Mostri che ridono
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Mostri che ridono

  1. 232 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Mostri che ridono

Informazioni su questo libro

Roland Nair e Michael Adriko sono soldati, spie, amici e bugiardi. In passato hanno combattuto insieme e ne hanno viste di tutti i colori...riuscendo anche a fare un sacco di soldi. Ora si ritrovano in Sierra Leone per farne ancora di piú, questa volta con l'uranio: ma un fulmine può cadere due volte nello stesso posto? «Il Dio in cui voglio credere ha la voce e il senso dell'umorismo di Denis Johnson».
Jonathan Franzen «Uno scrittore deve fare in modo che il lettore non possa mai ignorare il mondo in cui è immerso o credersi innocente, diceva Sartre: Johnson è quel tipo di scrittore».
«The New York Times» Roland Nair è di origini danesi ma ha passaporto americano ed è capitano di un'agenzia di intelligence della Nato: dopo undici anni torna a Freetown, in Sierra Leone, chiamato da un vecchio amico e compagno d¿armi, Michael Adriko. Adriko è un ugandese dal fascino magnetico e minaccioso, un soldato di ventura addestrato dagli israeliani, che ha combattuto tra l'Afghanistan e le tante guerre civili africane e che adesso è inseguito dall'esercito americano da cui ha disertato. Ma i berretti verdi non sono gli unici alle sue calcagna: russi, Mossad, trafficanti d'armi, tutti cercano Adriko, ma lui cosa cerca davvero? Il motivo per cui ha chiamato Nair sembra tanto pacifico quanto, conoscendo il tipo, assurdo: sta per sposarsi. La fortunata, se cosí si può dire, si chiama Davidia, una statuaria ragazza americana tanto sensuale quanto inconsapevole dell'inferno in cui sta per cacciarsi. I tre iniziano cosí un viaggio allucinante nel cuore dell'Africa equatoriale, tra Sierra Leone, Congo e Uganda, fino alle sorgenti del Nilo, per portare la nuova fidanzata nel paese d'origine di Adriko. Ma presto Nair capisce che i progetti di Adriko sono di tutt¿altra natura e, se possibile, piú letali di un matrimonio: o almeno è quello che si dice del traffico d'uranio. Ma anche Nair è lí per motivi tutt'altro che chiari: perché nel caos in cui il mondo precipita veloce come un aereo in picchiata, ogni doppio gioco ne nasconde altri tre. Denis Johnson ha scritto un libro incandescente, una spy story tra Conrad e Greene, un romanzo visionario e allucinatorio, attualissimo e crudele.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806224912
eBook ISBN
9788858424353

Quattro

Di nuovo online – lavato e sbarbato e rianimato da undici ore di sonno, piú tre tazze di caffè preparato all’americana – scrissi a Tina:
Sentirai i ragazzi della sezione 4, e sospetto che fino a un certo punto i tuoi soci ti abbiano già informata.
Mi dispiace di averti coinvolta, nient’altro. Però mi dispiace tanto.
Non voglio essere sbrigativo, solo breve. Non so per quanto tempo potrò usare il computer.
Intercetteranno questa comunicazione, presumo, e ne censureranno la metà… ma amici, per favore, permettetemi di dirle questo:
Ascolta, Tina, quando arrivano i ragazzi della sezione 4, ricordati che lavori per gli Usa, non per la Nato, non proprio. Ti raccomando di non parlare con loro. Anzi, non c’è motivo per cui tu non debba tornare subito a Washington. O anche a casa, in Michigan.
Grazie cari. Grazie di avermi lasciato trasmettere questo consiglio.
Voglio solo stare attento a non passare il segno con i padroni di casa. Chi sono? Be’, come diciamo noi yankee, cosa cazzo ne so? Amici dei servizi segreti. Cioè alleati della stupidità.
No, non voglio essere sprezzante. Sono stati cordiali. Dovrei cancellare l’ultima frase.
Ma poi li vidi arrivare e schiacciai INVIA.
Il pomeriggio del secondo giorno apparvero sul letto il mio zaino, i miei articoli da toilette e alcuni capi di biancheria appena lavati, anch’essi miei.
Ma non i miei vestiti. Sfoggiavamo ancora un pigiama di cotone-poliestere rosso, la stessa stoffa delle lenzuola bianche dei letti: non brandine, ma letti da caserma. E avevamo ancora i calzettoni, i calzoncini e le canottiere verde militare che ci avevano fornito. Ci era stato permesso di tenere le scarpe con cui eravamo arrivati.
Parlo al plurale riferendomi a me stesso e al mio compagno di tenda, un francese, Patrick Roux, non Patrice, un ometto con la faccia da passero e giganteschi occhiali dalla montatura di corno, la barba di cinque giorni e le unghie rosicchiate e un odore simile all’olio di lino… o forse il mio naso sensibile stava fiutando un impostore, una talpa, una spia?
Lí l’esercito congolese non poteva raggiungerci. Potevo dormire sapendo che non sarei stato svegliato dalla canna del fucile che mi avrebbe ammazzato; piuttosto mi aspettavo che un mattino avrei ricevuto, insieme a un’ottima tazza di caffè, un ordine di arresto con l’accusa di spionaggio.
La seconda sera, dopo cena, scrissi a Tina online:
Non ti offenderò con richieste di perdono. Anzi, spero che mi odi tanto quanto mi odio io. E non ho spiegazioni – niente che capiresti – a parte questo: l’altro giorno Michael mi ha chiesto se voglio davvero tornare a quella vita noiosa. Ho risposto di no.
Hanno controllato alcune dozzine di pagine che ho scritto a mano e me le hanno restituite. Nessuna di esse, a quanto pare, ostacola i loro piani per la dominazione del mondo. Se dovessi riuscire a venir fuori da questo casino, le trascriverò e te le trasmetterò, e un giorno potrei addirittura trovare il tempo di buttare giú un resoconto dei fatti, di tutto quanto, a cominciare da… 17 giorni fa? Davvero, solo 17 giorni?
Hanno chiarito alcune cose. Avrò un’ora al giorno di accesso a internet, solo per scrivere a membri del Niia (compresa te), e dovrò stare attento a non mettere a repentaglio quello che stanno facendo qui… Altrimenti? Mi porteranno via il pigiama rosso?
In questo momento posso dirti che sono ancora in Africa. Dietro spire di filo spinato nuovo e luccicante. Dietro barricate spesse quattro sacchi di sabbia e alte quasi quattro metri.
Suppongo che censureranno anche questo, ma per quello che vale: sono qui grazie a Davidia St Claire, ne sono certo, grazie ai suoi rapporti con il 10º gruppo delle forze speciali americane, nelle cui mani mi trovo adesso. Ieri credo di avere intravisto là fuori il loro impavido capo, il col. George Thiebes in persona. Il comandante dell’intero 10°. Sono sicuro che non è stato un caso.
Questa non è una prigione. Io e il mio compagno di tenda siamo gli unici con il pigiama rosso. La sistemazione della cinquantina di detenuti africani (vestiti di bianco) sembra improvvisata e temporanea: vengono raggruppati e poi liberati.
Sui nostri pigiami ci sono i nomi «Nair» e «Roux» – scritti a mano con pennarelli per la stoffa –, ma nessun membro del personale porta una targhetta di riconoscimento sull’uniforme, e neppure il nome stampinato sulla maglietta.
Roux si toglie spesso gli occhiali, anche durante i pasti, e passa parecchio tempo ad alitare sulle lenti e a strofinarle con un lembo della camicia. Mi parla solo in francese, ma arrota la r come uno spagnolo. Ho capito che è tornato da un viaggio d’affari a Marsiglia e ha scoperto che la moglie, una congolese, era sparita, e mentre andava in giro a cercarla ha fatto qualcosa, non sa cosa, che lo ha portato in conflitto con il sogno americano.
Nessuno mi impedisce di fare una passeggiata, ma ogni volta un paio di robusti soldati vengono a passeggiare con me.
Davidia deve essere ancora qui. Non ho motivo di credere che l’abbiano portata altrove.
Michael Adriko è altrove. Non è mai arrivato qui. È andato. Fuggito.
Dopo due giorni di interrogatori mi concessero una tregua.
Finii di trascrivere, offline, la lettera a Tina che avevo buttato giú a mano. I fogli di quaderno terminavano con questa rapida nota:
Ho dormito due ore con la faccia sul tavolo, e al mio risveglio ho trovato tutto cambiato. Il generale mi ha restituito lo zaino e i vestiti, e anche alcune centinaia dei miei quattromila dollari: tutti i pezzi da venti.
Michael è seduto nel cassone del pick-up del generale, con le mani slegate. Ho visto Davidia salire davanti. La giornata è cambiata. Se dovesse cambiare da cima a fondo, io…
C’è parecchio movimento… ora di andare…
… Va bene, Tina, eccoti servita. La mia ascesa da prigioniero terrorizzato a detenuto confuso.
Uno dei due, Michael o Davidia, deve aver parlato all’esercito congolese del legame fra Davidia e il 10° forze speciali. Ma solo di quello di Davidia, ne sono sicuro, perché quando Michael è scomparso nessuno ci ha fatto caso.
L’ultima volta che l’ho visto stavo salendo sul pick-up insieme al cosiddetto generale congolese e a Davidia. Michael si è allungato oltre la sponda, quasi fin dentro il finestrino, e mi ha dato una gomma da masticare. – Ecco. Tieniti impegnato.
Quella sera, quando siamo arrivati al nostro rendez-vous, è stato come un trucco magico. Durante un acquazzone, gli uomini nel retro del pick-up si erano coperti con un telone di plastica scuro. Quando lo hanno tolto, Michael era sparito.
Eravamo scortati da tre pick-up Nissan della fanteria americana, uguali a quello del nostro generale, ma verde militare anziché bianchi.
Mentre io e Davidia salivamo a bordo, uno dei ragazzi che ci avevano sorvegliati mi ha detto: – Newada Mountain.
– Sí?
– Io vengo da lí. Sono un kakwa.
– Sí?
– Il tuo amico è lí.
– Michael? Il mio amico africano?
– Sí. È andato a Newada Mountain.
– Oh! – ho risposto, comprendendo il nome per la prima volta. – New Water Mountain.
Quanto a oggi, Tina: nessuna attività da riferire. Ho passato la giornata nell’ozio, nel limbo, nella speranza. Ho fatto una proposta, e forse succederà qualcosa. Potremmo anche mettere in piedi un accordo. In ogni caso, non hanno detto di no, e mi hanno concesso un giorno libero. Mi farà comodo: mi gira ancora la testa, ieri notte ho dormito pochissimo e a cena non avevo appetito, dopo che il mio pranzo è stato interrotto da questo americano, wow, un vero stronzo – assegnato al Niia, suppongo, ma non ha voluto identificarsi – che è calato dal cielo.
Ero seduto a un tavolo con Patrick Roux, il mio compagno di tenda e presumibilmente di detenzione, quando abbiamo sentito atterrare quello che doveva essere l’elicottero di questo tizio nuovo, ma non ci abbiamo fatto caso, qui gli elicotteri vanno e vengono. Dieci minuti dopo è entrato e ha attraversato traballando la mensa come un animale ciccione dei cartoni animati, cioè in una condizione di personale goffaggine, come se reggesse in bilico una pila di piatti, mentre in realtà teneva solo le mani tese davanti a sé all’altezza del petto. Camicia a scacchi azzurra, pantaloni cachi, mocassini marroni. – Vieni a parlare con me –. E io ho risposto: – No –. Aveva la frangia castana e un’ampia pelata, le guance grasse e lo sguardo espressivo, arrabbiato. Abbastanza giovane, sui trentacinque.
Si è fermato di fianco al mio posto, appoggiandosi al tavolo e guardandomi dall’alto in basso finché un sergente e un soldato semplice mi hanno fatto alzare prendendomi per le braccia da dietro. Mentre mi conducevano fuori a passo di marcia, il tizio si è messo in fila, apparentemente per il pranzo.
Online, subito prima di schiacciare INVIA, aggiunsi:
I sold...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Mostri che ridono
  4. Uno
  5. Due
  6. Tre
  7. Quattro
  8. Il libro
  9. L’autore
  10. Dello stesso autore
  11. Copyright