Era entrata nella sua vita da tre anni, due mesi e tre settimane, e dopo vari angoli del pianterreno aveva scelto lo sgabuzzino, di cui aveva finito per prendere possesso. Una bestia composta da tubolari d’acciaio cromati verdi e bianchi, cinghie di plastica e cuoio, un piccolo contachilometri digitale al centro del manubrio. In quel quadrante di dieci centimetri per dieci, durante l’allenamento, Daniele riusciva a rimpicciolire tutto il suo universo.
Adesso il contachilometri segnava 14,7. Solo trecento metri alla fine. Ogni mattina, la stessa distanza. In tre anni, due mesi e tre settimane, la pancia non era scesa, l’idea di smettere di fumare non l’aveva nemmeno sfiorato, eppure pedalare sulla cyclette – quell’esercizio ottuso che non lo portava da nessuna parte – gli piaceva.
Al quindicesimo chilometro, Daniele si fermò alcuni secondi a riprendere fiato. Come sempre a fine allenamento, il sistema muscolare gli si era staccato di dosso. La testa era limpida. La ben nota sensazione di aver sudato via, assieme alle tossine, tutti i pensieri neri.
Andò di sopra con le gambe molli e s’infilò subito nella doccia. In pochi secondi il bagno si saturò di vapori. Oltre la lastra di plexiglas, Daniele intravedeva nello specchio a parete il fantasma del proprio corpo pallido. Una cosaccia ingovernabile perché priva di qualsiasi parentela con la sua volontà.
Lei apparve poco dopo, senza fare nessun rumore. Si spogliò, entrò nella doccia, lo abbracciò e solo allora anche il suo corpo prese una consistenza reale. Sapeva ancora di sonno. Daniele le chiese scusa per averla svegliata e lei gli sfiorò le labbra con un dito, quasi qualcuno potesse sentirli là dentro. Mentre l’acqua le scorreva addosso, si abbassò sul petto di lui per baciargli il capezzolo destro.
Significava che Daniele doveva a sua volta inginocchiarsi con una spugna insaponata e lavarla. Percorrere quella persona che conservava intatto il carattere lucertolesco che lui aveva intuito per la prima volta tanti anni prima, vedendola sulla soglia del bar in pantaloni neri, camicia bianca e cartellina di plastica sottobraccio.
Gabriella non aveva fatto carriera. Del resto non le interessava, perché la carriera all’Ente Parchi voleva dire paradossalmente stare in ufficio in mezzo alle carte. Mentre quello che interessava a lei erano i boschi. E di riflesso a Daniele interessava la geografia del suo corpo, che ormai conosceva alla perfezione eppure ogni volta lo sorprendeva. Come adesso che ricalcava con la spugna il solco arcuato della sua spina dorsale. Una voglia sul fianco che credeva di aver scordato, la cicatrice sbiadita di una vaccinazione sulla spalla destra. E poi il mistero di quell’insenatura in mezzo alle natiche, il fiore molle sotto, il buco del culo stretto: ogni volta che la vedeva nuda, Gabriella era nuda in un modo diverso.
Era stato bello invecchiare accanto a una donna. Alla decadenza dell’età si risponde col cinismo e con un certo rassegnato disprezzo, due atteggiamenti che Daniele aveva frequentato negli anni orientandoli innanzitutto verso se stesso. Invece con Gabriella era stato diverso. C’era qualcosa di sinceramente commovente nel modo in cui lei, anno dopo anno, si mostrava sempre piú disarmata. La maturità sembrava consegnare a lui il corpo inerme di Gabriella, a Daniele in persona, come un patto di mutuo soccorso. Sí, era stato bello, pensò, mentre finiva di insaponarle il culo e si sollevava e l’abbracciava, e sentiva di sciogliersi con lei sotto il getto dell’acqua calda.
Come al solito Gabriella uscí per prima dalla doccia, e si avvolse nell’accappatoio verde. Poi uscí Daniele, che si avvolse nel grande asciugamano di spugna blu, si sedette sulla tazza e la osservò mentre si passava il phon sui capelli.
– Devi cambiare queste piastrelle, – gli disse. – Sembra il bagno di una stazione.
– Non è casa mia.
– Lo dici da tredici anni.
Si sorrisero attraverso lo specchio appannato. La verità è che Daniele ci stava pensando da qualche settimana, ed era arrivato alla conclusione che doveva parlarle della decisione che aveva preso. Forse quello era il momento giusto.
– Spegni un secondo.
Lei spense il phon. Daniele cercò di mettere insieme le parole ma era difficile.
– Devi dirmi qualcosa?
Ancora piú difficile, con lei che lo guardava. Poteva leggergli ogni singola sillaba che gli passava in testa.
– Pensi sempre troppo alle cose e poi finisce che non le fai. Dillo e basta.
Lui fece uno sforzo, credette quasi di riuscirci, ma prima che ci riuscisse davvero sentí il telefono che suonava nell’altra stanza. – Scusa un attimo.
Daniele scivolò nel corridoio con l’asciugamano avvolto intorno alla pancia. Erano le otto meno venti. Prese la chiamata. Che fu telegrafica. Attaccò, tornò in bagno col telefono in mano. Gabriella lo stava aspettando nella stessa posizione, di fronte allo specchio, i capelli umidi e gli occhi interrogativi.
– Ne parliamo piú tardi, – le disse. – Devo scappare.
Gabriella rispose che piú tardi doveva scappare lei. Daniele non protestò, in qualche modo faceva parte dei patti. Abbozzò dicendo che di quella cosa ne avrebbero discusso la prossima volta, anche se nessuno dei due sapeva quando sarebbe stata la prossima volta. Faceva parte dei patti pure questo. Le diede un bacio veloce sulle labbra, fingendo di non accorgersi che era delusa. Uscí, chiuse la porta del bagno. Seminudo, infreddolito con l’asciugamano sgocciolante intorno ai fianchi, esitò davanti alla porta chiusa per cinque, dieci, quindici secondi. Sentí il phon che ripartiva, e si rassegnò a muoversi sul serio.
Si vestí in fretta. La calzamaglia d’ordinanza, i jeans sdruciti, il maglione di lana, il giubbotto imbottito di piuma d’oca. Il berretto col paraorecchie, i guanti in tasca. Si allacciò gli scarponi e scese di sotto. Nella penombra degli scuri ancora chiusi galleggiavano le otto zattere bianche dei tavoli già apparecchiati dalla sera prima. Il riscaldamento sarebbe partito di lí a mezz’ora, ma l’ambiente tratteneva ancora un po’ il calore delle due grandi stufe a legna che si spegnevano durante la notte.
Prima di uscire, Daniele cambiò l’acqua nella ciotola vicino alla porta e versò un paio di manciate di crocchette. Bastò quello per svegliare il cane giallo che gli venne incontro dalla sua cuccia in fondo alla sala. Non era cresciuto granché, in compenso, ora che era vecchissimo, il pelo si era imbrunito fino a un bel colore autunnale, tra la sabbia e l’ocra. Quando correva in casa era ancora piú buffo: tentava di pattinare sulle zampette magre ma perdeva di continuo l’equilibrio.
Daniele si accovacciò, il cane gli saltò in grembo. Lui gli bisbigliò di non fare casino e l’animale rispose uggiolando. Lo strofinò dietro le orecchie, dove sapeva che gli piaceva, poi si avviò. Non si era mai capito cosí bene con nessuno in vita sua come con quel cane.
Subito fuori, un’onda bianca e gelida. La parte peggiore erano sempre i primi istanti, col vento freddo in faccia, e miliardi di spilli aguzzi che si ficcavano sottopelle. Nonostante il giubbotto imbottito, la calzamaglia e tutto il resto, il gelo riusciva a pungere dentro.
Scese dal patio, gli stivali affondarono nella neve fino alla caviglia. Durante la notte ne era caduta molta piú di quanto avesse previsto il meteo. Era compatta e farinosa e in alto, nelle fronde dei faggi, si raccoglieva come in mucchietti di luce raggrumata.
Superò il cedro, l’unico superstite, che ancora faceva ombra sull’insegna verniciata in rosso, all’ingresso di quello che una volta era il bar. Adesso, sotto l’immagine di una donna con un garofano tra i capelli, la scritta diceva: RISTORANTE ESPERANZA - SPECIALITÀ PESCE FRESCO.
Si diresse verso il pick-up grigio che aveva sostituito la Panda: un Nissan Navara diesel, preso usato d’occasione da un cliente del ristorante. Con le sue linee antiquate, il muso squadrato e l’ingombrante cassone posteriore, era un animale meccanico sorpassato dall’evoluzione. Lo parcheggiava sempre nello stesso punto, nella zona della spianata che affacciava sul declivio. La staccionata non aveva retto agli anni. Adesso il prato del doronico era la naturale prosecuzione della spianata: una distesa di neve compatta priva di asperità, che curvava morbidamente verso la faggeta di sotto.
– L’ha sentito anche lei?
L’uomo del camper gli andò incontro mentre Daniele spazzava la neve a manate dal tettuccio.
– Cosa?
– L’elicottero.
Il respiro dell’uomo si condensava nell’aria. Indossava un giubbotto in goretex che lo faceva sembrare il triplo di quello che era, un colbacco sintetico calcato sulla fronte, guanti da sci gialli e viola e il solito paio di occhiali da aviatore. Sotto quella bardatura, Daniele lo sapeva, la faccia dell’uomo del camper aveva perso l’asprezza che aveva all’inizio, quando si erano conosciuti. Qualcosa di giovanile era affiorato con gli anni, e dopo altri anni quel qualcosa era diventato infantile.
– Non ho sentito niente.
– Mi prende in giro?
Erano invecchiati a pochi metri di distanza – erano invecchiati praticamente a braccetto, ma non avevano mai smesso di darsi del lei.
– Niente di niente.
L’uomo spiegò che durante la notte un elicottero aveva sorvolato la faggeta. O forse erano stati piú elicotteri, a piú riprese. Sicché lui, che soffriva di insonnia cronica, non era riuscito a chiudere occhio. Il telegiornale del mattino aveva parlato di vari disastri in tutta la regione causati dalle precipitazioni: probabile che gli elicotteri andassero in soccorso di qualche incidente. Questa la risposta che l’uomo del camper s’era dato da solo. Ma Daniele sapeva che gli elicotteri lo allarmavano a prescindere. Allarmavano anche lui, perché gli riportavano alla memoria gli stessi brutti ricordi. Replicò che stava scendendo in paese e si sarebbe informato.
– Serve qualcosa?
– Sono a posto, grazie.
Erano anni che Daniele faceva la spesa anche per lui. E quegli stessi anni era come se fossero precipitati addosso a entrambi tutti insieme. Qualcosa di simile era successo al camper, ormai mezzo mangiato dall’edera selvatica.
Tra gli argomenti di conversazione preferiti dell’uomo del camper c’erano i piccoli acciacchi e disturbi dell’età, tra cui primeggiava appunto l’insonnia. A Daniele piaceva ascoltarlo perché anche lui, da qualche tempo, aveva l’impressione di riconoscere nel proprio organismo certe intenzioni segrete che sfuggivano al suo controllo: fastidiosi ritardi nelle defecazioni mattutine, timide emicranie, piccoli tremori immotivati delle mani e, giusto qualche mese prima, una slogatura alla caviglia che per guarire ci aveva messo un’eternità. Il tempo che passava era una forma di volontà personale che si annidava nei guasti del corpo e lí cresceva. Cosí aveva pensato Daniele, piú o meno. Ma poi si era reso conto che anche quello era un pensiero ozioso dettato dall’età, e lo aveva messo da parte.
– Ci vediamo –. L’uomo del camper gli diede le spalle e fece per andarsene. Prima che si allontanasse, però, Daniele tirò fuori le sigarette, se ne mise in bocca una e un’altra la offrí a lui. Lo faceva solo per cortesia, perché tanto già lo sapeva che l’avrebbe rifiutata. Difatti, l’uomo se ne tornò nel camper senza prenderla e...