– Che facciamo? – dice Andrea con gli occhi stanchi. Cioè, non proprio stanchi, spaventati. Cioè, non proprio spaventati, bui.
– Che vuoi fare? Andiamo all’ospedale, – rispondo sbrigativa cercando la borsa, le chiavi, gli occhiali.
– E Giacomo? Che facciamo con lui?
– Per ora non lo chiamiamo.
– Ma…
– Fai quello che vuoi.
Non voglio discutere. Non è il momento. Spazzolino, mutande, camicia da notte, golfino. Butto tutto alla rinfusa in una sacca sbattendo l’anta dell’armadio. Le cose che hai lasciato a casa da noi sono sempre lí, le mutande e i calzini nel primo cassetto, le magliette nel secondo, i pigiami nell’ultimo, anche se sei andata via due anni fa, anche se vivi con Paolo, non è cambiato niente.
Va tutto bene, pulcina. La mamma sta arrivando. Tu però aspettami. Mi aspetti, vero?
– Sono pronto, – Andrea riappare e mi mette fretta. Poi si inceppa di nuovo. Lo sai, Giada, com’è fatto tuo padre. Se è agitato, non capisce piú nulla – ti ricordi che sveniva alla vista del sangue? Bastava una sbucciatura, e lui giú per terra. Ero sempre io a disinfettarti, quando eri bambina, a cercare i cerotti, ad asciugarti le lacrime. «Ora passa, tesoro. Ci pensa la mamma. Aggiusta tutto lei».
– Dov’è il Santo Spirito?
Andrea è nel pallone e non sa piú dove andare. Dice che non ricorda. Dice che non c’è mai stato. Quell’ospedale, tu l’hai sempre odiato. Ti ci hanno portato anni fa dopo l’incidente con lo scooter, ti eri rotta i legamenti del ginocchio, e dal pronto soccorso ti hanno spedito in Ortopedia per farti ingessare. «Un’assurdità, – dicevi sempre. – Mica si ingessa per un crociato!»
Anche stasera ti hanno portato lí, è l’ospedale piú vicino a casa tua, ci vogliono cinque minuti, ma non preoccuparti, telefoniamo a Carla, suo marito è primario, Giada, ti porto subito via.
– Quale lungotevere?
Andrea vuole per forza guidare lui.
– Sempre dritto fino al Tevere. La prima a destra, la seconda a sinistra, poi sempre dritto. Sempre dritto fino al Tevere. Poi a sinistra.
Il motore si ingolfa. Andrea si innervosisce. Io perdo la pazienza. Lui alza la voce.
Destra, sinistra, dritto. Trattengo il respiro.
– Dài, veloce! – Non c’è nessuno per strada, com’è possibile a quest’ora? Meglio cosí, speriamo duri fino all’arrivo, speriamo.
Via Vitelleschi. Piazza Pia. Il tuo viso davanti agli occhi.
– Attento, c’è una moto! – Ma come corrono, sono impazziti?
Lungotevere Vaticano. L’avevo detto, a tuo padre, che al telefono eri triste.
Lungotevere Sassia. Contratta, come rassegnata.
– Ci siamo!
Quando arrivo all’accettazione, supero tutti e passo davanti. Qualcuno mi dice che c’è la fila, che devo aspettare il mio turno, che solo in Italia capitano queste cose. Sento la voce di Paolo che mi chiama e mi volto in cerca di aiuto. Ha gli occhi gonfi. Non l’avevo mai visto cosí pallido.
– Dov’è Giada?
Paolo trema. Non riesce a dire nulla.
– Non posso aspettare.
I commenti della fila mi scivolano addosso.
– È mia figlia!
Il brusio cessa.
– Non posso, capite? – La voce si strozza.
– Signora, si calmi, la prego. Il cognome? Mi dia il nome e il cognome di sua figlia.
– Laurenti. Giada Laurenti. Giada. La mia bambina –. Lo ripeto imbambolata, mentre l’infermiera solleva la cornetta del telefono e bisbiglia qualcosa. Poi butta giú.
– Cos’è successo?
Mi guarda.
– Dov’è Giada?
Mi chiede di seguirla.
– Sta bene, vero?
Lo dice.
La terra si spalanca sotto i piedi.
Lo dice.
Ed è uno schianto.
Si certifica di aver constatato la morte della sig.ra Giada Laurenti, nata a Roma il 06-01-1986 e ivi residente in via Alcide de Gasperi 31, avvenuta alle 23,52 del 14-10-2011.
La dottoressa Pianna ci prega di seguirla nel suo studio, deve parlarci. È stata lei a firmare il documento: per venti minuti consecutivi l’elettrocardiogramma non ha registrato alcuna attività. Io non voglio muovermi, non voglio parlare con nessuno, voglio solo restarti accanto.
Questo è l’occhio bello, questo è suo fratello, questa è la chiesina, questa è la sorellina, questo è il campanello, din, don, din, don, Giada, rispondi! Che hai fatto? Din, don, din, don, la mamma non si muove, la mamma c’è sempre, lo sai, vero?
– Va bene, signora, resti pure con sua figlia, – dice la dottoressa. – Ci può raggiungere dopo –. Fa un cenno ad Andrea. – Si tratta di capire come andare avanti con la procedura giudiziaria, – spiega e s’incammina.
– No! – D’un tratto urlo. – Assolutamente no!
La dottoressa torna indietro, cerca di calmarmi. Mi indica una sedia. Riprende a parlare. Io la interrompo di continuo.
Sempre in piedi. Vigile.
Nessuno ti tocca, tesoro, te lo prometto, non ti faccio toccare da nessuno, tu però di’ alla mamma cosa vuoi che faccia, dimmelo. Questo è l’occhio bello, questo è suo fratello, questa è la chiesina, questa è la sorellina, questo è il campanello, din, don, din, don, dove sono le tue risate? Il solletico dietro l’orecchio, il ditino in bocca, gli occhi pieni di stelle luccicanti. Ti ricordi, Giada, come ridevi felice? Perché non mi rispondi?
La dottoressa insiste che l’autopsia fa parte della procedura. Dice che la procura deve essere avvisata. Che il magistrato deve nominare un perito. Che il perito deve fissare una data. Che il pubblico ministero può richiedere indagini complementari. Dice che è l’unico modo per accertare che non ci siano responsabilità dolose o colpose. È la prassi, dice.
– Dottoressa, no, la prego –. Alla fine mi siedo. – È già tutto chiaro, no? – Piango. – Anche lei è madre –. Supplico. – Ma cos’è successo?
È stato Paolo a portarti al pronto soccorso salendo con te sull’autoambulanza. Avevate litigato e lui era uscito a fare un giro, non piú di due ore, due ore e mezzo al massimo. Quando è rientrato, ti ha trovata stesa per terra, priva di sensi, livida in viso. Sul tavolo del soggiorno, un biglietto. Accanto, flaconi vuoti di Lexotan e Laroxyl. Ha chiamato il 118 e aspettato i soccorsi, sdraiato vicino a te, immobile.
Perché avevate litigato?
– Ha assunto una dose letale di ansiolitici e antidepressivi, – dice la dottoressa Pianna. – Un misto altamente tossico di benzodiazepine e amitriptilina che ha causato l’inibizione della sostanza reticolare e dei riflessi spinali.
– Le avete fatto la lavanda gastrica?
– C’è stata una depressione del sistema limbico-ipotalamico e una crisi respiratoria, signora. Il cuore ha continuato a pompare per alcuni minuti, ma il sangue conteneva poco ossigeno, era insufficiente ad alimentare le cellule cerebrali.
– E quindi?
– L’arresto cardiaco.
Inibizione dei riflessi spinali.
Depressione respiratoria.
Arresto cardiaco.
Ascolto senza capire. Una parola dopo l’altra.
Din, don, din, don, che hai fatto? Din, don, din, don, stellina, perché?
– Ma non avete provato a rianimarla? Ci sono quei cosi, i defibrillatori, come si chiamano? Quelle piastre che si posano sul petto e il cuore riparte. Andrea, diglielo che il cuore riparte!
– Associando ansiolitici e antidepressivi si è innescata una reazione a catena, – risponde la dottoressa Pianna. – Non c’è stato niente da fare. Sua figlia è arrivata qui troppo tardi. Mi dispiace, signora. Abbiamo provato a rianimarla, abbiamo provato piú volte, ma non c’è stato verso.
– Perché aveva in casa quella roba? – Respiro a fatica.
– Questo non lo so, – dice la dottoressa. – Le indicazioni date dal compagno sui flaconi ritrovati in soggiorno coincidono con i risultati degli esami. Ma noi dobbiamo indagare, l’autopsia è obbligatoria.
– No! Vi prego.
– Ascolti, signora. Ho l’obbligo di segnalare il suicidio. Lo prescrive la legge. Bisogna poter scartare ogni ipotesi di istigazione o di aiuto da parte di terzi. Però c’è il biglietto lasciato da sua figlia. Posso provare a vedere se in via del tutto eccezionale si può evitare l’autopsia. La procura, in ogni caso, deve essere avvisata.
– Che biglietto? – Mi asciugo le lacrime con le mani. La dottoressa mi porge dei fazzoletti, non li prendo. Andrea mi stringe il braccio, lo allontano. – Dov’è questo biglietto? Andrea, ce l’hai tu?
– Rientri a casa, signora. È molto tardi. Può tornare domani con piú calma. Cerchi di riposare, – conclude la dottoressa. Ora che ha detto tutto sembra sollevata, ora può avere pietà.
– Ma il biglietto? Andrea, di’ qualcosa, ti prego!
– Vieni, Daria, torniamo a casa, – non dice altro, tuo padre, sono le prime parole che pronuncia, le mascelle serrate, i pugni stretti, gli occhi cerchiati di nero, stasera non parla, tuo padre, niente parole, niente, lui che con le parole è sempre stato bravo, dove sono andate a finire tutte le sue parole, inabissate anche loro, dimmelo tu, Giada, dove sono andate a finire le parole.
Secondo Andrea, è stata Carla la prima ad arrivare a casa il giorno del tuo funerale.
Secondo Andrea, Carla ha detto «mi dispiace»; ha detto «ti voglio bene»; ha detto «prenditi tutto il tempo che vuoi»; ha detto «ci sono».
Secondo Andrea, sono rimasta in silenzio. Mentre Carla mi faceva una carezza.
Tu riesci a capirlo, Giada, che cosa cerca questa gente? La mia migliore amica ha detto: «Ti voglio bene». Quale bene? Ora che non ci sei piú, bene non ha senso, bene è volgare, bene è sepolto.
Perché non vanno via? Perché non mi lasciano tranquilla?
Secondo Andrea, Alessandra è venuta a buttarsi fra le mie braccia piangendo a dirotto.
Secondo Andrea, Alessandra ha detto «non ci posso credere»; ha detto «dovevamo vederci oggi, Giada e io». La tua migliore amica mi ha chiesto: «Che facciamo?»
Secondo Andrea, non ho risposto. Sono rimasta inerte.
Secondo Andrea, Paolo si è avvicinato subito dopo Alessandra.
Secondo Andrea, gli occhi di Paolo annegavano nel pianto, le lacrime gli colavano lungo le guance.
Secondo Andrea, non l’ho degnato nemmeno di uno sguardo, mi sono voltata dall’altra parte, mentre Paolo sussurrava «scusa», sussurrava «sono disperato», sussurrava «forse è meglio che me ne vada».
Non volevo vederlo, Giada, non lo sopportavo. Il tuo fidanzato, che cosa ti aveva fatto? Che cosa era successo quella sera?
Secondo Andrea, mia madre è arrivata piú tardi.
Secondo Andrea, ha detto «devi essere forte»; ha detto «ora Giada è in un posto migliore»; ha detto «capisco come ti senti».
Secondo Andrea, me ne sono andata via sbattendo la porta. Mentre mia madre lo fissava, senza capire.
Specchio, specchio delle mie brame, chi è la piú bella del reame? Ma le matrigne sono tutte cattive come la nonna oppure c’è anche la fata turchina? Dov’è la fata, tesoro? Non ti preoccupare, Giada, non ti lascio sola con la nonna.
Secondo Andrea, sono rimasta chiusa a chiave n...