Il vecchio era in piedi davanti alla finestra del sesto piano, alla distanza impostagli dal soldato. Fuori, un buio inconsueto ammantava la città; dentro, la poca luce della lampada da tavolo si rifletteva debolmente sulla spessa montatura metallica degli occhiali. Aveva un aspetto piú sciatto di quanto il milite non si fosse aspettato: l’abito era tutto sgualcito sul dietro e i radi capelli color sabbia si levavano in ciocche scomposte. La postura, però, trasmetteva sicurezza; si avvertiva persino una certa aggressività nel modo in cui il piede sinistro poggiava saldo sulla riga di vernice dipinta sul pavimento. Con il capo appena reclinato, il vecchio ascoltava la protesta delle donne snodarsi attraverso il centro gremito di quella capitale in cui per tanto tempo aveva spadroneggiato. Sorrise fra sé.
Si erano radunate, in quell’umida sera di dicembre, di fronte alla cattedrale di San Michele Arcangelo, un luogo di raccolta sin dai giorni della monarchia. Molte di loro erano prima entrate in chiesa ad accendere un cero: poggiate all’altezza delle spalle, le candele erano sottili e di color crema e, per via della scarsa qualità o per il calore che si sprigionava dalle fiammelle circostanti, avevano la tendenza a ripiegarsi su se stesse, lasciando cadere goccioloni di morbida cera d’api nel vassoio sottostante. Poi, le donne, ciascuna con le proprie armi di protesta, uscirono sulla piazza della cattedrale il cui accesso, fino a poco prima, era stato loro vietato da un cordone di soldati agli ordini di un ufficiale senza gradi visibili sulla giubba di cuoio. In questo settore l’oscurità era persino piú fitta poiché solo un lampione su sei diffondeva il proprio esausto bagliore. Ora molte donne avevano in mano candele piú robuste, piú bianche. Per risparmiare sui fiammiferi, ciascuna veniva accesa con la fiamma di un’altra.
Sebbene qualcuna si fosse messa il giaccone di finta pelliccia, la maggior parte si era vestita secondo le istruzioni ricevute. O meglio, non si era vestita affatto: sembrava arrivare direttamente dalla cucina di casa. Portavano grembiuli su grossolani vestiti fantasia e i maglioni pesanti di solito indossati per difendersi dal freddo degli alloggi senza riscaldamento e ora dal gelo della piazza. Nella tasca profonda del grembiule – o del cappotto per chi portava un abbigliamento piú formale – ciascuna aveva infilato un voluminoso utensile da cucina: un coperchio di alluminio, un cucchiaio di legno, qualcuna addirittura un acciaino o persino un forchettone come se, a un certo punto, si prevedesse il bisogno di comunicare un segno di minaccia.
La protesta cominciò alle sei in punto, l’ora in cui le donne si trovavano di solito in cucina a preparare la cena, per quanto l’espressione avesse ultimamente preso a riferirsi a un malsano intruglio a metà fra un brodo e uno stufato, messo insieme alla bell’e meglio con un paio di rape, un collo di gallina – se erano state cosí fortunate da rimediarne uno –, qualche foglia, acqua e pane raffermo. Quella sera non avrebbero mescolato l’indegna brodaglia con i mestoli e i cucchiai che si erano ficcate in tasca. Quella sera, l’una di fronte all’altra, avrebbero impugnato i loro arnesi agitandoli non senza un fremito di compiacimento. Poi tutto ebbe inizio.
Nel momento in cui le organizzatrici, un gruppo di sei donne del complesso Metallurgico (blocco 328, scala 4), si allontanavano dalla piazza lastricata muovendo i primi passi lungo il viale asfaltato percorso dal sinistro luccichio dei doppi binari del tram, il primo mestolo di alluminio andò a percuotere una pentola. Per qualche istante, mentre altre donne si avvicinavano con rispettosa timidezza, il ritmo del rumore si mantenne lento, scandito, una spettrale marcia funebre cucinaria. Ma non appena la maggior parte delle dimostranti rispose all’appello, quei primi momenti di ordine solenne dileguarono, e i silenzi furono riempiti dal suono di nuovi colpi provenienti dalle retrovie, finché ogni spazio della cattedrale, dove ormai la gente si riversava senza indugio per rivolgersi a Dio in silenziosa preghiera, fu colmato dal fracasso domestico e insistente.
Non era difficile, per chi partecipava alla protesta, discernerne da vicino le note diverse: il riecheggiare sbiadito e monotono dell’alluminio contro l’alluminio, il suono piú acuto e marziale del legno contro l’alluminio, il richiamo inaspettatamente scialbo del ferro colpito dal legno e il clangore assordante, come di lavori in corso su una strada, dell’alluminio contro il ferro. Il rumore si dilatò, addensandosi intorno alle donne che si mettevano in marcia, un baccano inaudito in città, reso persino piú potente dai suoi tratti inconsueti e dalla totale mancanza di ritmo; era insistente, oppressivo, piú straziante di un lamento funebre. Al primo incrocio, un gruppo di ragazzi urlò una serie di oscenità sollevando avambracci tesi, ma l’enorme baraonda li rese paradossalmente muti come pesci e i loro insulti non si levarono al di sopra della luce itterica dei lampioni.
Le organizzatrici si erano aspettate che dal complesso Metallurgico affluisse al massimo qualche centinaio di donne. Al contrario, il rumore incontrollato che seguiva le curve lustre del tram n. 8 proveniva da diverse migliaia: dal complesso Gioventú, dallo Speranza e dall’Amicizia, dallo Stella Rossa, dal Gagarin e dal Vittoria Futura, persino dal Lenin e dall’Armata Rossa. Le donne munite di candela la stringevano nell’incavo del pollice, usando le altre dita per reggere pentola o padella, e quando il cucchiaio o il mestolo impugnato nell’altra mano colpiva il tegame, la fiamma si agitava schizzando cera sulle maniche. Non avevano striscioni, non urlavano slogan: quella era roba da uomini. Preferivano dispensare un’intera batteria di rumori metallici e una distesa di volti gialli come girasoli, illuminati dalle candele che tremolavano a ogni colpo di grancassa.
Provenendo da via Stanov, le donne rifluirono in piazza del Popolo dove i ciottoli umidicci del selciato si fecero beffe di loro, presentandosi come un enorme vassoio di pagnotte lucenti. Raggiunsero il mausoleo basso, a prova di bomba, che ospitava le spoglie imbalsamate del Primo Condottiero: il corteo non si fermò lí, senza aumentare d’altro canto neppure il volume del suono. Attraversò la piazza di fronte al Museo archeologico, con una certa audacia costeggiò la sede requisita della Sicurezza di stato – dove frattanto il vecchio si stirava, sorridendo e allungando un piede fino alla riga bianca – e infine procedette intorno all’elegante palazzo neoclassico che fino a epoca recente era stato il quartier generale del Partito comunista. Molte finestre a pianterreno erano oscurate da pannelli di truciolato, mentre a un angolo dell’edificio un incendio doloso – circoscritto per quanto travolgente – aveva lasciato una chiazza nera che si estendeva dal secondo al settimo piano. Le donne non si fermarono nemmeno qui, tranne qualcuna, che si concesse una breve sosta per sputare; tale abitudine si era sommessamente diffusa un anno prima per trasformarsi in breve in un’esigenza nazionale, tanto da richiedere a fine giornata l’intervento dei pompieri che ripulissero con l’acqua i ciottoli. Al momento, tuttavia, pareva avere meno seguito. Ciononostante, il numero di donne che decise di esprimere cosí il proprio disprezzo per il Partito socialista (ex comunista) fu sufficiente a provocare scivolate sui sassi schiumosi alla retroguardia del corteo.
L’ostinato rumore casalingo, il lamento della nazione e delle pance vuote oltrepassò lo Sheraton, l’hotel in cui alloggiavano i ricchi stranieri. Con un’aria di attesa, alcuni ospiti erano affacciati alla finestra, reggendo i ceri che qualcuno aveva consigliato di procurarsi, candele di qualità superiore rispetto a quelle che illuminavano le strade. Quando compresero le ragioni della protesta, alcuni si ritirarono nei propri appartamenti a riflettere sul cibo che avevano svogliatamente lasciato nel piatto della colazione: cubetti di formaggio bianco locale, qualche oliva, mezza mela, una bustina di tè usata una volta sola. Il ricordo di quello spreco sconsiderato accese in loro un fugace senso di colpa, la fiammata di un cerino.
Alle donne mancava ormai un breve tratto prima di arrivare alla sede del Parlamento, dove si aspettavano di essere bloccate dalla milizia. E invece i soldati, scoraggiati dal frastuono che avanzava, si erano già messi al riparo dietro i grandi cancelli di ferro che avevano sprangato, lasciando fuori due sentinelle soltanto, una per garitta. Costoro erano giovani coscritti delle province orientali, con le teste brutalmente rasate di fresco e una scarsa comprensione delle vicende politiche: ciascuno reggeva una mitraglietta di traverso sul petto e puntava lo sguardo al di sopra delle teste delle donne, come in contemplazione di un lontano ideale.
Ma le donne, a loro volta, ignorarono i soldati. Non erano venute a scatenare uno scambio di insulti, né a provocare e nemmeno anelavano al martirio. Si fermarono a una decina di metri dalle garitte e chi stava dietro evitò di accalcarsi pericolosamente in avanti. La loro condotta disciplinata contrastava con la fragorosa cacofonia che producevano, con quel baccano martellante, dirotto, bellicoso che raggiunse il suo apice quando le ultime dimostranti si riversarono sulla piazza. Il rumore si insinuò oltre la cancellata prospiciente il Parlamento, risalí l’ampia scalinata e si abbatté contro le doppie ante dorate del portone. Ignorando i protocolli e le procedure che regolano il dibattito, fece irruzione nella Camera dei deputati, imponendosi in una discussione sulla riforma terriera e costringendo un esponente del Partito dei coltivatori agricoli a interrompere il proprio intervento e tornare a posto. Ben illuminati grazie a una riserva di energia elettrica destinata alle emergenze, i parlamentari si sentivano per la prima volta a disagio a causa della loro visibilità. Seduti in silenzio, si scambiavano talora un’occhiata, facendo spallucce a quella protesta gigantesca che, pur non esprimendosi a parole, non mancava di argomenti e invadeva il loro posto di lavoro. Fuori le donne percuotevano tegami e padelle con cucchiai e mestoli: legno contro alluminio, legno contro ferro, alluminio contro ferro, alluminio contro alluminio. Le candele si erano consumate e la cera gocciolava bollente sui pollici che le stringevano, mentre il baccano e le fiamme tremolanti non accennavano a estinguersi. Né vi fu alcun indizio che si volesse fare ricorso alle parole, poiché per mesi e mesi non avevano sentito altro: parole e ancora parole, parole immangiabili e indigeste. Affidavano la loro protesta al metallo, sebbene non lo stesso di norma utilizzato in simili occasioni, quello che si lasciava alle spalle una scia di martirî. Parlavano mute: argomentavano, discutevano, invocavano, riflettevano, senza una parola, e senza una parola supplicavano e imploravano. Continuarono per circa un’ora e alle otto in punto, come in risposta a un segreto segnale, cominciarono a evacuare la piazza di fronte al Parlamento. Nondimeno, il rumore non cessò; anzi, l’ampia curva sonora si levò come un bue sulle zampe posteriori. Poi le dimostranti presero a disperdersi; dal centro della città si diressero verso i complessi residenziali edificati oltre i grandi viali: il Metallurgico e il Gagarin, lo Stella Rossa e il Vittoria Futura. Il clamore risuonò lungo i corsi piú ampi e tintinnò nei vicoli, attenuandosi man mano che si allontanava. In rare occasioni, agli angoli delle strade, tornava a divampare con foga improvvisa e metallica, come la percussione di due piatti da quattro soldi.
Seduto a tavola al sesto piano della sede requisita della Sicurezza di stato, il vecchio mangiava una braciola di maiale e leggeva l’edizione del mattino di «Verità». Udí la risacca del clamore proveniente dal quartier generale del Partito socialista (ex comunista). Interruppe la cena per prestare attenzione al fracasso e al suo lento smorzarsi. Il volto del vecchio era illuminato dal chiarore diffuso della lampada sulla scrivania. Il soldato, di guardia a tre metri di distanza, pensò che Stoyo Petkanov sorridesse per una vignetta del giornale.
Peter Solinsky e la moglie Maria vivevano in un piccolo appartamento del complesso Amicizia (blocco 307, scala 2) a nord dei grandi viali. Al momento della nomina come Pubblico Ministero, gli avevano offerto un alloggio piú comodo che lui aveva tuttavia rifiutato. Quantomeno per ora: gli sembrava come minimo inopportuno accettare dal nuovo governo dei favori tanto manifesti proprio mentre il suo predecessore era accusato di aver fruito di incalcolabili privilegi. A Maria pareva un’assurdità: era inaccettabile che un Pubblico Ministero vivesse in una topaia di tre misere stanzette come un semplice docente di giurisprudenza, aspettandosi per giunta che la moglie si spostasse in autobus. Per non parlare del fatto che, poco ma sicuro, a un certo punto i servizi di sicurezza avevano piazzato qualche microspia nell’appartamento. Ne aveva avuto abbastanza che le loro conversazioni e, chissà, forse persino le loro rare prestazioni amorose fossero ascoltate in un lurido scantinato da qualche insolente babbeo.
Solinsky aveva ordinato la perquisizione dei locali. I due uomini in giubbotto di pelle scuotevano la testa con aria d’intesa mentre svitavano la cornetta del telefono; ma la piccola scoperta non bastò a Maria, che si sentiva ancora insoddisfatta. Sta’ a vedere che erano stati proprio loro a nasconderla lí dentro, aveva commentato. E ovviamente c’era dell’altro: la microspia era stata installata nel telefono per essere ritrovata e lasciare l’illusione di essere ormai al sicuro. Ma qualcuno curioso di sapere di cosa parlava il Pubblico Ministero dopo una giornata di lavoro si sarebbe sempre trovato. Se le cose stanno cosí, aveva osservato Peter, qualunque nuovo appartamento in cui andassimo ad abitare sarebbe probabilmente...