leggi della concorrenza, le fabbriche che abbiamo chiuso perché non fruttavano piú abbastanza, le operaie vecchie a trent’anni, l’odio dei bianchi poveri contro i negri, la giustizia di classe... Lo so cosa volevi dirmi con quelle belle parole. Che io, tuo padre, sono uno sfruttatore, un boia capitalista. Ma che ne sai tu, Anne? Hai mai prodotto qualcosa in vita tua? Lo sai che il tuo bisnonno ha sputato sangue vendendo fazzoletti e nastrini da lutto? È stato costretto a campare sulla morte degli altri, a benedire la tubercolosi, le febbri puerperali e il vaiolo. La morte della regina Vittoria è stata una manna per le nostre esportazioni in Inghilterra. E l’epidemia di colera in Francia nel 1893 ha coinciso con un bilancio record. Abbiamo vestito a lutto l’Europa intera. Già nel 1785 a Zurigo c’erano ventotto fabbriche che lavoravano la seta. Duemilacinquecento telai filavano senza sosta. Crépon e nastri di scarto, taffettà e passamanerie d’oro e d’argento. Una di quelle fabbriche era la nostra. Facevamo s...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Il talismano d’oro
  4. Lei cosí amata
  5. La caduta. 7 settembre 1942
  6. PRIMA PARTE. L’apprendista della vita
  7. SECONDA PARTE. Su ogni spiaggia di questo mondo
  8. TERZA PARTE. Io abiterò il mio nome
  9. Nelle profonde tenebre
  10. Il ringraziamento
  11. Nota
  12. Il libro
  13. L’autrice
  14. Della stessa autrice
  15. Copyright