Il computer ammicca con l’aria di chi la sa lunga. Mi siedo alla scrivania, tocco un tasto ed ecco apparire sullo schermo una foto di Paul. È quella che gli ho scattato durante il viaggio di nozze: lui seduto al tavolino di un bar di Campo de’ Fiori, che mi guarda con occhi pieni d’amore. Vorrei rispondere al suo sorriso, ma quando mi sporgo in avanti intravedo la mia immagine riflessa sul monitor e mi passa la voglia. Detesto vedermi senza preavviso. A volte non mi riconosco nemmeno. Credi di sapere che faccia hai, poi di colpo ti trovi davanti questa estranea che ti guarda. Mi spavento persino, a volte.
Oggi, invece, mi soffermo a osservarla. Capelli castani tirati su alla bell’e meglio in un frenetico chignon da lavoro, niente trucco, ombre e rughe che si irradiano dagli occhi come crepe da cedimento.
– Cristo, che faccia, – dico alla tizia nel monitor. Il movimento delle sue labbra mi incanta: la faccio parlare ancora.
– Su, Emma, mettiti al lavoro, – sussurra. Sorride debolmente, e le restituisco il sorriso.
– Ti comporti come una matta, – dice lei con la mia voce, e allora la smetto.
«Fortuna che Paul non mi vede», penso.
Poi stasera lui torna a casa stanco e un po’ scorbutico, dopo un’intera giornata in compagnia di quelle teste dure dei suoi studenti e l’ennesima lite con il direttore di dipartimento riguardo all’orario delle lezioni.
Sarà colpa dell’età, ma da qualche tempo patisce molto le tensioni sul lavoro. Forse comincia a dubitare di sé stesso, perciò vede minacce da ogni parte. È anche vero che i dipartimenti universitari sono autentiche fosse dei leoni: stuoli di maschi pieni di boria che non fanno niente di concreto, fuorché aggrapparsi con gli artigli alla loro presunta superiorità. Gli dico tutte le cose giuste e gli preparo un gin tonic.
Quando alzo la sua cartella dal divano vedo che ha portato a casa una copia dell’«Evening Standard». L’avrà presa in metropolitana.
Mentre Paul è sotto la doccia a lavar via gli affanni della giornata, mi siedo per dare un’occhiata al giornale, ed è allora che vedo il trafiletto sul bambino.
RINVENUTO CADAVERE DI UN NEONATO, dice. Poche righe in cui si racconta che in un cantiere di Woolwich hanno dissotterrato lo scheletro di un neonato, e la polizia sta indagando. Le leggo, le rileggo, ricomincio daccapo. Non riesco a decifrarle bene, come se fossero in un’altra lingua.
In realtà capisco benissimo, e sento il terrore avvolgermi nelle sue spire. Mi spreme l’aria dai polmoni. Faccio fatica a respirare.
Sono ancora seduta sul divano quando Paul scende le scale tutto roseo e umidiccio, gridando che c’è qualcosa che brucia.
Le costolette di maiale sono nere. Carbonizzate. Le butto nella spazzatura e apro la finestra per far uscire il fumo. Tiro fuori dal freezer una pizza surgelata e la caccio nel microonde mentre Paul si siede tranquillamente a tavola.
Invece di sgridarmi per aver quasi incendiato la casa, dice: – Dovremmo far mettere un allarme antifumo. È facile dimenticarsi che c’è qualcosa sul fuoco, se si sta leggendo –. Com’è gentile, Paul. Non me lo merito.
Mentre sto davanti al microonde a guardare la pizza che gira e ribolle, mi domando per la milionesima volta se mi lascerà, prima o poi. Avrebbe dovuto farlo da anni. Io al posto suo l’avrei fatto, pur di non dover sopportare le mie storie, le mie ansie, ogni santo giorno. Ma lui non dà segno di voler fare i bagagli. Al contrario: veglia su di me come un genitore ansioso di proteggermi dal male. Si sforza di calmarmi quando sono agitata, inventa pretesti per sentirci allegri, mi abbraccia forte quando piango, mi dice che sono una donna intelligente, buffa e meravigliosa.
«È la malattia che ti rende diversa, – dice. – Tu non sei cosí».
Sí che lo sono, invece. Lui non conosce la vera me. Sono stata ben attenta a non mostrarmi. E quando mi rifiuto di parlare del passato, Paul rispetta la mia privacy. «Non c’è bisogno che mi racconti, – dice. – Ti amo cosí come sei».
Saint Paul: è cosí che lo chiamo quando prova a farmi credere che non gli sono di peso.
«Ma neanche per sogno», protesta lui, e mi zittisce.
E va bene, diciamo che «santo» è troppo. Chi lo è, del resto? E comunque la causa dei suoi peccati sono io. Sapete come dicono le coppie di lunga data: ciò che è tuo è mio, e viceversa. I miei peccati, però… be’, sono solo miei.
– E tu cosa mangi, Em? – mi chiede, quando porto in tavola il suo piatto.
– Ho pranzato tardi per via del lavoro, e adesso non ho fame: mangio un boccone piú tardi –. Bugia. Se provassi a mandar giú qualcosa soffocherei.
Gli faccio il mio sorriso piú luminoso, quello che uso per le foto. – Sto bene, Paul. Dài, mangia.
Seduta dalla mia parte del tavolo, mi rigiro tra le mani un bicchiere di vino e fingo di ascoltare il resoconto della sua giornata. La sua voce sale e scende di tono, si interrompe per masticare quello schifo di cena che gli ho servito, poi riprende.
Io annuisco di tanto in tanto, ma non sento niente. Chissà se Jude ha visto l’articolo.
Kate Waters si annoiava. Non le capitava spesso, sul lavoro, ma quel giorno era bloccata in ufficio sotto gli occhi del suo capo con nient’altro da fare eccetto riscrivere articoli non suoi.
– Immergilo nell’oro della tua tastiera, – le aveva strillato Terry, il capocronista, sventolandole davanti agli occhi un pezzo scritto coi piedi. – Spargici sopra un po’ di polverina magica.
Detto, fatto.
– Sembriamo una fabbrica di pastone per polli, – brontolò lei, rivolgendosi al collega della scrivania di fronte. – Puoi metterci piú o meno crusca, ma resta la solita sbobba. E tu di cosa ti stai occupando?
Gordon Willis, il collega che il capocronista non chiamava mai per nome ma sempre e soltanto per qualifica professionale (esempio: «Questa storia la segue il cronista di nera») sollevò la testa dalla pagina che stava leggendo e si strinse nelle spalle. – Bah, oggi pomeriggio vado all’Old Bailey a scambiare due chiacchiere con un ispettore a proposito di quell’omicidio con la balestra. Per ora non ho niente di concreto, ma dopo l’udienza mi piacerebbe fare due domande alla sorella della vittima. Pare che andasse a letto con il killer. Pensa che bel titolo a strati ne verrebbe fuori: LA MOGLIE, LA SORELLA E L’ASSASSINO CHE ENTRAMBE AMAVANO –. Gordon sorrise sotto i baffi, poi chiese: – Perché? Tu che stai facendo?
– Ah, niente. Scucio e ricucio l’opera di una schiava dell’edizione online, – rispose Kate, indicando la ninfetta che sull’altro lato della stanza batteva furiosamente sulla tastiera. – Santo cielo, sarà appena uscita dal liceo.
Si zittí subito: sembrava una vecchia bisbetica. Non si poteva negare, d’altronde, che lo tsunami delle edizioni online avesse scaraventato in alto mare Kate e i suoi pari. I colleghi che una volta sedevano al tavolo principale – l’equivalente giornalistico del podio olimpico – ora stavano come lei, precariamente appollaiati ai margini della redazione, sospinti ogni giorno di piú verso l’uscita da orde di redattori online che scrivevano ventiquattr’ore su ventiquattro, sette giorni su sette, riversando fiumi di notizie nelle fauci insaziabili del pubblico.
I nuovi media non sono piú nuovi da un bel po’, aveva sentenziato il capocronista al rinfresco di Natale. Ormai sono la norma. Il futuro. E Kate sapeva di doverla smettere con le lamentele.
Però lamentarsi veniva spontaneo, si diceva, quando gli articoli piú cliccati sull’agile sito web del giornale riguardavano le vene in rilievo sulle mani di Madonna o la silhouette appesantita di qualche stellina delle serie tv. Paparazzate travestite da notizie: in pratica, l’orrore.
– Comunque può aspettare, – disse Kate a voce alta. – Scendo a prenderti un caffè.
Un’altra vittima dei tempi nuovi era la famosa Pausetta da Riunione (Pr per gli iniziati), antico privilegio di un’aristocrazia di Fleet Street che approfittava dei conciliaboli mattutini tra il direttore e i capiservizio per sgattaiolare nel pub piú vicino. Seguivano, di solito, liti avvinazzate e paonazze con il capocronista di turno – una delle quali, narra la leggenda, era terminata con un capo addentato alla caviglia da un giornalista cosí sbronzo da non reggersi piú in piedi, mentre un altro giornalista buttava giú dalla finestra una macchina da scrivere.
Ormai le finestre delle redazioni, chiuse a tenuta stagna dai doppi vetri, si affacciavano non piú su Fleet Street ma sulle gallerie dei centri commerciali, e l’alcol era rigorosamente off limits. La nuova droga di elezione era il caffè.
– Come lo vuoi? – chiese Kate.
– Doppio macchiato con sciroppo di nocciole, grazie, – rispose Gordon. – O quel che ti viene piú comodo, purché sia marrone.
Kate scese con l’ascensore nell’atrio tappezzato di marmi e raccattò una prima edizione dell’«Evening Standard» dal banco della sicurezza. Mentre aspettava che il barista desse gli ultimi ritocchi alla pozione, lo sfogliò oziosamente in cerca delle firme dei suoi amici.
L’edizione brulicava di titoli a tutta pagina sui preparativi per le olimpiadi di Londra, tanto che quasi le sfuggí il trafiletto al fondo delle Brevi.
Sotto il titolo RINVENUTO CADAVERE DI UN NEONATO, due frasi stringate raccontavano che gli operai al lavoro in un cantiere di Woolwich, non lontano dalla zona di Londra in cui anche Kate abitava, avevano dissotterrato lo scheletro di un bambino appena nato. La polizia stava indagando. Nessun altro dettaglio. Kate strappò l’articoletto e se lo mise in borsa, fra i tanti ritagli di giornale accartocciati che ne foderavano il fondo. «Come le gabbie dei pappagallini», scherzava Jake, il suo figlio piú grande: pezzi di carta in attesa di prendere vita. Articoli interi che lasciavano qualche domanda in sospeso, ma piú spesso semplici titoli o frasi isolate che spingevano Kate a domandarsi: «Che storia c’è dietro?»
Strappato il frammento, Kate rilesse ancora una volta quelle trenta parole e si chiese che fine avesse fatto il personaggio mancante: la madre, naturalmente. Mentre tornava in ufficio con i bicchieroni del caffè, fece un elenco mentale delle domande: Chi è il bambino? Come è morto? Perché seppellirlo cosí?
– Povero piccino, – disse poi, a voce alta. Tutt’a un tratto la testa le si riempí di immagini dei suoi bambini ( Jake e Freddie, nati a due anni di distanza ma aggregati in ambito familiare nell’entità collettiva denominata «i ragazzi») sotto forma di robusti frugoletti ai primi passi, poi di scolari in uniforme da calcio, adolescenti imbronciati, e infine adulti. «Be’, insomma, quasi», pensò, sorridendo tra sé. Il ricordo dei momenti in cui li aveva visti per la prima volta era ancora vivissimo: quei corpicini rossi e scivolosi, quella pelle raggrinzita come se fosse di una taglia in piú, quegli occhi che la guardavano incerti dal nido delle sue braccia, la sensazione di conoscerli da sempre. «Come si può uccidere un neonato?»
Al ritorno, posò i bicchieroni sulla scrivania e marciò decisa verso il tavolo della redazione.
– Ti va bene se do un’occhiata a questo? – chiese a Terry, sventolando il minuscolo ritaglio. Il capocronista non alzò neppure gli occhi dall’articolo sulla famiglia reale straniera di cui stava cercando di venire a capo. «Gli va bene», concluse Kate.
Prima di tutto chiamò l’ufficio stampa di Scotland Yard. Quand’era agli inizi della carriera e faceva tirocinio in un quotidiano locale dell’East Anglia, Kate andava tutti i giorni alla piú vicina stazione di polizia per dare un’occhiata al registro, operazione che consisteva nello sporgersi al di sopra del bancone mentre il sergente di turno cercava di rimorchiarla a suon di chiacchiere. Ora invece c’era già da stupirsi se, chiamando la polizia, riusciva a parlare con un essere umano. Ed erano sempre colloqui brevissimi.
«Ha ascoltato la registrazione?» le chiedeva il civile che fungeva da addetto stampa, sapendo benissimo che lei non l’aveva ascoltata. Quindi veniva dirottata senza ulteriori cerimonie verso il nastro che elencava con voce metallica tutti i furti di tosaerba e gli scaz...