La confraternita
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La confraternita

  1. 304 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La confraternita

Informazioni su questo libro

Marco McKay, un ragazzo la cui principale dote sembra essere l'abilità con computer e videogame, deve infiltrarsi nella N.S. Iunctio, un'associazione universitaria segreta che «connette» fra loro giovani destinati per nascita o talento a carriere formidabili. Cosí, dopo aver appreso modi e atteggiamenti da rampollo dell'alta società internazionale, Marco si ritrova proiettato nel mondo esclusivo di un ateneo antico e prestigioso, avendo come spalla Cosmo, l'amico di sempre. Le cose sembrano andargli bene, almeno all'inizio, solo che la Iunctio si rivela molto piú minacciosa e ramificata di quanto lui potesse sospettare. Inoltre salta fuori una complicazione imprevedibile, Julia: è bellissima, affascinante, con parentele pericolose. Ma chi è davvero Marco McKay? Chi lo ha ingaggiato per aprire una breccia in quello che, forse, è uno dei piú temibili centri di potere occulto del pianeta? E soprattutto, c'è un modo di sfuggire alle regole della confraternita? Mi condussero oltre una porta sormontata da uno stemma che riproduceva la fontana. Non sentivo piú le ferite sanguinare lungo il corpo, né gli spuntoni nelle gambe. Non avevo piú paura di morire. Ero già morto, ed ero tornato. La stanza in cui mi trovai aveva le pareti coperte di specchi. Al centro c'era un tavolo rotondo con quindici sedie. Una era vuota. Tutto vorticava in mille riflessi della stessa identica scena.
- Benvenuto nella confraternita, Diggory Delvet.
Mi guardai attorno, smarrito, e notai che dai cappucci delle persone sedute sbucavano facce di animali. Un coniglio, un cane, un lungo becco d'oca. Mi specchiai, e ciò che vidi fu un brutto muso di talpa, con le vibrisse nere.
- Siedi con noi, compagno. Mi invitò il coniglio.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806221508
eBook ISBN
9788858425381

Livello 1

Piú o meno un anno fa, Cosmo e io vagavamo per il centro commerciale di Foxburg quando ci accorgemmo che una ragazza ci stava seguendo. Era uno schianto, di quelle che hanno un culo irripetibile e lo sanno benissimo. Indossava un paio di jeans attillati e una maglietta con sopra un’immagine di Nel paese dei mostri selvaggi. L’originale di Sendak, non lo schifo di film che ci avevano fatto in seguito. Aveva gli occhi scuri e i capelli scompigliati, e un orribile paio di cuffie arancioni molto care, e molto poco affidabili. Doveva essere ricca, tanto da potersi permettere di comprare le cose senza starci troppo a pensare. Non come me e Cosmo, che avevamo passato in rete settimane prima di scegliere le cuffie migliori da attaccare al computer.
– Ma ci sta davvero seguendo? – chiesi al mio amico.
– Ah-ah.
– E perché?
– Perché sono bello?
– Scemo.
– Molto bello.
Si appoggiò con la schiena al muro. Faceva sempre cosí: non appena poteva, cercava un muro a cui sorreggersi, come se stare in piedi fosse un lavoro.
– Secondo te come si chiama? – insistetti. – Raquel? Charlotte?
– No. È piú il tipo da Rhonda.
– Che razza di nome è?
– Hai presente il ciclo di Expanse?
– Di James Corey?
Avevo presente. Corey è uno scrittore che non esiste. Un nom de plume che nasconde due autori. Ci pensai un attimo su e risposi: – Non c’è nessuna Rhonda, in Expanse.
– Ma dovrebbe esserci.
Riprendemmo a camminare.
Rhonda, o chiunque fosse, era sempre dietro di noi, lungo le scale mobili e la fila di negozi al piano alto del centro commerciale. Ci fermammo davanti a BookStone. Mentre fingevamo di dare un’occhiata agli ultimi libri usciti, la ragazza entrò nel negozio di vestiti subito prima. Continuando a simulare interesse per i libri, ci domandammo cosa fosse meglio fare. Eravamo due ottimi giocatori, in rete, rapidi a valutare le opzioni, ma prendere una decisione su un imprevisto reale, una ragazza che pareva seguirci, ci metteva in autentica difficoltà.
– Magari voleva solo comprarsi un completino, – ipotizzò Cosmo, guardando la vetrina accanto.
Io non vedevo nessun completino da comprare. Era come se sui manichini fossero caduti degli ombrelloni fatti a pezzi.
– Oppure ha capito che non abbiamo un hair stylist e che non ci facciamo le sopracciglia, – continuò lui.
– Scusa?
– Non siamo cool.
Impiegai una decina di secondi a capire che mi stava prendendo in giro. No, che non avevamo un hair stylist. Io usavo una macchinetta, a casa, e Cosmo neanche quella; aveva un testone di capelli riccioluti e fitti come i rotoli di un autolavaggio. Non eravamo cool? Non lo so. Ignoravamo ogni tipo di moda, di brand, avevamo quattro soldi in tasca e la sola intenzione di spenderli in musica, film e libri. Amavamo ciò che era seriale, e ci piaceva il calcio, a patto che non ci chiedessero di entrare in una squadra; non suonavamo in una band, non avevamo vinto il campionato di rugby o la regata di canottaggio e non avevamo ottenuto un finanziamento milionario per una start up digitale che ti faceva l’oroscopo in base a come tagliavi la pizza. Eravamo freschi di diploma, con ottimi voti in ciò che ci piaceva e voti discreti nel resto, e potevamo smontare e rimontare un intero computer in meno di tre minuti. Ma da lí a immaginarci perché una simile ragazza ci stesse seguendo ce ne voleva. Uno meno deprivato socialmente di noi sarebbe tornato sui propri passi, sarebbe entrato nel negozio in cui la tipa si era nascosta e le avrebbe chiesto come si chiamava. Magari l’avrebbe invitata a bere un drink, o al multisala a vedere l’unico film non di supereroi, nella speranza di far decollare la serata. Noi no: noi avremmo visto il film di supereroi. Da soli. Pensammo di darcela a gambe, questo sí. E piú il tempo passava e restavamo paralizzati davanti a BookStone come se avessimo appena scoperto che il Signore degli Anelli era un trans, piú ci convincevamo che dovevamo farlo. Scappare via, intendo. Riprendemmo a camminare. Cosmo con i boxer che gli uscivano dai pantaloni sfondati e io con il cappuccio della felpa tirato su, tanto per nascondere il mio taglio di capelli fatto in casa.
Un attimo dopo lei ricomparve e ci seguí mentre sfilavamo davanti a Bebedance, Pandora e Le Cheval: insegne che non avevo mai notato prima, nonostante fossi stato in quel centro commerciale almeno un milione di volte. A ogni nuovo negozio mi sembrava di essere come quello del Pozzo e il pendolo di Poe, con una lama misteriosa sulla testa che oscillando si avvicinava sempre di piú. C’era da guardarsi indietro increduli. Per un’oscura ragione una splendida ragazza caraibica con un paio di costosissime cuffie arancioni e un culo spaziale stava seguendo due sfigati che poco prima del suo arrivo parlavano dell’opportunità di avere Alan Moore come primo ministro. Se le sfugge la ragione per cui glielo racconto, Direttore, immagini di tracciare una retta pressoché infinita al cui estremo ci sono le cose interessanti da dire a una ragazza. Ecco: Alan Moore è all’altro estremo. Cosí facemmo l’unica cosa che rimaneva da fare, e che avremmo voluto fare entrambi sin dall’inizio: ci mettemmo a correre.
Perché?
Non so risponderle. La mia autostima vorrebbe dare la colpa al mio amico, dato che insieme eravamo piú inclini a comportarci in modo stupido. Ma mi rendo conto che non è una spiegazione accettabile. Crede che se fossi stato solo, mi sarei seduto a quel tavolino che Cosmo e io stavamo superando a grandi falcate, avrei tirato fuori dalla tasca dei jeans una copia della biblioteca del Signore delle Mosche, o di Siddharta – le due letture migliori per piacere alle ragazze – e l’avrei invitata a sedersi accanto a me?
Non penso proprio. Sarei fuggito via anche prima, lungo quel corridoio di marmo dall’aspetto vagamente veneziano, e giú per le scale mobili, sgomitando tra le signore indispettite, fino a uscire dal centro commerciale, appena sotto la luce dell’insegna «Oracle».
– C’è ancora? – mi domandò Cosmo.
– Eccola che arriva!
Scappammo senza la minima esitazione su autobus diversi, lui il 14 e io il 17, destinati ai due lati opposti della città. Dio, quanto era stato inutile, e bello.
Solo una volta che mi fui accomodato nel rassicurante sudiciume dell’ultimo sedile in fondo, ebbi il coraggio di guardare attraverso i vetri. Il pomeriggio aveva quella luce incerta che precede il tramonto. Gli stessi colori dell’insegna opalescente del centro commerciale. E lei non c’era piú. Inghiottita nella folla, risucchiata dalla scala mobile, chissà.
Richard salí proprio allora. Un attimo prima che le porte del 17 si chiudessero. Ma io ancora non sapevo, che lui era Richard. Registrai un normalissimo uomo di colore, uguale a decine di altri uomini di colore, che si sedette due posti davanti al mio e mi ignorò per l’intera durata del viaggio.
Io feci lo stesso, i pollici che correvano sulla tastiera del telefonino per condividere con Cosmo ogni pensiero.
Incastrato con le ginocchia contro lo schienale davanti, mi ritrovai a fare una specie di bilancio della mia vita. Ero felice? Soddisfatto? In linea di massima sí, anche se convivevo con il vago senso di angoscia e di urgenza che secondo i libri è un segno distintivo della mia età. Mi opprimeva il passato. E mi dava ansia il futuro. Le solite cazzate, avrebbe detto Cosmo: ormoni, riti di passaggio, quel genere di cose. Il che mi portò a pensare da quanto tempo conoscevo il mio amico. Ci eravamo incontrati sui banchi di scuola: lui non intendeva rimanere seduto e io non intendevo mettermi accanto a nessun altro dopo che mi aveva detto di chiamarsi Cosmo. Non come soprannome. Cosmo era il suo nome di battesimo, era scritto sui documenti. E uno con un nome del genere è cosí facile da trovare che posso anche evitare di dirle il suo cognome, Direttore. Il mio, all’epoca, era ancora Mirrock. Che razza di amico, eh?
Abbiamo attraversato insieme tre cicli scolastici – tredici anni gomito a gomito, non so se mi spiego – prima di cacciarci in questo casino, perché ci eravamo capiti al volo. Cosmo quasi non sapeva giocare a nascondino, ma quando i suoi gli avevano regalato un Amd, un personal computer, l’aveva smontato prima ancora di accenderlo. Il diploma l’avevamo in allegato a un’e-mail, perché non avevamo voluto spendere dodici euro per ricevere la copia stampata sulla pergamena della scuola. Cosa ce ne facevamo?
Alla fine delle superiori io avevo hackerato metà dei server di videogiochi del mondo, e Cosmo renderizzava poligoni con la stessa facilità con cui lei si prepara un gin tonic. Aveva già mandato in giro un paio dei suoi codici migliori per cercare di farsi assumere da qualche industria di programmazione, mentre io avevo in mano la borsa di studio alla Millicent, l’università venti chilometri a sud di Foxburg, verso il confine. Roba che potevo fare avanti e indietro col treno in giornata continuando a vivere nel seminterrato di casa dei miei. Sognavo di fare cinema, di diventare un regista, o anche un produttore. Niente di ancora troppo pianificato. Una volta avevo proposto a Cosmo di prenderci un appartamento insieme, magari vicino alla Millicent, dove lui avrebbe programmato e io guardato film. Per tutta risposta lui si era appoggiato con la schiena al muro e mi aveva detto: «Fico. Dài, ci penso».
E la faccenda era finita lí.
L’autista del 17 cambiò marcia e quel bestione prese a ruggire come Shere Khan nel film della Disney. Eravamo arrivati alle colline di Foxburg. I palazzi si diradarono, la strada si fece piú buia, e fuori dal finestrino presero a scorrere le siepi delle prime villette. Chiamai la mia fermata con una curva di anticipo e avanzai in equilibrio precario fino alla porta anteriore, al lato del conducente.
– Grazie, – lo salutai scendendo.
Per raggiungere il nostro complesso residenziale, bisognava imboccare una fettuccia di asfalto screpolato, con tanto di cartello malfermo che sconsigliava di percorrerla: «Attenzione! Si raccomanda il passaggio ai soli residenti». Casa mia era proprio in fondo, oppressa da una corona di alberi che aveva cominciato a perdere le foglie ancor prima dell’estate. Due piani di legno con un vasto seminterrato, che da un paio d’anni era diventato il mio seminterrato. Gran parte dei nostri vicini aveva abbandonato le proprie abitazioni, che potevano sprofondare da un momento all’altro. Un tempo c’erano delle miniere lí sotto, e da quando alcune villette erano state inghiottite dal terreno, la zona era stata dichiarata ad alto rischio.
Non per noi. Mio padre si era imputato, dicendo che non c’era nessun pericolo. Che era solo una manovra di quei porci di Alister & Son, i costruttori di non so che grattacielo famoso. Io oscillavo tra il credergli per il fatto che era mio padre e il pensare che stare lí fosse una grandissima stronzata. Lo feci anche quel giorno: oscillai. Poi mi infilai gli auricolari con l’intenzione di farmi straziare dai Sigur Rós fino alla porta di casa, e cosí facendo a malapena mi accorsi dell’altra persona che era scesa alla mia stessa fermata.
L’uomo di colore.
Richard.
Potrei dire che casa dei miei era bella solo per rispetto. Era vecchia, cadente, circondata da un fazzoletto di prato che mia madre si ostinava a chiamare giardino, e dal desolante panorama delle altre abitazioni vuote, transennate, con i viali segnati dai nastri del dipartimento di Sicurezza e da file di alberi spelacchiati.
Il mio seminterrato era una tetra cantina ammuffita che Cosmo e io avevamo dipinto di viola e tappezzato, con scarso successo, di bustine di gel di silice per succhiare via l’umidità.
Mia mamma non voleva che stessi là sotto, perché diceva che sarebbe stata la prima porzione di casa a essere inghiottita, nella malaugurata eventualità che fosse venuto giú l’edificio. Papà, invece, folgorato dal suo incrollabile convincimento che nulla sarebbe mai davvero cambiato, l’aveva definita una sistemazione «eccentrica». E questo era quanto.
Erano venute un paio di équipe di geologi – che mi avevano anche lasciato un biglietto da visita – per fare dei carotaggi del terreno, ed entrambe le volte se ne erano andati via senza darci alcuna informazione. Dal Comune ci avevano spedito diverse ordinanze di evacuazione, ma non c’era verso. Noi Mirrock non intendevamo mollare. Quella era casa nostra, porca puttana, diceva papà – anche solo per il gusto di scandalizzare mia mamma –, e porca puttana non ci saremmo mossi di lí. Era una villa grande, in mezzo al verde, lontano dal traffico; con l’indennizzo che ci proponevano non ce ne saremmo mai potuti permettere una simile. Mio padre era un professore di Storia e mia madre faceva lavoretti occasionali come sarta. Ma il problema non erano i soldi, era il principio. Il giardino dei Grismani – dodici metri davanti a noi – era sprofondato mentre loro facevano colazione: ora la cucina si affacciava su una voragine profonda cinque metri. Era la storia del posto. La storia di Foxburg. E magari anche noi avremmo finito per farne parte, diceva papà, sollevando le spalle come per scrollarsi di dosso tutti i nostri antenati, a partire da quei coglioni che avevano costruito le case sopra miniere d’argento esaurite.
Quando si erano aperte le prime grotte, io avevo quattordici anni. A me e a Cosmo non era sembrato vero. Ci eravamo messi subito a esplorarle, e a obbligare metà dei ragazzini del quartiere a fare il battesimo delle miniere. «Ora vai là sotto e ci resti senza frignare per almeno mezz’ora, chiaro? Neanche un singhiozzo, o sei morto!»
...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. La confraternita
  4. Prologo
  5. Livello 1
  6. Livello 2
  7. Livello 3
  8. Livello 4
  9. Livello 5
  10. Livello 6
  11. Livello 7
  12. Intervallo
  13. Livello 8
  14. Livello 9
  15. Livello 10
  16. Livello 11
  17. Livello 12
  18. Livello 13
  19. Livello 14
  20. Livello 15
  21. Livello 16
  22. Livello 17
  23. Livello 18
  24. Livello 19
  25. Livello 20
  26. Livello 21
  27. Livello 22
  28. Livello 23
  29. Livello 24
  30. Livello 25
  31. Livello 26
  32. Epilogo
  33. Il libro
  34. L’autore
  35. Copyright