Forse è a causa di una politica dove tutti vincono sempre, nessuno perde e nessuno va a casa, che l’espressione «rottamare», intuitiva e modernizzante sintesi del «fuori i vecchi e dentro i giovani», è diventata immediatamente popolare. Attraverso tweet sarcastici e un universo simbolico vagamente fumettistico – dinosauri, gufi, professoroni, rosiconi – la «rottamazione» si è imposta come narrazione, semplificata e autolegittimante, di una rottura radicale con il recente passato. Uno «storytelling» domestico dove il nemico è la classe dirigente obsoleta, i «giovani vecchi» di cui il paese è prigioniero. Per la generazione che aveva coniato lo slogan «non fidarti di nessuno che abbia piú di trent’anni», il brusco invito a uscire di scena appare un pesante e inatteso contrappasso. Ma letta però fuori dalla contrapposizione tra Matteo Renzi e una nomenklatura di partito ormai anemica, l’aspirazione a «rottamare» appare solo uno dei tanti sintomi di una situazione politica e sociale malata, un’iniezione di antipolitica dall’alto. Con buona pace dell’antica retorica sul merito e le capacità, l’essere giovani diventa, come è stato altre volte nella storia, dal Risorgimento al Sessantotto passando per il fascismo, una virtú. Anzi la virtú. Essere vecchi implica, all’opposto, incarnare la perdita dei valori, la corruzione, la sovrapposizione tra bene pubblico e affare privato. Tutte cose che, se riferite alle vicende italiane, hanno un loro fondamento. Meno, se si pensa, ad esempio, a Bernie Sanders, l’ultrasettantenne che ha infiammato i giovani americani nelle primarie del 2016.
La generalizzazione e l’assenza di ogni altro contenuto che non sia un taumaturgico ricambio generazionale finisce cosí per tradursi nell’ennesima comparsa dell’«uomo nuovo» nella nostra vicenda nazionale e del messaggio ingenuamente miracolistico che trascina con sé. «Pura paccottaglia postmoderna», ha commentato Luca Telese rimpiangendo la mancata emersione della sua generazione: «un maquillage che ha ringiovanito gli stili e i modi ma circoscritto l’appartenenza culturale a una slide. Questa la sola innovazione avvenuta». Di certo nell’età della «rottamazione» l’Italia non è diventata un paese piú amichevole con i giovani né si sono soddisfatte le sacrosante istanze di rinnovamento anagrafico.
Ma la diffusa popolarità dell’espressione è però la spia, o meglio la conferma, dell’irrisolto rapporto tra giovani e vecchi, l’enfatizzazione e insieme il nascondimento di un nodo cruciale del nostro vivere sociale.
Una ben piú radicale «soppressione dei vecchi» è invece prefigurata dai libri di due protagonisti dei movimenti giovanili degli anni Sessanta e Settanta, Franco «Bifo» Berardi e Régis Debray; nei quali il conflitto generazionale è visto come quello dei poveri contro i ricchi, dei senza diritti contro i privilegiati socialmente inutili, degli attivi contro i costosi decadenti. È la guerra alla vecchiaia già anticipata nel suo Diario della guerra al maiale dallo scrittore argentino Adolfo Bioy Casares. La lotta di classe si trasforma in lotta di classi d’età.
«Bifo», 67 anni, filosofo, agitatore culturale, tra i fondatori di «Radio Alice» di Bologna, ha scritto con Massimiliano Geraci Morte ai vecchi, un romanzo ambientato in un futuro non troppo lontano in cui bande di ragazzini, perennemente interconnessi, uccidono novantenni che continuano a lavorare e a occupare la scena sociale. Delle azioni terroristiche è sospettata una misteriosa Internazionale Precaria che ha cominciato la sua guerra contro lo strapotere dei vecchi, dei nati a metà del XX secolo «fisicamente solidi, ben nutriti e vaccinati contro le malattie che un tempo eliminavano gli esseri umani». Ma in realtà la vicenda è piú complicata. I motivi dell’odio verso quella ingombrante generazione sono molti e diffusi: «il senile disinganno di coloro che un tempo furono hippy ribelli è diventato una pietra al collo per l’intera umanità. La loro famelica voglia di vivere ha consumato tutto quello che era consumabile, nulla di nuovo sembra possibile, perché loro l’hanno già fatto». E la chiave di quanto accade è piuttosto da rintracciare nei cambiamenti nella psiche delle prime generazioni che ricevono piú informazioni da macchine che da altri esseri umani: ragazzi che non hanno nessuna vita sociale diretta ma solo filtrata da dispositivi digitali, condannati all’ipersfruttamento e alla precarietà. Fantascienza e analisi sociale sono intrecciate nel disegnare la sostanziale e deprimente verità di una reciproca ostilità generazionale, del fastidio reciproco che «si procurano due tipi di corpi che hanno dei cervelli che funzionano in maniera incompatibile».
Régis Debray, 76 anni, filosofo francese con un passato da guerrigliero con Che Guevara in Bolivia, ha pubblicato Fare a meno dei vecchi, un feroce pamphlet che rinvia a Jonathan Swift e alla sua «modesta proposta» di usare i bambini poveri come cibo per i ricchi risolvendo cosí alla radice il problema della povertà. Deficit fiscale dello stato, disoccupazione giovanile, freno all’innovazione e al mutamento rendono l’invecchiamento crescente della popolazione sempre piú insostenibile per la società contemporanea. Le politiche di welfare e i progressi medici hanno trasformato «l’umano avariato in un senior citizen dalle tempie argentate (ma avveduto, indipendente ed arzillo)» provocando la rottura di ogni equilibrio demografico e il cortocircuito tra le generazioni. Il costo sociale ed economico «del vecchiaccio postmoderno» è pura perdita, spreco di risorse. Al di là del giovanilismo di molti settantenni, «la ruota delle generazioni umane ha cominciato a girare all’incontrario. Il gap generazionale appartiene a tutte le generazioni, ma quello che abbiamo di fronte non ha equivalenti nel passato: non è esistenziale ma onto e tecnologico… siamo la prima società in cui la competenza acquisita è di ostacolo alle competenze da acquisire; in cui il giovane se la cava meglio del vecchio». L’unica soluzione razionale per evitare l’implosione della società è cominciare a pianificare la fine degli anziani, predisporre «Bioland», esclusivamente dedicate all’«happy end».
È una tesi che già Carl-Henning Wijkmark, giornalista e scrittore svedese, aveva prospettato oltre trent’anni fa nel romanzo La morte moderna: «abbiamo bisogno di un nuovo atteggiamento nei confronti della morte e dell’invecchiamento, e non solo da parte degli anziani. Deve tornare a essere naturale morire quando il periodo attivo è passato: dobbiamo risolvere il problema con gli anziani e non contro di loro». Anche lo scrittore inglese Martin Amis suggerisce l’eliminazione di massa degli over settanta per prevenire lo «tsunami d’argento»: città popolate da dementi decrepiti e l’inevitabile prossima guerra civile tra vecchi e giovani. Eutanasia sociale o guerra civile? Sia Berardi sia Debray si misurano in termini paradossali con la postmodernità, dove l’emergere della violenza, terroristica o di stato, come risposta alla crisi dei rapporti generazionali e all’«invasività» degli anziani, è segno della caduta nell’abisso delle relazioni sociali in comunità alienate ed estraniate da se stesse e controllate da un potere che perde ogni connotazione democratica diventando pura tecnica di dominio.
È passato meno di un secolo da quando il poeta irlandese William Butler Yeats immaginava la coincidenza tra vecchiaia ed eternità nel superamento della corporeità a favore dell’arte e della bellezza, e quindi la fuga verso una mitica e idealizzata Bisanzio:
Questo non è un paese per vecchi, [...]
Un uomo anziano non è che una cosa miserabile,
una giacca stracciata su un bastone, a meno che
l’anima non batta le mani e canti, e canti piú forte
per ogni strappo del suo abito mortale,
non v’è altra scuola se non lo studio
dei monumenti della sua magnificenza
e per questo ho messo vela sui mari e sono giunto
alla sacra città di Bisanzio.
Chi invece è davvero rottamato sono i vecchi poveri e malati. I rappresentanti di una vecchiaia odiosa e spregiata, la vecchiaia come massacro, affidata a uno stato sociale costoso e troppe volte assente. Insomma, parte di quella società dello scarto su cui piú volte si è soffermato Papa Francesco.
La vecchiaia brutta in Italia è costituita innanzitutto dai due milioni e seicentomila anziani non autosufficienti. E se è vero che sono i già poveri e i meno istruiti che si ammalano prima, la malattia diventa per tutti la porta di accesso all’esclusione. I malati di Alzheimer superano il milione, e crescono. Un nuovo caso ogni tre secondi nel mondo. Se la tendenza sarà confermata chi nasce oggi avrà una probabilità su tre di morire per demenza.
Una famiglia su dieci in Italia, ci dice il Censis, si trova ad affrontare l’emergenza di un vecchio non autosufficiente. Come dire che nonostante gli anziani, e in particolare i grandi anziani, assorbano piú di due terzi di tutte le risorse destinate ai servizi sanitari e socioassistenziali, il vero pilastro della «long term care», l’assistenza di tipo continuativo, sono i caregiver famigliari. Supportati da un esercito di 1 600 000 badanti. È la «generazione sandwich», composta in prevalenza da donne, strette tra il lavoro di cura rivolto ai genitori e quello dedicato ai figli o ai nipoti. Un welfare fai da te, informale, fondato spesso su una sorta di solidarietà costretta, non retribuito e che incide in modo diretto sui bilanci famigliari. Si calcola che i costi diretti per l’attività di cura ai malati di Alzheimer siano di circa 11 miliardi di euro, di cui oltre il 70 per cento a carico delle famiglie. Con l’effetto di aumentare le distanze sociali tra ricchi e poveri e negare l’eguaglianza dei diritti.
Avere un anziano non autosufficiente in casa è una delle cause di aumento del rischio di povertà. Sempre secondo il Censis quasi 650 000 famiglie hanno utilizzato tutti i propri risparmi o si sono dovute vendere la casa e indebitate per sostenere costi di assistenza privata. Piú di 120 000 famiglie hanno rinunciato alla badante perché non in grado di reggerne i costi. È un mondo chiuso nelle mura domestiche o delle istituzioni, segnato da sofferenze, fatiche, depressioni e anche, con numeri da vergogna civile, da abusi fisici, psicologici, economici. L’Organizzazione mondiale della sanità calcola, sottostimando il fenomeno, che in Europa siano oltre 4 milioni le persone anziane che subiscono maltrattamenti e violenze fisiche. Un mondo che spaventa e allontana, in cui è possibile precipitare ma a cui nessuno prepara e che in pochi cercano di prevenire.
Dove la famiglia non esiste o non è disposta a farsi carico dell’anziano malato, dove non ci sono le possibilità di assumere una badante, comincia il viaggio da «vuoto a perdere» nei reparti geriatrici, nei centri diurni o in case di riposo che in molti casi non hanno nulla da invidiare alla depressione istituzionalizzata degli antichi cronicari. Il rapporto con l’età è uno dei fattori che nel nostro tempo piú rivelano la diseguaglianza sociale, come aveva già capito Simone de Beauvoir. Percorrendo la lunga storia della medicina, la compagna di vita di Sartre ricostruisce gli studi sugli anziani. A dire il vero piuttosto scarsi fino all’Ottocento quando il mondo dei vecchi comincia a destare interesse; anche se dobbiamo attendere il Novecento perché si sviluppino le branche mediche della geriatria, che si occupa in modo specifico delle malattie senili e della gerontologia che studia il processo stesso dell’invecchiamento.
È la rivoluzione industriale la radice profonda del mutamento di condizione degli anziani. Quelli che appartengono ai ceti piú bassi, esaurita la loro capacità di lavorare, vengono abbandonati, mentre la classe dirigente si trasforma sempre piú in una gerontocrazia, composta da vecchi ricchi. Se si escludono quei pochi Paesi in cui il welfare funziona bene, negli altri l’anziano riesce a garantirsi una vecchiaia degnamente assistita nella sua fragilità soltanto se possiede un potere contrattuale, che può essere di natura politica o economica.
Quella dei vecchi non autosufficienti è la tristezza della morte in vita. Un viaggio che, in assenza di servizi adeguati, non è altro che un fissare il vuoto davanti a sé e dentro di sé. È davvero la vecchiaia senza riguardi, senza dignità e diritti. Sono i «rimbambiti» secondo un’antica espressione popolare; caricature del bambino, dell’infanzia avvizzita e senza avvenire. La tecnologia e la scienza mantengono in vita ma è una vita che coincide con la sopravvivenza biologica. La capacità medico-scientifica di procrastinare la morte procede piú rapidamente della possibilità di garantire condizioni di autonomia del malato, con il rischio di trasformarsi in accanimento terapeutico. Talvolta è l’ospedale stesso che fa male, come scrivono Carlo Vergani e Giangiacomo Schiavi: «L’anziano costretto a letto in alcuni casi con mezzi di contenzione, quando viene dimesso presenta il fenomeno del condizionamento, cioè un decadimento funzionale: un anziano su dieci ha perso la capacità di compiere una o piú attività della vita quotidiana, come il muoversi, il lavarsi, il vestirsi, il nutrirsi, l’andare in bagno. Varcare la soglia dell’ospedale non di rado oggi è l’inizio e non la fine del percorso».
Se non si fanno avanti parenti intenzionati ad assumersi l’onere di cura, le risposte saranno solo l’ulteriore ospedalizzazione o altre forme di istituzionalizzazione. Nella logica della nostra sanità sembrano non esistere alternative. Sempre Carlo Vergani scrive: «il collasso del sistema è nei numeri. In una società che invecchia serve un nuovo approccio politico e sanitario. Si deve cambiare. Il problema è spendere meglio elevando la qualità della vita degli anziani. Oggi il grosso della spesa sanitaria si concentra sull’ultima parte della vita, ma si spende per la malattia acuta e il ricovero in ospedale, non per una rete di assistenza e di servizi sul territorio». Non si tratta di tagliare la spesa ma di ridurre sprechi e cattiva organizzazione.
Oggi in Italia oltre 300 000 vecchi malati vagano in un limbo indefinito tra incurie e negligenze. Fantasmi sociali, spesso estranei anche a se stessi, che devono essere allontanati dagli sguardi pubblici, considerati solo per il costo che portano in un sistema poco capace di riformarsi. La solitudine estrema, degradante, di chi è abbandonato in preda ai propri spettri o in un letto di contenzione, è forse l’immagine piú terrificante della vecchiaia rimossa. E andrà peggio: la parte di welfare coperta dalle famiglie è destinata a ridursi in modo consistente per il minor numero di figli, il progressivo crescere degli anziani a fronte degli adulti e la riduzione delle pensioni. Uno scenario su cui dovrebbe riflettere anche chi vive come «invasione» l’afflusso di immigrati nel nostro paese. La xenofobia e la chiusura non potranno che contribuire a un futuro peggiore.
Lo scenario già scritto è quello di un numero sempre piú alto di pensionati, ma con redditi nettamente inferiori rispetto agli attuali e l’onere della cura e dell’assistenza consegnato a una sempre piú limitata popolazione lavorativa che non avrà i mezzi necessari per fare fronte autonomamente a questo compito. I giovani precari e sottoccupati di oggi saranno gli ultimi ad aver annusato il profumo del benessere e i primi costretti ad affidarsi solo a loro stessi.
La vecchiaia brutta è quella di 900 000 over sessantacinque in povertà assoluta. Cioè che non possono permettersi fabbisogni essenziali, alimentazione adeguata, riscaldamento, vestiti. Anche loro sono dei rottamati. Nell’indigenza possono poi cadere i sei milioni di italiani con una pensione inferiore ai cinquecento euro. Basta una malattia, una spesa imprevista o lo sfratto, e il precario equilibrio salta. Una quotidianità vissuta ai confini della marginalità, resa ancora piú difficile dalla crisi economica, che ben poche volte trova risposta nei servizi assistenziali dei comuni. Da qui la rincorsa a ridurre i bisogni primari e, in estremo, l’affidarsi alla beneficenza delle parrocchie o delle associazioni caritatevoli, alla distribuzione gratuita dei pasti o dei vestiti. Spesso con quel senso di vergogna che deriva dalla perdita di precedenti status sociali, dall’usufruire non piú di diritti ma di elemosine. Dal dover chiedere. Sono persone che appaiono e si sentono scomode, superflue, inutili. Non lavorano e non consumano. Quasi lo stereotipo sociale del vecchio fosse introiettato fisicamente e si coniugasse con la fatica di vivere. Pesa poi, anche se è una condizione che non rinvia automaticamente al disagio, l’indebolirsi, soprattutto nelle grandi città, delle reti famigliari o amicali. Trenta over sessantacinque su cento vivono soli. In larga parte donne vedove. La vecchiaia povera coincide con l’isolamento fisico e il vuoto relazionale, l’assenza di socialità. Con la vita per strada, di cui nessuno si sente chiamato a farsi carico. Con l’alcolismo. E in casi estremi anche con il mettere fine alla propria vita. A che serve ormai la vita se si è diventati un fardello per se stessi e per gli altri ? Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità il numero piú alto di suicidi, in termini assoluti, riguarda persone che hanno superato i settant’anni d’età. Tornano in mente le parole di Bobbio: «non condivido una sempre piú diffusa e invadente, non so se piú patetica o ingannevole, retorica della vecchiaia, che si risolve spesso in una forma larvata, ma non meno reale, di captatio benevolentiae, come quando l’accrescimento del numero dei vecchi viene preso in considerazione o sfruttato sotto l’aspetto dell’aumento del numero di eventuali consumatori, per cui vengono inventati sempre nuovi spot pubblicitari dove il vecchio, naturalmente sorridente, ben portante, lieto di vivere, è un nuovo corteggiatissimo protagonista della società dei consumi, come portatore di bisogni diversi da quelli dell’infante, dell’adolescente, dell’adulto, e in quanto tale portatore di nuove domande di merci, benvenuto collaboratore dell’argomen...