Convento di Santa Maria sopra Minerva.
19 dicembre 1624.
– Conoscevo la vittima, sí –. Padre Francesco Capiferro, segretario dell’Indice, uscí dalla penombra del colonnato e proseguí sull’erba innevata, nell’aria frizzante del mattino. – Era fra’ Pietro Rebiba, consultore dell’Indice.
Lo Svampa osservò la sagoma nera del religioso stagliarsi sotto un cielo dalle sfumature ferrigne, poi gli andò dietro. Si trovavano in uno dei due chiostri del convento, tra lunette affrescate con la vita di santa Caterina da Siena e un vecchio pozzo su cui zampettavano dei passeri. Tutt’intorno sorgevano fabbricati assai piú recenti, eretti al tempo del Concilio di Trento per ospitare schiere di prelati giunti in pellegrinaggio da ogni plaga della cristianità, portando con sé i loro intrighi e le loro ossessioni. L’inquisitore ne percepiva quasi l’eco, un lamento di anime frustrate sotto quella parvenza di quiete. Intra Ecclesiam nulla salus.
– Era frate domenicano o gesuita? – chiese, tornando sull’argomento.
Capiferro arricciò i baffi lucidi di olio di gelsomino e lo studiò di sottecchi. – Domenicano, naturalmente. Come voi e me.
Fra’ Girolamo non l’aveva dato per scontato. La Congregazione dell’Indice, sorella piú giovane dell’Inquisizione, stava diventando terreno d’infiltrazione per la Compagnia di Gesú, a dispetto dell’ordine domenicano che ne deteneva il controllo. L’ennesima guerra sotterranea combattuta nei corridoi di San Pietro, come in ogni chiesa, biblioteca o confraternita pia del mondo.
Si limitò ad annuire, per non guastare con una parola di troppo un rapporto ancora sul nascere. Simili fraintendimenti gli capitavano sovente, al punto da avergli fatto guadagnare gli epiteti di insensibile, menagramo e sobillatore. Pur infischiandosene di gran parte del genere umano, era tenuto a portar rispetto verso colui che si fregiava da nove anni del titolo illustre e temutissimo di segretario dell’Indice.
Continuò a fissare gli edifici intorno a sé con la sgradevole sensazione di essere spiato. C’era da domandarsi se Capiferro avesse scelto quel luogo di proposito, per intimidirlo. O per sottolineare che, al pari suo, di mastini del Signore sguinzagliati nell’Urbe ce n’erano fin troppi. D’altro canto l’inquisitore non percepiva in lui alcuna ostilità. Perseverò a passeggiargli accanto, lasciandogli l’onere di rompere il silenzio.
Non tardò molto dacché il segretario raccogliesse l’invito. – Prima di addentrarci nel caso Rebiba, – disse senza alcuna remora, – concedetemi di esprimere incertezza su di voi. O meglio, sull’incarico che siete chiamato a svolgere.
Fra’ Girolamo inarcò un sopracciglio. – Il maestro del sacro palazzo ha forse tralasciato d’informarvi?
– La sua missiva è alquanto vaga, – confessò Capiferro. – Per giunta tutto si è svolto troppo in fretta, nel cuore della notte. Abbiate pazienza, magister, se stento a raccapezzarmi.
– Non sono qui per rompervi le uova nel paniere, – volle tranquillizzarlo, curandosi di non sembrare troppo condiscendente. – Ossia, – specificò, – non interferirò…
– Al contrario, spero lo facciate! – Con uno slancio cameratesco, Capiferro frugò in una manica della cappa e ne estrasse una pipa di gesso dal lungo cannello, come se ne vedevano pendere sulle barbe di certi marinai e viaggiatori olandesi. – Voi non sapete cosa significhi trascorrere giorni e giorni a leggere resoconti su libelli licenziosi, tutti uguali, in cui vanagloriosi scribacchini fanno cimento del loro misero estro, – sospirò. – Ebbene, dopo mezzo secolo di censure, indagini e ispezioni di dogana, è a questo che si riduce la funzione dell’Indice! Capirete pertanto come il sopraggiungere di un inquisitore foraneo nominato commissarius per indagare su un delitto rappresenti per me un’evasione dalla noia.
Fra’ Girolamo non faticò a cogliere nelle sue parole una critica all’Inquisizione romana, che pur di espandere la propria autorità non si faceva scrupolo di limitare quella dell’Indice. Subodorava però ben altro sotto la sottile ironia del segretario. Si strinse nelle spalle, evasivo. – Mi è stata conferita una carica alquanto insolita, ve ne do atto.
– Insolita è dir poco, caro magister. Se la memoria non m’inganna, ed è assai improbabile che lo faccia, l’ultimo commissarius fu nominato oltre cinquant’anni fa. Da allora le strutture ordinarie dell’Inquisizione e dell’Indice si sono mostrate piú che bastevoli.
– Non posso darvi torto. D’altro canto, l’uccisione di Pietro Rebiba esula fin troppo da quanto vostra grazia definisce «ordinario».
Al sentir nominare il confratello, Capiferro s’incupí. – Sono al corrente dei fatti, – e prese una boccata di fumo. – È accaduto in rione Pigna, dico bene? Presso la bottega dello stampatore Alessandro Zannetti.
– Ormai la bottega appartiene a moglie e figli, – precisò l’inquisitore, – dacché lo stampatore è deceduto due giorni fa, per malattia. Mentre si consumava il delitto, la famiglia partecipava alla veglia funebre nella chiesa di San Marco, sempre in rione Pigna.
– Dunque, nessun testimone?
– Nemmeno un servo o un garzone, a quanto pare. Sono stati i familiari dello Zannetti a imbattersi per primi nel cadavere. Rincasando dalle esequie, dopo l’imbrunire, hanno trovato aperto l’ingresso della bottega attigua alla loro abitazione. Pensando a un furto, si sono precipitati all’interno.
– Nutrite già dei sospetti?
– Sospetti? – gli fece eco lo Svampa con una nota di sarcasmo. Si avvicinò al pozzo, chiedendosi se fosse saggio dar voce a un’opinione che nel corso degli anni gli aveva procurato non pochi contrasti. Del resto il suo peggior difetto era l’orgoglio, insieme al bisogno di rinfacciare costantemente, a chiunque, quanto fosse al di sopra del comune intendimento. – Il sospetto è per definizione una dubitatio incerta, – decretò, – ovvero un abbaglio fondato sull’intolleranza, sull’ottusità e sui luoghi comuni. Una contraddizione in termini, invero, di cui nessuna autorità dovrebbe tener conto se non per proferir scempiaggini.
Francesco Capiferro rimase con la pipa sulle labbra, rapito dall’improvviso involarsi dei passeri. – Quindi, – concluse faceto, – oltre a dar del somaro a qualsiasi magister del Sant’Uffizio, gettate alle ortiche le regole sul sospetto e sull’investigatio celebrate da sua santità Paolo III.
– Se gli altri son ciechi, – si schermí lo Svampa, – non vedo perché io debba bendarmi gli occhi alla loro stessa guisa.
– Non credete quindi nell’infallibilità dell’Ecclesia?
– Io credo nelle parole di san Tommaso d’Aquino, secondo cui giudicare in base al sospetto equivale a peccato mortale.
Il segretario sembrò diviso tra l’ammirazione e l’impulso di obiettare. – Ammesso che siate nel giusto, – si limitò a dire, – come intendereste condurre l’indagine?
L’inquisitore si appoggiò ai margini della bocca di pietra, attratto dal buio della cisterna. Lo stesso buio scorto nella bottega Zannetti e che gli si era già ramificato nell’anima. – Attenendomi al metodo del furetto, – rispose.
– Ovvero?
– Il furetto, – ripeté, quasi avesse espresso un’ovvietà. – Gli antichi cacciatori si servivano di quella bestiola per stanare i conigli, spingendoli cosí a finire dentro una rete. Ebbene, nel nostro caso la tana del coniglio consiste nell’insieme degli eventi collegati al crimine. Colui che intende assumerne piena coscienza deve addentrarsi in essi, come il furetto nel rifugio della preda, al fine di portare alla luce nomi, indizi e moventi. Badate bene, reverendo padre, alludo a fatti oggettivi e inalterabili. Congelati nell’attimo, per cosí dire.
Sulle labbra del segretario affiorò un sorrisetto scettico. – Sempre che non vogliate far rivoltare nella tomba Bernardo Gui e compagnia bella, dovrete interrogare anche qualche persona.
– Le persone sono accidenti necessari, – minimizzò fra’ Girolamo. – Se ne deve far ricorso, è evidente, ma per quanto mi riguarda ciò avviene sempre con la massima cautela. Con i loro sproloqui, le loro antipatie e i loro pregiudizi, le persone tendono a inquinare i nostri pensieri, a mentire, a distoglierci dalla visione d’insieme. Il piú delle volte si rivelano inutili quanto i sospetti.
– A volervi prestar ascolto, si direbbe che la verità esista soltanto al di fuori del mondo tangibile.
– Del mondo presente, per essere precisi –. Lo Svampa sventolò le mani per allontanare le effusioni di tabacco. Gli odori intensi lo nauseavano, specie subito dopo il risveglio. – La verità certa risiede soltanto in ciò che è già accaduto, ovvero negli eventi immutabili e permanenti del passato. Si tratta di una dimensione definitiva e assoluta come la parola di Dio. Basterà studiarla, isolandoci dall’imprevedibile fluire che ci circonda e, a condizione che il nostro esame sia stato puntuale, riusciremo a svelare il crimine.
– Torniamo al crimine, pertanto, – lo invitò Capiferro, avvicinandosi a una panca di pietra ai margini del chiostro. Spazzolò via la neve con un lembo della cappa e si sedette. – Crimine di una barbarie inaudita, senz’ombra di dubbio, benché, a prima vista, manchevole di un’impronta ereticale che giustifichi l’intervento di un inquisitor commissarius.
Fra’ Girolamo rimase in piedi al suo cospetto. – Vi esprimereste in altri termini se conosceste il contenuto delle pagine.
– Quelle trovate in bocca alla vittima?
– Non solo in bocca –. Lo Svampa ripensò alla scena di quella notte, pungolato dalla sensazione di essersi lasciato sfuggire un elemento fondamentale. – Fortuna ha voluto che uno dei birri chiamati dagli Zannetti fosse in grado di leggere e abbia allertato l’autorità pontificia. Nel giro di poche ore, il maestro del sacro palazzo ha preso atto della situazione e, di comune accordo con le venerabili eminenze dell’Inquisizione, si è rivolto alla mia esperienza.
– Ed esattamente, di quale esperienza si tratterebbe?
– Permettete che sia io a porre le domande, – lo tacitò fra’ Girolamo, a rischio di indispettirlo. – Se stanotte ho scelto di prendere alloggio a Santa Maria sopra Minerva, non è stato né per casualità né tantomeno per capriccio. Mi occorre il vostro aiuto.
– Ne sono onorato, – ribatté il segretario, canzonatorio. – Mi porterete con voi nella tana del coniglio?
– Vi ho scelto per il ruolo che rivestite, – precisò lo Svampa, sorvolando sul tono scherzoso. – Fungerete da lente affinché io possa meglio intendere alcuni aspetti del caso. Le mansioni svolte da Pietro Rebiba, per esempio.
Francesco Capiferro attese che i rintocchi dell’ora terza rimbalzassero dal campanile della Minerva a ogni bronzo di Roma, riempiendo l’aria con le loro vibrazioni. – Fra’ Rebiba, – rispose poi, staccando la pipa dalla bocca, – era membro della Congregazione dell’Indice, sotto il mio diretto controllo. Questo però lo saprete già. A voler quindi entrare nel merito era un consultore, ovvero uno degli eruditi incaricati di analizzare e valutare il con...