Anime scalze
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Anime scalze

  1. 232 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Anime scalze

Informazioni su questo libro

«Quella mattina, ricordo, nel parcheggio del centro commerciale, scendendo dal furgone, afferrando il fucile dal sedile posteriore, ho guardato di sfuggita verso il bosco e mi sono accorto che il sole stava sorgendo sulla campagna come un livido. Era ottobre. Avevo quindici anni».

Ercole è asserragliato sul tetto di un capannone, armato e circondato dalla polizia. Con lui c'è Luca, che ha sei anni. Come sono finiti lassú?

Ercole Santià trascorre l'infanzia ricucendo gli strappi quotidiani della vita. Lui e sua sorella Asia tirano avanti a stento - con fantasia e caparbietà - insieme al padre, un personaggio tanto inadeguato quanto innocente; eppure, come tutti, crescono, vanno a scuola, s'innamorano. Finché, all'improvviso, ogni cosa attorno a Ercole inizia a crollare. Niente sembra in grado di fermare la slavina che lo sta travolgendo, nemmeno Viola, la ragazza che da qualche tempo illumina i suoi giorni. Convinto che quello di incasinarsi sia un destino scritto nel sangue della propria famiglia, è sul punto di arrendersi quando viene a sapere che la madre, di cui non ha notizie da anni, abita non lontano da lui. L'incontro con la donna lo metterà di fronte alla necessità di reagire compiendo una scelta drammatica. L'unica possibile, forse, se vuole cambiare il proprio destino e proteggere le persone che ama.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806229245

Tre

– Si dice che se i lupi escono dai muri, è finita.
– Che cosa è finito?
– Tutto.
NEIL GAIMAN
Mio padre si chiama Pietro. Pietro Santià. Figlio di Ignazio e Serena De Luca, lui di Torino, lei di Salerno. Non li ho mai conosciuti. Sono morti entrambi prima che io nascessi. Ricordo che quand’ero piccolo, alle elementari o alle medie, se chiedevo a mio padre cosa facesse nella vita, per curiosità o perché mi serviva saperlo, lui rispondeva: Io me la godo, la vita. Ho anche provato a dirlo a scuola. Quando il discorso finiva sul mestiere dei genitori e c’era chi diceva macellaio, chi architetto, chi insegna, progetta, ha un negozio; o quando si chiacchierava in fila per la mensa e: Sapete che mio padre è tornato ieri da un viaggio di lavoro e mi ha portato un robot che si comanda con un polsino elettronico che s’infila nel polso cosí – dimostrazione – e basta che muovi la mano e lui cammina e frena e gira. Ecco, in quei casi, oltre a far notare che dove vuoi infilartelo un polsino se non nel polso – e proporre alcune alternative – dicevo: Mio padre si gode la vita.
La cosa faceva sempre un’enorme impressione.
La questione, però, è che a giudicare da mio padre sembrava che per godersi la vita bisognasse sgobbare. Stava fuori quasi tutte le notti. All’alba andava al mercato rionale ad aiutare a sistemare i banchi e in cambio gli davano la frutta tocca, la verdura macchiata, la confezione che perdeva. Faceva lavori di manutenzione quando chiudevano gli uffici. Spariva per giorni per trasportare della merce in giro per l’Italia e quanto tornava raccontava di incidenti in autostrada, di aver visto l’alba sorgere dietro il Gran Sasso o di una maga che gli aveva letto il futuro nei fondi del caffè. E se gli chiedevamo di raccontarci cosa avesse detto la maga, se erano in arrivo tempi migliori, lui rispondeva: Quali tempi migliori?
E io, ricordo, lo ascoltavo come si ascoltano i santi.
Detto questo, a prendersi cura di me è sempre stata Asia. Certo, papà portava a casa soldi e cibo, ma a gestirli, i soldi e il cibo, era Asia. Era lei che faceva da mangiare inventandosi ogni genere di mischione: insalate, frittate, zuppe; modi buoni per prendere ciò che c’era e cavarne qualcosa di commestibile. Era lei a occuparsi della casa, delle lavatrici, di ritirare il bucato e di stirarmi le magliette perché non sembrassi un pezzente. Diceva: È importante che non sembri un pezzente, se sembri un pezzente e gli insegnanti se ne accorgono finisce che chiamano gli assistenti sociali o peggio ancora le persone di buon cuore. Motivo per cui mi controllava i compiti e se servivano cose per la scuola, chessò, un quaderno o un evidenziatore fucsia o un compasso, faceva in modo di procurarsele, e ogni sera leggeva il mio diario, e se c’era da firmare un avviso falsificava la firma di papà.
In fondo, l’unico vero problema che io e Asia abbiamo mai avuto, quand’eravamo piccoli, erano gli agguati delle persone che cercavano di aiutarci; perché di fatto la nostra vita era cosí polverosa e irregolare che fare in modo che non se ne accorgesse nessuno era impossibile.
Un giorno, ad esempio, avrò avuto otto anni, hanno suonato alla porta. Ero solo in casa e Asia aveva detto che quando ero solo non dovevo aprire per nessun motivo; io avevo giurato baciando i mignoli – che la puzza delle ascelle mi rivesta come una merda vestita a festa. Ero in camera e stavo disegnando un mostro. Mi sono avvicinato alla porta in punta di piedi e visto che ero troppo basso per guardare attraverso lo spioncino e che a spostare la sedia rischiavo di fare rumore ho appoggiato l’orecchio per sentire se chi era dall’altra parte faceva dei suoni particolari. Ho pensato che non poteva essere la vedova, perché era passata la settimana prima, e mentre ero lí, la testa contro la porta, hanno bussato. Mi sono spaventato. Sono schizzato indietro e stavo per cacciare un urlo, ma sono riuscito a trattenerlo tappandomi la bocca con le mani. Il cuore batteva come un tamburo africano, di quelli di pelle di capra. A quel punto dovevo vedere chi era. Dovevo. Con un’apnea da pescatore di spugne ho raggiunto il tavolo, ho sollevato una sedia, sono tornato alla porta e ci sono salito sopra. Ho avvicinato l’occhio allo spioncino. La sedia ha scricchiolato come per spezzarsi. La lente ha restituito l’immagine circolare di un tizio in camicia a quadri e giacca beige, calvo, un’ombra di baffetti, che si guardava attorno in cerca di qualcosa. Non sembrava pericoloso, ma alle volte il pericolo sa camuffarsi niente male. Ha bussato ancora due volte e io sono rimasto a osservarlo finché non si è stufato e se n’è andato.
Quella sera l’ho detto ad Asia: Oggi è venuto un tizio.
Chi?
Non lo so.
Come sai che era un tizio e non una tizia. Hai aperto?
Ho guardato dallo spioncino.
Descrizione.
Camicia a quadri, giacca beige, niente capelli. Baffetti. Ha prima suonato e poi bussato.
Ha insistito?
No.
Bene cosí. Asia ha preso una zucchina da una cassetta piena, che non si capiva come potesse essere ancora cosí piena visto che da giorni non mangiavamo altro che zucchine, ne ha tagliato via un terzo, che stava marcendo, e ha cominciato ad affettarla a cubetti. Com’è andata a scuola?
Bene.
Bene come?
Molto.
Preso voti?
No.
Sicuro?
Sicuro.
Compiti?
Fatti.
Vedere.
Sono andato a prendere il quaderno di Storia e le ho mostrato quattro pagine di appunti sui fossili e il disegno del teschio di un tirannosauro.
Hai copiato tutto da internet?
Sí.
Bene.
Non avevamo internet a casa, ma quando mi serviva prendevo il vecchio portatile che una compagna di classe aveva passato ad Asia quando i genitori gliene avevano regalato uno nuovo, scendevo per strada e mi sedevo davanti alla vetrina del Barzagli che aveva il wi-fi gratis.
Hai visto papà, oggi? ha chiesto Asia.
Ho fatto segno di no.
Ieri?
Ho fatto segno di no.
Hai una macchia sulla fronte.
Mi sono cercato nel riflesso della finestra. Uno sbuffo nero. Ho leccato le dita e mentre le strofinavo mi è caduto lo sguardo in strada. Eccolo, ho detto.
Chi?
Papà.
Asia ha posato il coltello e la zucchina; si è avvicinata. Ho appoggiato la testa contro il vetro. Papà era in mezzo a un capannello di gente, tutti uomini, tutti piú o meno della sua età. In una mano teneva stretta una bottiglia di birra, mentre con l’altra gesticolava costruendo mondi e lanciando incantesimi; si capiva che stava raccontando qualcosa di divertente perché il capannello ogni venti, trenta secondi esplodeva in risate effervescenti. Io ho sorriso. Asia no. Asia ha i miei stessi occhi – gli stessi di mamma – ma le labbra le ha prese dal nonno: un taglio nel marmo. A me invece viene sempre da sorridere; perché non so, ho l’impressione che la vita, spesso, sembri il guardaroba di un clown, piena di colori improbabili e guantoni da boxe che schizzano fuori quando meno te lo aspetti. A volte mi capita di sorridere anche quando non dovrei e la gente pensa che la stia prendendo in giro. Ma non è vero. Come a scuola, che finisce sempre che i professori mi chiedono il diario o mi mandano dal preside. È solo che ho la tendenza a concentrarmi sul lato ironico delle cose. Asia mai. Lei se è allegra al massimo solleva gli zigomi d’un soffio, negli occhi un lumino da chiesa – e tant’è.
Papà ha detto qualcosa di molto buffo. Doveva essere cosí perché le pance e le spalle di tutti hanno cominciato a ballonzolare e c’era chi si tirava delle gran pacche sulle cosce e chi si reggeva la schiena, come per paura che si spezzasse. Era ubriaco. Lo si capiva dalle ginocchia sporgenti e dal culo in fuori, dai movimenti che facevano pensare a una barchetta di carta. Poi il tipo con un cappello azzurro alla sua sinistra gli ha dato una botta alla spalla, come a dire ma quanto sei forte. Papà non se l’aspettava. La bottiglia gli è scivolata di mano. È esplosa a terra.
In quel momento hanno suonato alla porta.
Papà ha iniziato a sbraitare – si vedeva che era arrabbiato – ha dato uno schiaffo in testa al tipo e gli ha fatto volare via il cappello.
Io e Asia ci siamo scambiati uno sguardo facendo finta di non aver sentito.
Hanno suonato di nuovo. E anche bussato.
Il tipo ha raccolto il cappello e ha mandato a cagare papà.
Hanno bussato ancora.
Asia ha sospirato, si è girata ed è andata alla porta. Lei, che aveva tredici anni, allo spioncino arrivava senza sedia, ma doveva comunque sollevarsi sulla punta dei piedi. Ha appoggiato le mani al legno e ha chiuso l’occhio sinistro. In strada la discussione si era allargata e ora berciavano tutti insieme. Asia ha fatto un passo indietro e ha chiuso gli occhi per concentrarsi. Ho guardato la crepa nel muro, accanto al citofono; all’interno si è mosso qualcosa. Asia mi si è avvicinata e mi ha sussurrato nell’orecchio: Camicia a quadri e giacca beige?
Ho fatto segno di sí.
Baffetti?
Ho fatto segno di sí.
Lei ha mosso le labbra per dire cazzo, ma non ha detto nulla.
Siamo tornati alla finestra. Adesso papà stava mandando a cagare tutti e tutti mandavano a cagare lui. Ha fatto per andarsene, ma camminando all’indietro è inciampato nel gradino del marciapiede ed è scivolato tra le macchine parcheggiate; si è rialzato facendo finta di nulla. Ha attraversato la strada aggiustandosi il giubbotto, senza guardare, e un motorino che aveva appena svoltato l’angolo ha dovuto inchiodare per non investirlo. La ruota posteriore ha slittato, il guidatore ha faticato a tenerlo. Papà si è spaventato, gli ha imprecato contro e si è diretto barcollando verso il portone d’ingresso del cortile.
Il campanello ha squillato di nuovo.
Asia ha sospirato. Mi ha preso per le spalle. Ha detto: Io penso al tipo. Tu pensa a papà.
Il tempo di aprire la porta e sono scivolato tra lo stipite e il tizio pelato tanto in fretta che quando quello se n’è accorto io avevo già fatto mezza rampa di scale. Mi sono scapicollato giú divorando i gradini, sono atterrato nell’androne e ho visto papà oltre il vetro smerigliato: una macchia colorata china a graffiare il nottolino con la chiave. Mi sono chiesto cosa fare. Ho pensato che se aprivo e non mi dava retta era finita: sarebbe salito su, dritto a casa. Mi sono guardato attorno e lo sguardo si è impigliato nella porta delle cantine. Le cantine della scala E, la nostra, erano collegate a quelle della scala F da un corridoio. Se entrambe le porte erano aperte avrei potuto raggiungere l’androne della scala F e uscire in cortile e sorprenderlo alle spalle. Ho schioccato le dita – che è una cosa che faccio ogni tanto quando ho una buona idea. Ma a quel punto ho realizzato che quindi sarei dovuto scendere in cantina. E avrei dovuto attraversare il corridoio. E non c’era nulla al mondo di cui avessi piú paura. Perché, per quanto ne sapevo, il corridoio tra le cantine, quel cunicolo gocciolante e male illuminato che puzzava di vino e umidità, era dove i mostri si radunavano per diffondersi nei muri del palazzo: la grande crepa – il posto piú pericoloso dell’uni...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Anime scalze
  4. Uno
  5. Due
  6. Tre
  7. Quattro
  8. Cinque
  9. Sei
  10. Sette
  11. Otto
  12. Nota al testo
  13. Il libro
  14. L’autore
  15. Dello stesso autore
  16. Copyright