Hotel Bellavista, 6 gennaio
Sono morto il sedici marzo di tre anni fa, nel parcheggio di un ristorante affacciato sul mare. La cosa piú stupefacente è che non me ne sono accorto. Era mezzanotte, minuto piú, minuto meno. Avevo bevuto qualche bicchiere di vino, ma ero del tutto sobrio. Avevo sonno, ero molto stanco e di cattivo umore perché la serata era andata storta. Non so se hai mai partecipato a un congresso: io almeno a due all’anno – uno all’estero e uno in Italia. Di solito, gli organizzatori scelgono come sede una città d’arte, un’isola, un castello, insomma un posto ameno dove tutti sono invogliati ad andare. Ognuno prepara la sua relazione, la legge, ascolta distrattamente quelle dei colleghi, per il resto è una questione sociale. Bisogna farsi vedere, aggiornarsi, conoscersi. Ci si incontra, si va a cena insieme, qualche volta si finisce a letto. Il tutto dura tre giorni, poi ci si saluta, tutt’al piú ci si ritrova in aeroporto, e poi per un anno ci si ignora.
Non posso dirti il nome di quella città, mi sono impegnato a tacere. Il mio silenzio è la mia assicurazione. Ti chiedo di bruciare questa lettera, quando sarai arrivata all’ultima riga, se pure ci arriverai. Sto violando un patto, so che non me lo hai chiesto, io però te lo devo. Te ne sei andata quasi senza salutarmi, sei uscita senza avvisarmi, sei arrabbiata con me e forse posso capirlo. Tu parli spesso di lealtà. Non sono obbligato a essere leale con te, e nemmeno potrei esserlo, ma lo sarò. La città era bella, ventosa, sul mare, nel sud Italia. Io non c’ero mai stato, e non ci tornerò mai piú. In fondo, ne ho perfino un bel ricordo. C’era il sole, e dalla platea della sala congressi si vedevano gli scogli del porto.
Ero iscritto a parlare l’ultimo giorno. La mia relazione riguardava la nuova microchirurgia sperimentale della cataratta. Ho mostrato il breve filmato di una operazione in cui applicavo la nuova metodica, resa possibile dall’invenzione di una nuova lente intraoculare in acrilico. Ho letto il testo in cui illustravo i vantaggi della possibilità di eseguire una microincisione del cristallino di appena 2.2 millimetri, il che in prospettiva potrebbe ridurre drasticamente i tempi dell’intervento e il rischio di endoftalmite e di complicanze post-operatorie. Il tutto è durato venti minuti: era quello il tempo a disposizione dei partecipanti e io non sforo mai, ho rispetto per gli altri perché pretendo rispetto per me.
Al coffee break ho ricevuto i complimenti dei membri della delegazione americana, hanno trovato stimolanti le mie ipotesi di lavoro, ci siamo scambiati gli indirizzi e-mail e ripromessi di condividere gli ulteriori esiti sperimentali. Mi hanno chiesto se avrei potuto essere interessato a lavorare qualche tempo nel loro istituto. Mi sono mostrato possibilista. Tre anni fa la microchirurgia della cataratta occupava piú o meno il sessanta per cento delle mie giornate. Il resto lo dedicavo alla mia famiglia, al sesso e all’alpinismo: tutto sommato avevo una vita piuttosto rudimentale.
Alla fine della sessione pomeridiana ho incontrato una collega che chiamerò Livia, tanto il suo nome non ha nessuna importanza. Ha due o tre anni meno di me, vive vicino Torino ed è un’oftalmologa ambiziosa e brava. Non ti nascondo che avevamo una relazione occasionale. Ci incontravamo quasi ogni anno, al congresso degli specialisti, e varie volte mi era capitato di finire nella sua camera. Preferisco dirti subito che mi è sempre piaciuto fare sesso nelle stanze d’albergo. Non restarci male. Forse sono un po’ esibizionista, ma l’idea che qualcuno potesse sentirmi invece di inibirmi mi eccitava. Adoravo partire lasciando schizzi vischiosi di me sulle lenzuola, sugli asciugamani, sui tappetini. Forse è l’istinto animale di marcare il territorio. Fatto sta che scopare in un luogo anonimo e senza ricordi è rilassante e aiuta a svuotare la mente dalla zavorra della vita. Con la mia collega era una cosa disimpegnata, priva di implicazioni sentimentali. Non avevo nemmeno il suo numero di telefono, né lei il mio. Ogni volta, salutandola, non sapevo se l’avrei rivista, e non me ne importava molto. In una decina d’anni, abbiamo passato qualche ora allegra insieme, ed è davvero tutto. Avevo stima di lei, ma non posso dire che mi piacesse veramente. Per me era un diversivo. E io lo ero per lei. Eravamo pari. Vorrei non averla mai conosciuta, ma so anche che non è colpa sua, e non posso rimproverarglielo.
Livia però non era sola: nell’atrio della sala congressi parlava con due colleghi, che io non conoscevo. Dal suo atteggiamento deferente ho intuito che si trattava di persone importanti. Io diffido dei potenti. I greci dicono che essere loro amico è rischioso, è come cavalcare un asino. Me li ha presentati. Ci siamo stretti la mano, con quell’indifferenza cortese che si usa fra estranei. Il piú anziano, un uomo alto, elegante, coi baffi bianchi, era il direttore di una clinica privata di quella città; l’altro, un medico grassoccio, sudaticcio, con la voce gracchiante e il naso arrossato dai vasi sanguigni scoppiati, avrà avuto la mia età. Non avevano il tesserino plastificato dei relatori sul bavero, come noi. Io e Livia ci siamo interrogati silenziosamente con gli occhi, perché entrambi pensavamo alla stessa cosa. Lei mi ha sussurrato che purtroppo ormai si era impegnata a cenare con quei due, ma avrebbe gradito molto se l’avessi accompagnata. Ho capito che teneva alla conoscenza del vecchio, ma contava di sganciarsi il prima possibile, e voleva passare la notte con me.
La mattina dopo ero prenotato sull’aereo delle otto. Mi stavo complicando la vita, perché nella migliore delle ipotesi saremmo riusciti a rientrare in albergo alle undici, e se poi fossi andato con lei avrei dormito pochissimo. Avevo trentotto anni, non venti, purtroppo, e certe fatiche cominciavo a pagarle. Però Livia insisteva, e io ero contento di concludere la trasferta nel suo letto – nei due anni precedenti lei non aveva partecipato ai congressi, perché aveva un figlio piccolo ed era rimasta ad accudirlo. Cosí ho detto ai due colleghi – di cui non ricordavo già il nome e cui ormai non potevo piú chiederlo – che li ringraziavo, mi univo volentieri a loro. Ci siamo dati appuntamento al ristorante sul mare, qualche chilometro fuori città, siamo saliti in taxi, e mentre l’auto infilava il sottopassaggio io e Livia ci siamo presi la mano. Sei in gran forma, mi ha detto. Però dovresti tagliarti i capelli, sono troppo lunghi e disordinati, ti tolgono autorevolezza e ti fanno sembrare uno studente. La sua osservazione mi ha dato fastidio. Vedi, se le avessi detto che preferivo di no, se avessi cenato con la delegazione al buffet dell’albergo e fossi andato a letto presto, adesso sarei ancora vivo.
Il ristorante era di gran lusso, e il pesce freschissimo. Ma io avevo fretta di andarmene con Livia, e ho mangiato poco. L’esperienza mi ha insegnato che non c’è niente di piú deleterio per il sesso di una digestione complicata. Ogni tanto, per incoraggiarmi a sopportare la noia di quella serata, Livia mi strusciava la punta della scarpa sul polpaccio, e quel contatto mi aveva messo in uno stato di eccitazione permanente. Non sono stato molto loquace, tutte le mie energie si concentravano su quel pensiero. So che non puoi capirmi, suppongo che per le donne sia diverso. Alle dieci, però, quando non ci avevano ancora portato il secondo, Livia ha ricevuto una telefonata. Ha esclamato oh, mio Dio, no, e poi si è alzata. Confusa, agitata, ha detto che doveva tornare subito in albergo a prendere la valigia, voleva tentare di prendere l’ultimo volo per Torino, il marito aveva avuto un incidente, lo avevano portato all’ospedale, in codice rosso. Mi sono offerto di accompagnarla, ma lei non ha voluto. Si sentiva in colpa, e posso capirlo. Se n’è andata quasi senza salutarmi. Non l’ho mai piú vista, e non me ne dispiace. Lei, però, avrebbe dovuto cercarmi, me lo doveva. Tra tutte le debolezze umane, la viltà è la piú ripugnante, e non posso perdonarla.
Cosí mi sono ritrovato a cenare con due sconosciuti. Hanno mostrato comprensione per il contrattempo e sono stati molto cortesi con me, ma l’atmosfera non era serena. Percepivo tra i due una tensione prepotente, e la mia presenza serviva in qualche modo a sopirla: ero coinvolto in un gioco di cui non conoscevo le regole e gli scopi. Volevo alzarmi e andarmene, ma non sapevo come. Purtroppo i miei erano borghesi all’antica, ho ricevuto un’educazione formale. Abbiamo parlato di medicina, tanto per non restare in silenzio. Ma non erano oculisti né esperti di microchirurgia e io a quel tempo ero molto selettivo. Il piú giovane era ginecologo, e io disistimo a priori quelli che nella vagina delle donne infilano i guanti, gli specchi e i falli delle macchine per l’ecografia. Lí per lí non ho capito cosa c’entrassero col congresso. Il ginecologo era appassionato di vela, aveva la barca al porto, peccato che domattina partivo presto, altrimenti avremmo potuto fare un’escursione alle isole, le previsioni meteo erano ottime. Il vecchio ha vantato la sua clinica, un’oasi di eccellenza in una regione difficile per la sanità, mi ha detto di aver offerto a Livia un posto nel reparto di oculistica, sapeva che Livia voleva trasferirsi nella sua città d’origine. Ah, ho detto io, avevo sempre creduto fosse di Torino. Mi sono sembrate due persone normalissime, un po’ arroganti, ma i miei colleghi lo sono spesso. Il vecchio si è alzato per primo, senza aspettare il caffè, e io sono rimasto al tavolo con l’altro.
Era molto nervoso, ma non aveva fretta di andarsene. Non so come, si è ritrovato a propinarmi un discorso deprimente sull’aumento statisticamente accertato dei tumori in zona, forse dovuto alle scorie radioattive che si diceva fossero state riversate nel mare lí di fronte, a pochi chilometri dalla costa. Voleva sapere quali danni produce la radioattività al sistema visivo. Io mi sono limitato a spiegargli che la retina non è molto radiosensibile, mentre il cristallino esposto alle radiazioni potrebbe perdere la trasparenza e sviluppare la cataratta. Insomma non mi sono mostrato troppo desideroso di esprimere la mia opinione sulle scorie radioattive. Ai colleghi non dico mai come la penso, non conviene, ormai anche gli ospedali sono un parlamento, devi saperti barcamenare. Del resto da ragazzo avevo un’anima ecologista e avevo partecipato alle manifestazioni contro il nucleare, ma ormai sinceramente mi sarei interessato al problema solo se i criminali le scorie radioattive le avessero riversate nel mio mare. Ma io andavo in vacanza in Grecia, avevo ristrutturato una casa a Santorini, a Imerovigli, un villaggio sull’orlo della caldera bianco come una spruzzata di neve, un posto che per me era la piú credibile versione terrena del Paradiso. Quando ho guardato l’orologio, erano le undici e cinquanta. Si era fatto tardi, dovevo proprio andarmene. Volevo pagare il conto, ma il ginecologo mi ha spiegato che eravamo ospiti del vecchio. Non potevamo fargli questo sgarbo. Ho chiesto al cameriere di chiamarmi un taxi, e di nuovo il ginecologo mi ha spiegato che non era questione. Ero ospite, mi avrebbe riaccompagnato all’albergo con la sua macchina.
Piovigginava. A parte due lampioni che proiettavano sulla ghiaia una luce giallastra, il parcheggio era buio. All’arrivo, un ragazzo aveva aiutato i conducenti a infilare le macchine negli appositi spazi, ma in quel momento non c’era e la seggiola vicino al cancello era vuota. Il ristorante era ancora affollato, e i clienti che si aggiravano nel parcheggio proiettavano ombre scure sul vialetto. Le loro voci si confondevano col brusio del mare. Mi ricordo di una coppia con la Bmw perché ho notato la donna, aveva il naso rifatto brutalmente ma era molto bella. Non avevamo l’ombrello e abbiamo raggiunto corricchiando la macchina del mio accompagnatore, un Porsche Cayenne Turbo da centoventimila euro. Ho notato il modello perché avrei voluto comprarmelo anch’io, ma esitavo – per via del costo e anche perché è un veicolo molto inquinante. L’ultima cosa che ho pensato, e me ne vergogno, è stata che se un ginecologo bifolco di provincia poteva permetterselo, allora potevo permettermelo anch’io. Modestamente, ero un professionista affermato. Senza contare lo stipendio dell’ospedale, solo nel mio studio guadagnavo diecimila euro al mese. Certe volte tornavo a casa con le tasche piene di soldi. Sfilavo banconote dalle giacche, dai calzoni, a volte le dimenticavo nei vestiti e la tintoria me le restituiva perfettamente lavate, lisce, come fossero appena uscite dalla zecca. In quel momento ho deciso che appena tornavo a casa me lo sarei comprato, il Porsche Cayenne, all’inferno gli scrupoli verdi sull’emissione di polveri sottili, era un modello magnifico. Lo contemplavo con ammirazione, grato alla mia fortuna, alle mie capacità, alla mia vita. Avevo tutto.
Ed è stato lí. Dall’estremità piú lontana del parcheggio è spuntata una motocicletta. La luce del faro anteriore, un alone bianco in un velo di pioggia, ha illuminato il cofano del Suv. A bordo c’erano due persone, il passeggero non aveva il casco. Calogero, ha detto. Il ginecologo ha detto gesú. Poi ho sentito due botti. Non particolarmente rumorosi. Come un tonfo. Ma ho capito subito che erano spari. Non ho pensato niente e non mi sono nemmeno spaventato. Sembrava un brutto film, in cui ero capitato per puro caso. Però, con un riflesso istintivo, mi sono accucciato tra la fiancata del Suv e lo sportello, rimasto aperto. Stupidamente perché, se volevano farmi fuori, quei due dovevano solo aggirare il Porsche Cayenne: ero lí allo scoperto, senza riparo, come un cane. Invece la moto ha accelerato e se n’è andata. Io sono rimasto accucciato sulla ghiaia, pietrificato. Non so quanto tempo è passato. Credo pochi minuti. La pioggia mi colava dai capelli nella nuca e un rivolo ghiacciato si insinuava lungo la schiena. Avevo freddo. C’era un silenzio strano. Le voci scomparse, si sentiva solo la risacca sugli scogli. Mi sono inginocchiato: da sotto il veicolo, una pozzanghera si allargava nel terriccio, e siccome il pianoro era leggermente inclinato, il liquido rifluiva verso di me. E poi ho visto una mano, con le chiavi ancora strette fra le dita.
Io non lo conoscevo quel tizio. L’avevo visto per la prima volta in vita mia tre ore prima. Adesso quel nome, Calogero, mi si era conficcato in testa. Se non lo avessero chiamato, sarebbe rimasto un estraneo per me. Mi sono rialzato. Nel parcheggio non c’era nessuno. Le ombre che si aggiravano tra le macchine un minuto prima erano sparite. Non sapevo cosa fare. Ma prima di tutto sono un medico. Ho aggirato il Suv, mi sono chinato su di lui, gli ho preso il polso. Mentre lo tenevo fra le dita, mi sono accorto che aveva due fori di proiettile, uno sulla fronte, l’altro sulla camicia, all’altezza del cuore.
Ho pensato al mio aereo, alle otto del mattino. Volevo solo tornare a casa. Non c’era piú niente che potessi fare per quel Calogero, chiunque fosse. Però non potevo lasciarlo, disteso per terra, nel parcheggio, sotto la pioggia, come un cane. Non sai quante volte mi sono ripetuto che avrei dovuto incamminarmi verso la città, a piedi, distava solo pochi chilometri. In tanti mi avevano visto con il morto – anzi, ero stata l’ultima persona a vederlo vivo, e questo non è mai un bell’inizio. Però anche Livia, anche il vecchio, avevano cenato con lui, e avrebbero potuto spiegare tutto. Io ero solo un relatore del congresso di oftalmologia. Abitavo a mille chilometri di distanza, in un posto tranquillo dove queste cose non succedevano, non sapevo niente di lui. Avrei potuto dire che avevo avuto paura, e nessuno avrebbe potuto biasimarmi. Avrei dovuto dileguarmi, come quella coppia sulla Bmw. Come tutti quelli che erano nel parcheggio e nel ristorante. Non l’ho fatto. Non saprei dire perché. Non potevo immaginare. Ma in un certo senso sí. Ero uno straniero, ma non un idiota. Però prima di tutto ero un medico. E quell’uomo non era ancora morto. Non aveva nessuna speranza di sopravvivere, e io lo sapevo. Ma le mie dita avevano percepito l’eco del battito del suo polso. Credo sia stato per questo.
Sono entrato nel ristorante e ho detto al cameriere di chiamare l’ambulanza, perché avevano sparato al dottor Calogero. Il cameriere mi ha perforato con uno sguardo gelido, come fossi uno scocciatore. Però ha alzato il telefono. Mi sono seduto su una seggiola e ho aspettato. Quando è arrivata l’ambulanza, il ginecologo non respirava piú. Sono morto a mezzanotte, nel parcheggio di un ristorante affacciato sul mare. Non mi chiamo Mattia.
Hotel Bellavista, 7 gennaio
Non ho preso l’aereo delle otto del mattino. A quell’ora dormivo. Avevo passato la notte in questura. Tutto considerato, i poliziotti sono stati comprensivi. Tieni presente che io ho sempre avuto un rapporto complicato con l’autorità. Forse per reagire a quella di mio padre, non lo so, non mi interesso molto di psicologia. Fatto sta che fino a quella sera avevo avuto a che fare con la polizia solo tre volte in vita mia, e ogni volta per mia colpa: avevo trasgredito una legge, o aiutato chi l’aveva fatto. A sedici anni, mi avevano fermato dopo una festa perché guidavo ubriaco e senza patente. A diciannove, mi ritrovai coinvolto in un tafferuglio allo stadio, dopo una partita. Il calcio non mi interessava minimamente, credo che l’altro giorno tu abbia capito che non me ne intendo, ma avevo accompagnato un’amica fanatica della squadra della mia città. La mia amica aveva un coltello con la lama di venti centimetri nello zainetto e ci caricarono tutti e due sul cellulare. A ventidue, la mia ragazza si fece arrestare per oltraggio a pubblico ufficiale: aveva sputato a un celerino durante lo sgombero del centro sociale in cui lei insegnava l’italiano ai clandestini. Era una ragazza impegnata e radicale, voleva migliorare il mondo e io mi ero innamorato di lei per questo, perché non facevo nulla per aiutarla e ormai sprecavo i soldi di mio padre per manutenere la mia motocicletta, comprarmi il fumo e acquistare biglietti aerei per andare a scalare montagne incontaminate in Nepal, in Alaska e in Cile. Ero un alpinista discreto e un rocciatore piuttosto bravo. Vedi che c’è sempre una donna, in tutti i miei casini. Comunque ormai di anni ne avevo trentotto, e non entravo in questura da quando avevo dovuto rinnovare il passaporto. Non mi piacciono le divise, credo di avertelo già detto.
E adesso ero circondato da divise e quasi nelle loro mani. Mi hanno portato un caffè, mi hanno chiesto se volevo vedere uno psicologo perché forse ero sotto shock. Ma io non mi sentivo sotto shock. Avevo visto ammazzare un uomo. Ma in fondo sono un medico: quando ero ancora studente, e facevo tirocinio all’ospedale, avevo già visto morire delle persone, e una volta una bambina cardiopatica mi era spirata fra le braccia. Mi hanno interrogato senza molti riguardi, all’inizio, poi – quando hanno verificato che davvero ero un relatore del congresso di oftalmologia – con piú gentilezza. Alle cinque del mattino mi hanno congedato. Io avevo detto quello che sapevo, cioè niente, perciò ero sollevato, e quando sono tornato in albergo mi sono messo a letto e mi sono addormentato di schianto. Ero davvero molto stanco. Mi sono svegliato fresco e riposato a mezzogiorno, ho lasciato la camera e ho preso un taxi per l’aeroporto. Ho trovato posto sul primo aereo. Alle tre ero già a casa.
Avevo una bella casa. Ci abitavo da cinque anni. Prima abitavo nel centro storico, in un palazzo antico, un labirinto di scale e cortili. Dalle finestre si vedeva il campanile del duomo, uno spicchio del rosone della facciata e una distesa di tegole rosse. A me piaceva, e ci sarei anche rimasto. Ma Denise diceva che l’aria era inquinata, le polveri sottili nocive per la salute, e che nostro figlio doveva crescere nella natura. La vista degli alberi insegna il rispetto per la vita. Denise – non è il suo vero nome, ma devi perdonarmi se lo ometto – lavorava nell’ufficio stampa della sezione regionale del partito verde, aveva delle teorie rigorose sul destino del pianeta. Cosí siamo andati in un’agenzia immobiliare e ci hanno proposto una villa in periferia, proprio ai piedi delle colline. Abbastanza vicina al centro per andarci in bicicletta, ma dalla veranda si vedeva l’orlo delle montagne e penso che piú che altro l’ho scelta per quello. Era una villa a tre piani, costruita di recente da un architetto alla moda. Aveva la taverna per i giochi, un giardino con alberi ad alto fusto e l’altalena e un mucchio di camere da letto. A me sarebbe piaciuta una famiglia numerosa e col tempo contavo di convincere Denise. Ci abbiamo messo un anno ad arredarla. Ha fatto tutto lei, perché a me dei mobili non me n’è mai importato niente. Un letto è un letto, e un tavolo un tavolo. Col tempo Denise si è pentita di essersi voluta trasferire in campagna. Quando è nato Marco ha lasciato il lavoro, e la solitudine bucolica in quella villa enorme – condivisa unicamente con un neonato e una baby-sitter moldava il cui vocabolario si limitava a un centinaio di parole – si è rivelata pesante per lei, quasi insopportabile. Io non arrivavo mai prima delle nove di sera. Ma a quel punto a me la casa piaceva, mi ero innamorato degli alberi, degli uccelli, delle montagne, non mi andava di trasferirmi di nuovo. E poi avevamo preso un gatto – anzi una gatta persiana, Soraya, divenuta rapidamente la regina del giardino, e non le avrei mai inflitto la sofferenza di vivere in un appartamento di città. Ti sembrerà strano, ma col passare degli anni per me il benessere di Soraya era diventato piú importante di quello di Denise.
A Denise non ho raccontato niente della morte di quel Calogero. Era un fatto successo a mille chi...