Chi bussa?
Nessuno, tra gli assonnati passeggeri del tram 28, che quella fredda mattina d’inverno percorre il Giambellino, sembra accorgersi che Lena, una giovane donna seduta sulla lucida panca di legno accanto al bigliettaio, è scossa da un lieve sussulto. L’ampio cappotto grigio che l’avvolge non lascia trapelare alcun indizio di gravidanza: il corpo sembra immobile mentre il volto, pallido e assorto, viene turbato da improvviso stupore. Nel frattempo tutto procede come sempre: sui finestrini appannati sfilano le facciate grigie delle case popolari, le saracinesche dei negozi si alzano stridendo, le prime macchine si arrestano dinnanzi ai semafori rossi, e frotte di studenti, attraversando sbadate i binari, provocano lo scampanellio irritato del conducente.
In alto, alberi spogli graffiano il cielo plumbeo lasciando filtrare tra i rami una lattiginosa luminescenza. Apparentemente non accade nulla d’insolito. Eppure, per un attimo, su quell’arrugginita, sferragliante carrozza si è verificato un evento prodigioso.
Un fremito, non fuori ma dentro il corpo di Lena, sotto il diaframma, prossimo al cuore, annuncia che d’ora in poi al mondo c’è anche lui, il suo bambino. In quell’istante incalcolabile l’ospite da tempo sognato, fantasticato, atteso diventa realtà incarnata, viva, vera, condivisa.
Con quel segreto frullar d’ali un bambino, che ancora non c’è, richiama la madre al riconoscimento della sua esistenza, all’incipit di una storia tutta da raccontare, di cui entrambi hanno vissuto soltanto la prefazione.
Rispondendo automaticamente al richiamo, Lena poggia la mano sul punto da dove proviene quel morbido, silente stormire e lo comprime con cautela perché non si dilegui nel ritmo del respiro. Avrebbe potuto confondere quel trasalimento con i movimenti degli organi interni, con una delle tante sensazioni subliminali che ci attraversano, ma non si è lasciata fuorviare.
Sa e non sa che quel frullio proviene da una vita che la abita senza coincidere con la sua, una presenza repentina destinata a diventare ben presto abituale. In quell’attimo inaugurale l’occupante clandestino, svegliandosi da un profondo sonno, chiede di essere ufficialmente accolto nella casa in cui già risiede e che a lungo sarà sua.
Scrive Freud:
[...] la casa è una sostituzione del grembo materno, della prima dimora cui con ogni probabilità l’uomo non cessa di anelare, giacché in essa si sentiva al sicuro e a proprio agio1.
Di fatto si tratta di un infiltrato, di un impertinente, eppure dinnanzi a lui si spalancano per incanto le porte dell’accoglienza. Mentre la mano della madre rimane poggiata sulla curva del grembo quasi a siglare, per contatto, una tacita intesa, il tram procede verso il centro della città nel traffico che s’addensa, nell’aria che rischiara. Ignari che esista un tempo senza quadrante e senza lancette, gli orologi stradali, posti a ogni incrocio, procedono come nulla fosse verso le otto, il tempo milanese del lavoro, dell’efficienza, della fretta.
Quando il tram è arrivato alla fermata richiesta, Lena si accorge che è giunto il momento di scendere: si alza di malavoglia e, con un breve respiro, quasi un sospiro, cerca di scuotersi dall’incantamento che l’ha calamitata dentro di sé.
Si conclude cosí il primo scambio reciproco tra una donna e un feto che si accingono a diventare madre e figlio. Il programma comporta di procedere insieme nonostante la dissimmetria delle età: lei adulta, lui non ancora bambino. La condivisione dell’impresa suscita in Lena una regressione all’infanzia che, connettendo passato e futuro, promuove il loro prossimo, reale incontro.
Ma, poiché il presente impone le sue esigenze, Lena cerca di uscire allo scoperto e, spento lo schermo del mondo interiore, si incammina verso l’Università Cattolica ove, attraversato il chiostro quattrocentesco, in un istituto costruito di recente, l’attende il professore che seguirà la sua tesi di specializzazione in Psicologia clinica, e da quel momento i suoi pensieri, ormai desti, si sforzano di concentrarsi sul tema, le ipotesi, i testi e le scadenze della ricerca.
Eppure l’attenzione vigile non riesce a imporsi completamente: quel sentire improvviso non vuole svanire e, come un’eco, l’attrae in uno spazio intermedio che, non ancora diventato luogo, fluttua tra il dentro e il fuori.
Il figlio tanto atteso, il bambino nella testa, fatto d’immagini cangianti ed evanescenti, da quando ha trafitto il suo corpo, non sarà piú un possesso esclusivo ma una presenza autonoma, un essere indipendente, che vive in lei e grazie a lei, ma non le appartiene.
Poiché di quanto è accaduto non ci sono tracce né testimoni, si potrebbe negare, misconoscere, consegnare all’oblio, eppure quel fremito resterà un fatto ineludibile e indimenticabile.
La missione è compiuta, il messaggio è giunto a destinazione ma, per il momento, la lettera resta chiusa. Solo la notte, nel silenzio della stanza matrimoniale, accanto al marito che dorme, Lena potrà ritornare là dove ha lasciato il bambino che sta diventando figlio e accogliere, come la Madonna dell’Annunciazione, un concepimento che fa di lei una madre, non solo potenziale come tutte le donne ma una mamma unica, concreta, confermata. L’attesa del figlio possibile, impalpabile come i sogni, lascia cosí il posto a quella del figlio materiale che, come nella terra il seme, germoglia nel suo grembo.
Mettere al mondo un bambino, darlo alla luce, sembra un processo lineare e prevedibile, ma per noi umani non lo è perché i solchi dell’istinto sono stati cancellati dall’aratro della civiltà e tutto deve essere riscoperto e ripensato. Se non vogliamo perdere un’esperienza cosí significativa, se non intendiamo rinunciare a esserci quando accadono gli eventi piú importanti, non solo per la nostra vita ma per il mondo intero, dobbiamo uscire dall’ovvio e dal banale e, considerandoci inesperte e ignare, tornare a chiedere: come si diventa madri?
In particolare, come ha potuto Lena, distratta dai compiti della giornata, comprendere immediatamente che quel frullar d’ali non era un movimento qualsiasi, improvviso e involontario come un singhiozzo o uno spasmo, ma l’arrivo di un ospite? Dell’ospite piú atteso.
Non avrebbe potuto ingannarsi, nessuna madre s’inganna, perché la loro storia è iniziata da tempo, da tanto tempo, sebbene su un palcoscenico diverso, animato da immagini che la realtà rende ora evanescenti.
Anni prima anche Lena si era annunciata con uno sfarfallio in un grembo materno ma non ne ha memoria. Dev’essere accaduto quando era una figlia attesa mentre ora è una madre in attesa.
Il capovolgimento da contenuto a contenitore muta la percezione del tempo aprendo, nel segmento dell’autobiografia, uno squarcio che lascia intravvedere ciò su cui di solito non si riflette: il procedere delle donne l’una entro l’altra, in una compenetrazione che sembra contraddire il principio fisico dell’impenetrabilità dei corpi. La discendenza femminile è contraddistinta, oltre che da una linea temporale, da un’implicazione spaziale che non ha eguale in quella maschile. Le femmine nascono in un corpo dello stesso sesso, i maschi in un corpo di sesso opposto. L’esperienza di estraneità, che contraddistingue la loro prima relazione, fa sí che per tutta la vita gli uomini debbano superare, negli scambi interpersonali, un’iniziale reticenza, un’impercettibile diffidenza. Mentre noi tendiamo a cogliere le somiglianze, loro percepiscono innanzitutto le differenze. Le donne, quando si trovano tra di loro, al di fuori dei ruoli sociali, si sentono facilmente «acqua nell’acqua», gli uomini invece, condizionati da secoli di servizio militare, si assestano soltanto quando trovano il loro posto su una scala gerarchica che evita pericolose prossimità, ambigue indistinzioni.
Nelle gestanti, la percezione corporea di contenere riattiva quella di essere state contenute, l’avere dentro suscita il ricordo dell’essere state dentro, un ricordo che rinvia alla propria madre, per cui i tempi della gravidanza sono tre: passato, presente e futuro.
A tutti, uomini e donne, la sequenza delle generazioni, oltrepassando la biografia individuale, permette di sopravvivere a se stessi e, andando al di là dei limiti corporei, di partecipare a una dimensione di perennità.
Scrive in proposito Freud:
L’individuo conduce effettivamente una doppia vita, come fine a se stesso e come anello di una catena di cui è strumento, contro o comunque indipendentemente dal suo volere […] Egli è veicolo mortale di una sostanza virtualmente immortale2.
Nel succedersi delle generazioni, parte del patrimonio genetico dei genitori, combinandosi, sopravvive nei figli mentre periscono gli organismi che lo hanno contenuto e trasmesso.
Ma nessuno è consapevole di vivere, come dice Freud, una «doppia vita». Sbadatamente convinto che il tempo che gli è dato sulla terra coincida con la durata del suo organismo, ignora di essere l’anello di una catena che lo trascende da ambo le parti, verso il passato e verso il futuro.
Se fossimo consapevoli di questa trascendenza, non racchiuderemmo la nostra biografia nell’angustia della storia individuale e la nostra esistenza non si ridurrebbe ai confini dell’Io.
Ciò che ci trattiene dal riconoscerci inclusi nell’economia della specie è il timore di sentirci spossessati, l’umiliazione di non essere mai completamente padroni di noi stessi. Per cui procediamo, con sguardo miope, nella dimensione ristretta dell’Io e del Mio, senza comprendere che la natura non solo ci contiene ma ci attraversa.
Eppure, in certi momenti di particolare intensità emotiva, una visione binoculare consente alla gestante di cogliere «l’oltre da sé», il prima e il poi che la travalicano.
Ma quella dilatazione dura soltanto un attimo e lentamente, inevitabilmente, lo sguardo si riaccentra sulla prossimità, sui rapporti che ciascuno intrattiene con le persone che gli stanno accanto, nello spazio e nel tempo di una rassicurante quotidianità.
Intermedia tra il sogno e la realtà, la topografia della gravidanza si trova a suo agio nel dormiveglia quando i confini tra corpo e mente, tra i pensieri della notte e del giorno si confondono e si contaminano. È in quella terra di mezzo che il fantasma del bambino che nascerà si preannuncia ed è là che il pensiero materno lo incontra e, prendendolo per mano, lo conduce nel mondo, lasciandosi alle spalle un claustrum protettivo ma destinato a spalancarsi, come le porte del paradiso terrestre.
Lo stupore che assale Lena rivela che non si tratta di un processo progressivo, dello sviluppo per fasi prevedibili dall’embrione al feto, ma di un evento improvviso che, concludendo la «preistoria», inaugura la storia della generazione umana.
Il fremito che a un certo punto fa vibrare il grembo della madre in divenire segnala che la fantasia si è incorporata e che, sebbene contenuto dentro di lei, inseparabile dai suoi processi vitali, il bambino che nascerà ha una propria autonomia: è stato lui a decidere quando farsi vivo, sarà lui a decidere quando accomiatarsi.
Per il momento, la simultanea coesistenza di fuori e dentro, di mondo esterno e interno, fa sí che prevalgano ora l’uno ora l’altro e che l’attenzione vigile della gestante si ritiri talora, con un trasalimento improvviso, richiamata da un appello che lei sola può cogliere. Sino a qualche decennio fa le persone piú prossime si accorgevano che una donna era in «stato interessante» perché, a loro dire, aveva gli occhi scintillanti e un’espressione trasognata che l’estraniava dalla realtà circostante. Ma ora non c’è né tempo né spazio per cogliere un’esperienza cosí intima e segreta che, considerata inopportuna, viene esclusa dalla rete degli scambi sociali e delle comunicazioni strumentali. Ciò che conta è il test di gravidanza, una prova di realtà fornita dal farmacista e confermata dal ...