Mentre guardavo fuori dal finestrino del treno con gli occhi umidi, riuscivo a stento a distinguere l’altopiano e il pozzo, eppure tutto quello che vedevo – la strada del cimitero che portava al paese, piantonata dai cipressi – si imprimeva nella mia mente come un dipinto che non avrei piú potuto dimenticare. Era come se il terreno dove avevamo lavorato fosse sul punto di perdersi nel cielo scuro. Da qualche parte, in lontananza, vidi abbattersi un fulmine. Quando ci giunse lo schianto del tuono, il treno aveva già imboccato la curva e il nostro altopiano, il pozzo e tutto il resto sparirono dalla vista. Per un attimo il mio cuore palpitò al ritmo della libertà. Una tranquillità inebriante, appena scalfita dal senso di colpa: ecco la sensazione che il rombo martellante del treno imprimeva nella mia anima.
Per un bel po’ mi guardai dentro, senza parlare con nessuno. Avevo preso le distanze dal mondo. Poiché il mondo era bello anche la mia anima doveva esserlo, decisi. Se con il mio comportamento avessi finto di non sentirmi in colpa e, addirittura, di non aver mai commesso quel gesto, pian piano sarei riuscito a dimenticarmene. Fu cosí che cominciai, dentro di me, a negare l’accaduto. Perché se uno fa finta di niente e nessuno se ne accorge, è come se quel fatto non si fosse mai verificato.
Il treno per Istanbul costeggiò fabbriche, magazzini, campi, attraversò torrenti, si lasciò alle spalle moschee, caffè e laboratori. Per sfuggire a un improvviso acquazzone, dei ragazzini che giocavano a calcio raccolsero frettolosamente le camicie e i sacchetti che avevano sistemato a mo’ di pali della porta e se ne andarono disordinatamente.
La terra arida che vedevo dal finestrino del treno si ritrovava all’improvviso bagnata da pozzanghere, corsi d’acqua e torrenti. In caso di inondazione, quelli che lavoravano in fondo ai pozzi non avrebbero fatto nemmeno in tempo ad accorgersene. Mahmut Usta era ancora lí dentro? Mi stava chiamando, forse? Gridava il mio nome a gran voce, lo sguardo rivolto verso l’alto?
Scesi dal treno alla stazione di Sirkeci e sotto la pioggia andai a comprare il biglietto del battello per Harem. Non partí subito perché c’erano pochi passeggeri: autisti, famiglie, bambini in lacrime, contenitori di yogurt zuccherato, camion che facevano echeggiare il rombo dei loro motori… Mi ero dimenticato quanto fosse piacevole stare in mezzo alla gente. Mi sentivo come un selvaggio catapultato nella civiltà. Gocce di pioggia mi colavano lungo i capelli, solcandomi la nuca, la schiena, ma io restavo immobile a guardare Istanbul scorrere lenta lungo le rive del Bosforo, sfocata per la pioggia sul finestrino. In lontananza cercai di individuare Beşiktaş, dietro il Dolmabahçe, l’edificio alto alle spalle della scuola preparatoria.
Dopo essere sceso dal battello, prima di prendere l’autobus, a un chiosco comprai un pacchetto di fazzoletti di carta e mi asciugai. Non mangiavo da ore, ma non pensavo né alle ciambelle, né ai panini con il döner kebap. Mi dissi che era piú o meno cosí che si dovevano sentire gli assassini.
Dentro di me avvertii ancora una volta quella seconda voce con cui discutevo sommessamente di questioni che non desideravo affrontare con altri. Ma non dovete pensare che fossi diventato matto. Alle tre presi l’autobus per Gebze. Ero davvero emozionato: avrei rivisto la mia cara mamma. Riscaldato dal sole che penetrava dal finestrino destro, finii per addormentarmi. Nei miei sogni mi trovavo in un paradiso caldo e soleggiato, libero da delitti e castighi.
Credevo che mia madre, vedendomi, mi avrebbe detto: «Che ti succede? Hai lo sguardo da assassino!» Di fronte al suo silenzio, mi resi conto che era solo una mia paura, cosí la abbracciai e la mia tensione svaní. Riconobbi il suo profumo. Il suo pianto iniziale poco dopo si trasformò in allegre chiacchiere. Fra le altre cose mi raccontò di essere soddisfatta della sua vita a Gebze. Mi stava preparando le polpette con le patatine fritte. Dopo avermi detto che i suoi unici crucci erano la nostalgia e la preoccupazione per me, ricominciò a piangere. E di nuovo ci abbracciammo.
– Sei cresciuto questo mese, sei grande, alto, – disse mia madre. – Sei piú maturo, un vero uomo. Vuoi che metta altri pomodori nell’insalata?
Camminai a lungo sulle colline nei dintorni di Gebze, da cui potevo ammirare la lontana Istanbul. A volte mi sembrava di vedere un terreno simile al nostro «altopiano», e mi agitavo al pensiero che vi avrei incontrato Mahmut Usta.
A mia madre non raccontai di essermi calato nel pozzo nonostante la promessa che le avevo fatto. Questo dettaglio non aveva piú importanza, visto che tanto ero di fronte a lei, vivo e vegeto.
Di mio padre non parlavamo. Sicuramente non l’aveva mai chiamata. Ma perché non cercava neanche me? Avevo rivisto tante volte nella mente la scena del nostro ultimo incontro, quando facevo scendere Mahmut Usta nel pozzo. Ero ancora convinto che lui stesse continuando pazientemente a scavare. Come un verme della frutta intento a bucare un’arancia enorme.
In centro a Gebze comprammo un nuovo televisore e una sveglia, con il denaro di mia madre. I miei guadagni, la somma che ero riuscito a mettere da parte di quanto mi aveva dato Mahmut Usta, li versai in banca. I primi tre giorni mi feci lunghe e rigeneranti dormite. Nei miei sogni m’inseguivano Mahmut Usta e degli uomini malvagi, ma nella realtà a Gebze non avevo nessuno alle calcagna. Il quarto giorno andai a Istanbul per iscrivermi alla scuola preparatoria all’università, quella di Beşiktaş, e cominciai a frequentare seriamente le lezioni.
Quando restavo da solo con me stesso, non riuscivo a togliermi dalla mente il mastro dentro il pozzo. Però, rivedere a Beşiktaş i miei vecchi amici del quartiere e i compagni di scuola, andare al cinema con loro, fare nuove amicizie, mi rendeva felice. Un paio di volte andammo in una bettola in centro, ma non riuscivo a fumare, né a bere rakı in tutta tranquillità come loro. Non mi importava che mi prendessero in giro perché mi ubriacavo trangugiando il rakı d’un fiato come un pivello, ma mi facevano andare su tutte le furie quando mi rinfacciavano che non avevo abbastanza barba, baffi e, forse, non ero nemmeno abbastanza uomo.
– Non è l’abito che fa il monaco, – dissi una volta. – Anche la gatta femmina ha i baffi.
Scoppiarono tutti a ridere. Queste frasi argute erano il frutto delle letture serali che facevo in libreria prima di andare a dormire, fino a che gli occhi non mi facevano male.
Ma sarebbe davvero potuto diventare uno scrittore, il ragazzo spietato che aveva abbandonato il mastro sul fondo del pozzo? Il secchio era davvero caduto accidentalmente? Continuavo a ripetermi che non era successo nulla. Ero distrutto per il troppo lavoro, per i continui rimproveri e per le notti insonni. Avevo fatto quello che avrebbe fatto qualunque «persona normale»: avevo lasciato tutto, avevo incassato le mie spettanze ed ero tornato a casa. Non sopportavo piú nemmeno la definizione di «persona normale».
Fra i miei amici del quartiere di due o tre anni piú grandi di me, con cui uscivo a bere e divertirmi, c’era chi frequentava l’Università di Istanbul, si era lasciato crescere barba e baffi e prendeva parte agli scontri con la polizia nelle manifestazioni politiche. Erano tutti orgogliosi di raccontare quello che gli capitava. Sapevo che nutrivano rispetto per mio padre. Tuttavia una sera, parlando della Donna dai Capelli Rossi, mi resi conto di provare una crescente rabbia nei loro confronti.
– Cem, hai mai tenuto per mano una ragazza? – mi aveva chiesto uno di loro, una sera.
Alcuni confessavano apertamente di essersi innamorati e di tenere una corrispondenza con una ragazza. Cosí anch’io raccontai che due mesi prima mio zio mi aveva mandato in un cantiere dalle parti di Edirne (un cantiere per qualcosa di piú importante della costruzione di un pozzo) e che lí, a Öngören, avevo avuto una storia d’amore con una donna. – Conoscete Öngören? – domandai ai miei amici al tavolo.
Erano esterrefatti perché da me non si sarebbero mai aspettati un discorso del genere. Uno mi disse che suo fratello aveva fatto il servizio militare a Öngören e che una volta era andato a trovarlo insieme ai genitori, ma pensava che fosse una cittadina piccola e noiosa.
– Lí mi sono innamorato di una donna meravigliosa, un’attrice teatrale con il doppio dei miei anni. Non la conoscevo nemmeno. L’ho vista per strada e mi ha portato a casa sua.
Mi guardavano tutti increduli. Era la prima volta che andavo con una donna, raccontai.
– Com’è stato? – mi chiese uno. – Bello?
– Come si chiamava?
– Perché non vi siete sposati? – domandò un altro, la sigaretta in bocca.
Quello che era andato a trovare il fratello che faceva il servizio militare disse: – Lí ci sono teatri tenda che danno spettacoli per i militari nel fine settimana, con tanto di ballerine del ventre, locali con musica dal vivo dove cantano le donne di strada e chissà cos’altro.
Quella sera mi resi conto che solo tenendomi alla larga dai miei vecchi amici del quartiere avrei potuto liberarmi dal doloroso senso di colpa che mi tormentava. Un po’ alla volta intuivo che il mastro e il pozzo mi avrebbero privato della gioia di vivere una vita normale fino alla fine dei miei giorni. Continuavo a ripetermi: «La cosa migliore è far finta di nulla».
Ma come avrei potuto fingere che nulla fosse successo? Con gli occhi della mente rivedevo l’immagine di Mahmut Usta dentro il pozzo, il piccone in mano, che continuava a scavare il sottosuolo senza sosta. E se lo faceva, vuol dire che stava bene e che la polizia non stava investigando sull’omicidio.
Qualcuno – Ali, per esempio – avrebbe trovato il cadavere di Mahmut Usta, il procuratore avrebbe aperto un’inchiesta, avrebbero comunicato l’accaduto alla polizia di Gebze (in Turchia per questo ci sarebbero volute settimane), mia madre avrebbe avuto un mancamento a forza di piangere per la tristezza, quindi avrebbero avvisato il commissariato di Istanbul (per questo invece ci sarebbero voluti mesi); poi, un giorno, mi avrebbero braccato alla scuola preparatoria o in libreria e mi avrebbero arrestato. La cosa migliore che potevo fare era trovare mio padre e parlarne con lui. Mio padre, però, non mi cercava. Da questo potevo dedurre che, se pure fosse stato presente, non avrebbe potuto aiutarmi. E poi, se glielo avessi raccontato, avrei ingigantito il problema. Finché la polizia non avesse suonato alla porta della scuola per arrestarmi, ogni giorno che passavo libero avrebbe piacevolmente ribadito la mia innocenza e il fatto che fossi uno come tanti, ma sarebbe anche stato uno degli ultimi giorni di una banale esistenza da innocente, come quella di tutti. A volte alla libreria Deniz scambiavo per poliziotto in borghese un cliente che, mentre mi chiedeva in quale scaffale trovare un libro, mi puntava con lo sguardo severo. A quel punto volevo confessare, tutto e subito. Altre volte invece, pensavo che il mastro si fosse salvato uscendo dal pozzo e mi avesse dimenticato, nonostante l’odio nei miei confronti.
Ci sapevo fare in libreria, mi occupavo di tutti e di tutto. Preparavo le vetrine in modo assai originale, sceglievo i libri e ideavo nuove promozioni. Piacevano tanto a Deniz, il quale mi disse che anche nelle notti d’inverno mi sarei potuto fermare a dormire sul divano e, addirittura, la sera avrei potuto usare quella piccola stanza come sala di lettura. Anche se mia madre si dispiaceva perché ero lontano da Gebze e da lei, io ero certo che se avessi continuato a frequentare il liceo Kabataş e a studiare alla scuola preparatoria di Beşiktaş, avrei passato l’esame d’ammissione con un ottimo punteggio.
Se da una parte non volevo deludere mia madre, dall’altra sapevo che quell’esame avrebbe rappresentato la svolta piú importante della mia vita: perciò studiai come un mulo sia al liceo, sia alla scuola preparatoria, imparando a memoria tutte le formule. Nei momenti di studio piú impegnativi tornava a rivivere in me l’immagine della Donna dai Capelli Rossi, calda come il sole, e ripensavo al colore della sua pelle, al suo ventre, ai suoi seni e al suo sguardo. Piú d’ogni cosa erano proprio i compiti a casa che mi aiutavano a comportarmi come se niente fosse accaduto.
Quando compilai la documentazione per l’esame di ammissione, elencando le mie preferenze per l’università, ero a Gebze, e mia madre era lí con me. Naturalmente, pretese che come prima scelta indicassi medicina. Temeva fortemente che il mio sogno di diventare scrittore mi avrebbe ridotto alla fame, e che avrei finito per avere problemi politici, proprio come era successo a mio padre.
In realtà, dopo aver abbandonato il mastro nel pozzo, il mio sogno di diventare scrittore stava svanendo. Per me, mia madre desiderava fortemente anche una carriera da ingegnere. E allora segnai anche ingegneria geologica. Si era accorta che il lavoro al pozzo mi aveva cambiato nel profondo. A un certo punto credetti di capire che, quando mi diceva «Sei maturato», intendesse che avevo una macchia scura nell’anima.
Nell’estate del 1987 mi comunicarono che ero stato ammesso alla facoltà di Ingegneria geologica presso l’Università tecnica di Istanbul, a Maçka. La sede dell’università, costruita centodieci anni prima, in origine fungeva da caserma e arsenale dell’esercito dell’impero ottomano, ormai al tramonto. Nel 1908, con l’arrivo a Istanbul da Salonicco dell’esercito dei Giovani Turchi che deposero dal trono Abdülhamit, le forze che parteggiavano per il sultano erano entrate in azione e i luoghi dove ora studiavamo erano diventati campi di battaglia. Leggevo queste cose sui libri e poi le raccontavo ai miei compagni di corso. Le aule con i soffitti alti, le scale che si estendevano all’infinito, i corridoi dove ogni cosa echeggiava, esercitavano su di me un certo fascino, ed ero contento che Beşiktaş e la libreria Deniz fossero alla fine della discesa, a soli dieci minuti.
Alla libreria, da semplice commesso fui nominato direttore. Incapace di rassegnarsi al fatto che non sarei diventato uno scrittore, il titolare aveva accettato comunque che studiassi geologia: certi ingegneri diventano ottimi romanzieri, mi diceva. Quasi tutte le sere leggevo nel dormitorio dell’università.
Fingere che non fosse accaduto niente equivaleva a dimenticare la storia dell’Edipo re di Sofocle. Riuscii a tenere a freno la mia curiosità e a trattenermi fino al terzo anno di università, quando un giorno mi capitò fra le mani quel vecchio volume sull’interpretazione dei sogni. Fu allora che scoprii che l’autore di quel testo era Sigmund Freud. Piú che su Sofocle verteva sul desiderio, che Freud considera innato in ogni uomo, di uccidere il padre.
Qualche mese dopo, fra i libri di secon...