Controvento
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Controvento

Storie e viaggi che cambiano la vita

  1. 184 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Controvento

Storie e viaggi che cambiano la vita

Informazioni su questo libro

Dai colori dell'India ai segreti del Monte Athos. Dalla sterminata cordigliera dell'America Latina agli ipnotici silenzi della Siberia. Dalle dolci sinuosità della Moldava fino al Pacifico e oltre. Dalle antiche vie che costeggiano il mare alle strade che uniscono le grandi città. Il viaggio in auto di Oscar Niemeyer lungo oltre mille e duecento chilometri da Rio de Janeiro fino a Brasilia per dare vita a una città mai esistita prima. Il cammino a piedi di Vincent Van Gogh tra il Belgio e la Francia nell'inverno in cui finí per capire cosa gli serviva davvero per diventare pittore. La soglia inattesa con cui è costretta a misurarsi Frida Kahlo. La fuga di Joni Mitchell dalle battaglie meschine della fine di un amore. La corsa insonne di Keith Jarrett verso Colonia. Controvento racconta le storie di chi, attraversando un ponte, mettendosi su una strada, salendo su un autobus o un treno, ha trovato in un giorno, in un istante, il modo di cambiare e trasformarsi. I viaggi hanno segnato la vita di molti e di molti altri la segneranno nel tempo che verrà: perché l'altro e l'altrove hanno sempre in serbo qualcosa che non abbiamo ancora conosciuto, che lenirà il nostro dolore e ci schiuderà il passaggio verso la strada poco battuta.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806232757
eBook ISBN
9788858425992

Legami e battaglie

Nostalgia della foresta

Fu il presidente della Repubblica Brasiliana, Juscelino Kubitschek, a chiedergli di intraprendere il viaggio verso la città che non esisteva. Oscar Niemeyer si trovava allora sull’altopiano della vita adulta. L’architetto aveva compiuto da poco cinquantaquattro anni. Neppure lui sapeva dire in quale punto della vita si trovasse. Non poteva certo immaginare che sarebbe vissuto fino a centocinque anni e che qualcosa di insperato stava per accadere.
Niemeyer era nato nel quartiere Laranjeiras di Rio de Janeiro, dove aveva sempre abitato. Era un carioca, un appassionato di samba, un architetto affermato e, come accade a pochi di loro, incarnava quella professione con le migliori intenzioni. Forse perché da piccolo rimaneva per ore con il dito puntato in aria e alla madre stupita e preoccupata, che sempre gli chiedeva cosa stesse facendo, lui rispondeva semplicemente: Disegno. Era un uomo a cui piaceva rimanere lí dove era nato, in quella città sul filo del mare con la baia piú sorprendente di tutte.
Ma doveva decidere. Kubitschek gli aveva chiesto di lasciare Rio e andare nel bel mezzo del deserto. Lontano oltre mille e duecento chilometri da tutto quello che aveva di piú familiare, lontano dagli amici e dai parenti, dalla moglie, la figlia, il padre e la madre. Verso Petrópolis, verso le foreste della Serra dos Órgãos, verso Três Rios. Entrare nello stato montuoso di Minas Gerais, passare per Belo Horizonte e proseguire ancora piú in là. Attraversare il confine dello stato di Goiás e raggiungere gli altipiani deserti, il sertão, dove la terra è rossa e tira un gran vento. Partire in direzione della città che non esisteva. Costruire gli edifici piú belli di Brasilia. Oscar capí che alcuni viaggi possono cambiarti la vita.
Quell’invito era un dono, una sorta di sogno tropicale che gli offriva l’opportunità di capire, su una scala impensabile, cosa era davvero in grado di fare. Misurarsi con i limiti, comprendere quel che non sarebbe riuscito a conseguire. Non restava che scoprire con quale mezzo arrivare fin laggiú. A lungo, nella sua testa, Oscar si era concesso l’illusione che prima o poi avrebbe trovato il coraggio di salire le scalette dei nuovi Boeing e, una volta a bordo, in quell’antro pressurizzato, avrebbe accettato che la flessuosa gentilezza di una hostess lo accompagnasse al suo posto, dove avrebbe affrontato l’irrazionale e roboante istante del decollo. A lungo aveva ingannato se stesso con la convinzione che quei mille e duecento chilometri che separavano Rio da Brasilia li avrebbe affrontati in volo. Poi, però, all’acquisto del biglietto aereo seguiva sempre la rinuncia. Finché, dopo una serie di tentativi falliti, non accettò quella sua propensione a rimanere con i piedi prossimi al terreno e si convinse ad andare in automobile. E in quella decisione di percorrere in auto le infinite strade, in quell’idea di mettersi in cammino in una maniera cosí avventurosa si sentí come Don Chisciotte, quel personaggio dalla propensione picaresca e dall’attrazione per l’irreale. In fondo, anche Alonso Quijano aveva compiuto da poco cinquant’anni quando, divenuto Don Chisciotte, partí per il suo lunghissimo viaggio-sortilegio attraverso la Spagna e i suoi deserti. Il viaggio verso qualcosa che non esisteva, ma che era sul punto di esistere solo perché lui aveva cominciato a pensarci. Anche lui si apprestava a erigere qualcosa di immenso, qualcosa che si sarebbe insediato, come solo una grande città può fare, nell’universo dell’immaginario dell’uomo.
Con qualche compagno, con qualche amico, Niemeyer partí verso la città che non esisteva. Forse perché era un carioca e amava la compagnia, forse perché capiva che da solo sarebbe impazzito. Perché dell’altro, del simile e del diverso, dell’amico, non si può fare a meno. Si dice che Niemeyer provasse persino un po’ di piacere nel pregustare quel tipo di viaggi. Senza sapere quando sarebbe arrivato, senza sapere se sarebbe mai arrivato. Intraprendeva le spedizioni verso Brasilia cosí, quasi spinto da una brezza.
Una brezza, un giro del vento, la curva del tempo. Erigere una città, costruire edifici, lasciare un segno. Quando, nel 332 avanti Cristo, Alessandro il Grande volle costruire una città dal nulla per onorare la propria gloria, si rivolse a Dinocrate di Rodi, il piú importante architetto macedone del tempo. Anche lui dovette intraprendere un viaggio, un lungo viaggio fino in Egitto. Costruire una città, pensare una città. Come un Dio che deve creare un universo senza che nessuno gliene abbia fatto mai vedere uno. Come qualcuno che deve misurarsi con l’enigma dell’immaginazione.
Partirono con una Saab. Con lui c’era qualche amico: Gadelha, ovvero Tibério César Gadelha, un giornalista che Niemeyer aveva conosciuto ancora prima di fondare la propria azienda di costruzione; Galdino Duprat, un architetto molto legato a Oscar; ed Eça, che se ne stava per lo piú sdraiato sul sedile posteriore. Duprat era salito in auto solo perché gli avevano giurato che erano diretti a Belo Horizonte. Il viaggio scorreva, sembrava che tutto andasse bene. Brasilia era ancora molto lontana, ma la macchina non mostrava problemi e il clima era splendido. Le montagne della Serra Fluminense e le case di Petrópolis. I quattro amici, anche se guidavano a turno, cominciarono a stancarsi. Il viaggio era lungo e le strade da percorrere perlopiú sterrate. Di tanto in tanto si fermavano per riposare, anche nel bel mezzo di un campo. Poi tornavano sulla strada. Il cielo limpido e un vento forte. Três Rios, Juiz de Fora. Barbacena. Quando non era alla guida, Oscar guardava le nubi in cielo. Era colpito dalle forme inaspettate che sorgevano nello spazio. A volte gli sembravano cattedrali enormi e misteriose. Altre volte prendevano le sembianze di guerrieri minacciosi. Ciascuno ha fatto questo gioco, ciascuno è rimasto rapito dall’illusoria trasformazione di quei carichi di umidità a contatto con i venti. Ciascuno ha assistito alla creazione, ha sentito la vertigine. Ma cosa può provare un uomo che deve costruire una città di fronte alla sfida lieve e leggera, impalpabile e inafferrabile che gli viene lanciata dai soffi del vento? L’enigma dell’immaginazione. Chisciotte. Dinocrate. Niemeyer.
Le strade non erano state asfaltate. Per lo piú si trattava di terra battuta. Dopo diverse ore alla guida, raggiunsero Belo Horizonte. Si fermarono, riposarono. Quando Oscar e gli altri due risalirono in macchina svelando che la meta del viaggio era Brasilia, Galdino Duprat si infuriò. Giustificabile, un viaggio cosí infinito può generare incomprensioni anche tra amici. Sul sedile posteriore Galdino evitò di parlare con gli altri per un bel po’. Dove ora c’è un ponte, piú avanti, verso Três Marias, al confine segnato dal Rio São Francisco, si dovettero fermare. Non potevano fare altrimenti. Sgranchirono le gambe e aspettarono il traghettatore con il ferryboat. Giusto il tempo di starsene un po’ per conto proprio, Duprat ancora imbronciato, Oscar a pensare a quello che sarebbe accaduto.
In alcune foto dell’epoca si vede Oscar Niemeyer camminare con i suoi collaboratori in mezzo ai campi con l’erba alta e il deserto intorno. A Brasilia erano lontani da tutto, coperti dalla polvere rossa. Durante i periodi di siccità quella polvere s’incrostava sulla pelle. Durante la stagione delle piogge rimanevano paralizzati dalle acque torrenziali che scorrevano senza alcun argine. In una di quelle foto, mentre cammina a testa alta, Oscar perlustra il terreno dove sarebbe sorto il Palácio da Alvorada, il palazzo divenuto la residenza del presidente della Repubblica. A colpire di piú di quella costruzione magnifica, a cui per giorni lavorarono oltre settecento operai, sono le colonne rovesciate, leggere come vele, quelle colonne che ancora oggi, a distanza di piú di cinquant’anni, fanno sembrare il palazzo un sogno poggiato momentaneamente sulla terra. Un’idea leggera. Il palazzo dell’Alvorada fu il primo edificio a essere inaugurato il 30 giugno 1958. Agli occhi di André Malraux, che andò a trovare Niemeyer fino a Brasilia, quelle colonne apparvero come le piú belle dopo quelle dei greci.
Ciò che rimane del tempo. Le colonne dei greci. Della originale Alessandria d’Egitto, la città pensata da Dinocrate di Rodi, non rimane quasi nulla. Le stratificazioni del tempo, i terremoti, le guerre, i crolli. Qualche pezzo è sparso nei musei, molti altri giacciono probabilmente negli abissi del Mediterraneo. Un’Atlantide scomparsa. Dinocrate, che quella città l’aveva progettata come ponte tra l’Egitto faraonico e interno e l’impero greco del commercio marittimo, pensò anche alla costruzione delle strade. Le fece realizzare in modo che i venti che soffiavano dal mare vi si incanalassero e corressero per la città, per rinfrescarne ogni angolo. Cosa rimarrà di Brasilia? Cosa accadrà di questo sogno nato negli anni in cui il Brasile volle mettersi alle spalle il passato di colonia tropicale e diventare qualcosa d’altro, di moderno? Gonzalo Viramonte, fotografo e architetto brasiliano, è tornato a Brasilia cinquantacinque anni dopo e ha ritratto gli edifici pensati da Niemeyer. Se si mettono a confronto le sue fotografie con quelle che mezzo secolo prima aveva scattato Marcel Gautherot, quando la città stava sorgendo come un fiore dalla terra, proprio negli attimi in cui Niemeyer lasciava che l’enigma dell’immaginazione lo aiutasse, le differenze sono evidenti, eppure sembrano cosí inessenziali, se si pensa al corso del tempo. Alla fine quegli scatti, realizzati a distanza di poco piú di mezzo secolo gli uni dagli altri, certificano, nonostante l’intenzione, l’impossibilità di catturare il futuro di Brasilia. Viene da pensare che se a osservarle fosse un dio, una divinità, l’essenza segreta dell’universo, forse socchiuderebbe gli occhi e scrollerebbe di pochissimo le spalle, come a dire che il tempo, quello vero, non è ancora trascorso.
Quando il ferryboat li portò oltre il fiume, Oscar e i suoi amici ripresero il viaggio verso Brasilia, verso la città che non esisteva. La strada cominciava a condurli attraverso spazi sempre piú sconosciuti. La vegetazione si faceva piú folta e le condizioni del terreno peggioravano. Sentirono una scossa improvvisa. Rimasero interdetti. Ma non c’era niente da fare. La macchina si era già fermata. Scesero tutti e quattro, anche Eça, quasi sempre sdraiato a sonnecchiare, e si accorsero che l’automobile era finita in una buca. Senza pensare al fatto che si trovassero in discesa, o forse proprio per quello, cominciarono a spingere per fare uscire la Saab da quella cavità del terreno. Spinsero con molta forza e una certa avventatezza, con quella forza che si ha nel bel mezzo della propria vita. La macchina uscí dall’infossamento e prima cominciò a scendere lentamente lungo il declivio, poi sempre piú veloce. Per un po’ le corsero dietro, tutti e quattro dietro quella vettura nel bel mezzo del nulla del Brasile, anche Oscar, l’uomo che stava per diventare il creatore di una città che non era mai esistita. Corsero per un bel tratto, poi si fermarono, tutti e quattro insieme. Anche Oscar. Si fermarono a guardare la macchina che scivolava via, lungo la discesa, veloce, fuori dal loro controllo, nel bel mezzo del Brasile. Loro, da un lato, e la vettura che scivolava via, dall’altro. Cosa provarono lí fermi a scrutare la vettura lungo il pendio? Paura per ciò che li aspettava nel bel mezzo del nulla con la notte ormai vicina? Preoccupazione per come sarebbero arrivati a Brasilia? O invece vennero colti da un inspiegabile e improvviso senso di sollievo e leggerezza?
Dopo averla osservata scivolare via, in quegli istanti preziosi in cui tutto sembra poter accadere, o in cui, per una qualche ragione, il tempo sembra prendere congedo dall’intero universo, la Saab tornò a essere qualcosa di concreto e di reale, molto reale, e andò a sbattere contro la boscaglia. Allora i quattro amici si avvicinarono e girarono intorno all’auto, cercando di capire come tirarla fuori da lí. Cominciarono a temere il peggio. I cespugli della selva erano alti fino alle spalle, ma non si poteva fare altro che tirare e spingere. Alla fine riuscirono a estrarre la vettura. Aprirono gli sportelli e salirono con una certa cautela mista al sollievo di chi ritrova qualcosa che riteneva di aver perduto per sempre. Con loro grande sorpresa, il motore si accese e poterono riprendere il viaggio. Ma quell’abbrivio, quel rinnovato movimento, come alle volte accade, fu solo un’illusione, un ultimo colpo di vita che inganna. L’automobile infatti si spense lentamente, fino a fermarsi di fronte a una ripida salita. Non riuscirono a ingranare la marcia. Le provarono tutte, dettero gas e agitarono la manopola del cambio. Niente da fare: i quattro erano di nuovo fermi nel bel mezzo del nulla con una vettura che non ne voleva piú sapere di accendersi. Non avevano idea di dove fossero. La notte era nera e ogni rumore, anche il piú lieve, veniva amplificato in quel vasto silenzio che li circondava.
Era notte fonda anche quando Oscar Niemeyer e i suoi amici si misero a guardare la struttura dell’Alvorada. Forse dalla stessa distanza da dove, anni prima, avevano osservato la vettura fuggire via lungo la discesa che si perdeva nei cespugli. L’Alvorada era pronta. Rimasero di sasso. Sembrava qualcosa che non aveva altra finalità se non la propria bellezza. Una scultura. Costruire una città in Brasile, tra l’Amazzonia e il nulla. Quando il poeta Iosif Brodskij visitò il Brasile pensò che tutta la cultura europea, con le sue cattedrali, il gotico, il barocco, il rococò, le sue volute, le spirali, i pilastri, non fosse altro che la nostalgia della foresta provata dal primate che la abita nei recessi piú intimi. Per quel motivo, pensò, l’architettura era nata nel Mediterraneo. Perché l’architettura comincia esattamente dove la natura arretra e lascia spazio. Ma quella di Niemeyer era qualcosa d’altro? Era una liberazione dall’era coloniale? Un riscatto? Una rivolta contro tutto quel mondo convinto che nessun brasiliano sarebbe mai riuscito a erigere una città nel giro di pochi anni? Un gesto donchisciottesco, come il viaggio in automobile? O anche quella, inconsapevolmente, era nostalgia della foresta?
Oscar, Duprat, Gadelha ed Eça passarono la notte chiusi in macchina. L’oscurità assoluta. Saranno state le due o le tre di notte, non una sola vettura che passasse di lí. Il freddo penetrava nelle ossa, cosí si strinsero l’un l’altro per scaldarsi. Nessuno riusciva a prendere sonno. «Oh merda!» disse uno di loro quando dal profondo della boscaglia vide due selvatici punti di luce. «Sarà un giaguaro», lo sfotté Eça, prendendosi gioco della paura dell’altro. Nonostante tutto s’incamminarono nel buio.
Quei viaggi tra Rio de Janeiro e la città che non esisteva cambiarono per sempre Oscar. È a Brasilia che la sua architettura divenne piú libera e rigorosa. Libera, disse, in senso plastico, e rigorosa nella preoccupazione di mantenerla in perimetri regolari e definiti. I palazzi cosí leggeri da sembrare che toccassero appena il suolo. Realizzò qualcosa che non s’era mai visto. Quando il cosmonauta Jurij Gagarin arrivò a Brasilia a bordo di un aereo, lui che non era mai riuscito a mettere piede sulla Luna, non poté a trattenersi dal dire: «Ho avuto per la prima volta la sensazione di essere atterrato in un luogo diverso dalla Terra».
Arrivò l’alba, portata da un cielo rosso sangue. La boscaglia si risvegliava, gli uccelli cantavano, la vita pulsava ovunque intorno ai quattro amici. Si erano allontanati, perdendosi, dalla strada giusta? Quanto distava ancora Brasilia? Cosa sarebbe successo loro? Verso le nove del mattino un camion apparve all’orizzonte. Oscar e Gadelha saltarono su, aggrappati ai sacchi, e alla fine della strada scesero per andare a cercare aiuto.
Il 21 aprile del 1960 Brasilia, la città che non esisteva, venne inaugurata ufficialmente tra i festeggiamenti. Niemeyer, però, che amava sempre la compagnia, questa volta rimase a Rio de Janeiro. Lontano da tutto. Non intraprese un altro viaggio. Non partí con nessun amico. Lasciò la vettura lí dov’era e non ne noleggiò un’altra. Per qualche ragione, preferí il congedo alle celebrazioni. Tornò a Brasilia solo l’anno successivo, nell’aprile del 1961, quando Juscelino Kubitschek, il presidente che lo spinse alla curva del tempo, dovette lasciare il potere a Jânio Quadros: tre anni prima che il sogno del nuovo Brasile venisse travolto dalla dittatura militare. Quel giorno pioveva a dirotto, ha raccontato Niemeyer. Come se la natura partecipasse al triste addio. Non assistette alla cerimonia di investitura, come non aveva assistito alle feste di inaugurazione di Brasilia, ma quel pomeriggio si mescolò alla folla. Era cosí inzuppato, che i vestiti gli si incollavano al corpo.

Dove il fiume scompare

Un battello per fuggire verso un bosco in un pomeriggio di sole. L’incedere lento, i paesaggi conosciuti a cui l’occhio guarda con un inconsueto stupore. Il ritorno dell’estate. La brezza e le curve inattese. La sensazione che possa accadere di nuovo qualcosa. L’inspiegabile convinzione che il misterioso meccanismo del tempo, con tutti i suoi avvenimenti, possa rimettersi in moto davvero, lasciandoci intravedere qualcosa: una piazza, un volto, una persona. Qualcosa che prima non si era veduto e che, nel torpore dell’inverno, si era smesso di immaginare e desiderare.
I tram rossi e bianchi su via Masarykovo nábřeží, il lungofiume sulla riva destra della Moldava e il colore del miele del Teatro Nazionale. Milena Jesenská arrivò all’appuntamento, nel cuore di Praga, con quel gruppo di artisti dell’avanguardia. L’estate del 1926, un caffè e una galleria d’arte. L’imbarco Rašín, oggi come ieri. Milena salí sul battello a vapore che prendeva il nome di Primátor Dittrich. Basso e con le ruote a pale, invecchiato dai tanti viaggi e dai tanti passeggeri, uno di quei battelli che facevano avanti e indietro sul fiume da prima ancora che arrivasse il Novecento. Aveva ricevuto l’invito dal Circolo delle Arti figurative. Era tornata a Praga da poco, si era riappacificata con il padre, aveva trovato una stanza dove abitare. Anche il lavoro da giornalista cominciava a dare i primi frutti. Di quella compagnia conosceva poche persone, tutte le altre le avrebbe incontrate per la prima volta. Non era stato cosí anche quando aveva conosciuto Franz Kafka?
Milena Jesenská cosí vitale, vibrante, eppure, nella memoria, nelle narrazioni, cosí inchiodata come una farfalla alla storia dolorosa con lo scrittore piú enigmatico e moderno del secolo che sarebbe stato breve. La sua vitalità era sempre stata affascinante, tanto che Kafka stesso, di lei, diceva che era un fuoco, un fuoco che bruciava come non aveva mai veduto. Quell’estate, anni dopo che lo scrittore era già scomparso, giunse il momento in cui Milena divenne piú che mai se stessa. Una farfalla che nessuno poteva inchiodare ad alcun muro.
La città scorreva ai fianchi del battello. Gli edifici con i giardini fioriti, la rocca del Vyšehrad. A bordo con lei, tra gli altri, c’erano Adolf Hoffmeister e Karel Teige. Personaggi chiave dell’avanguardia Devětsil, il gruppo artistico che aveva preso il nome dal fiore che per primo sboccia in primavera. La sensazione che possa accadere di nuovo qualcosa. Qualcuno, forse, aveva già letto Il castello, uscito postumo proprio quell’anno. Di certo Milena lo aveva avuto tra le mani. Ma del passato, lei sapeva bene cosa si doveva fare. Soprattutto in quel giorno d’estate. Quello stesso anno, in un articolo pubblicato verso la fine di agosto avrebbe scritto che il passato si conosce perfettamente e curarsene è inutile, perché non possiamo cambiarlo. Cosí come l’avvenire, di cui costantemente ci preoccupiamo, ma inutilmente, giacché non siamo in grado di prefigurarlo né di plasmarlo a nostro piacere. «L’unica cosa di cui non sappiamo niente è il presente, questo pomeriggio, l’ora stessa che stiamo vivendo».
L’ora che stiamo vivendo. L’incedere lento, i paesaggi conosciuti a cui l’occhio guarda con un inatteso stupore. Quel fiume, Milena lo conosceva bene. Quando era studentessa, con le amiche, di notte si tuffava nella Moldava senza togliersi gli abiti di dosso. L’irruenza della vita, la voglia di immergersi nel tempo di quel che accadeva. Il corpo. La sensualità. Leggeva i libri di Knut Hamsun e cercava nelle pagine di Dostoevskij l’ulteriore dose di vita che il giorno, da solo, non poteva offrirle. Il fuoco le bruciava dentro, come molti non avevano mai veduto.
Dopo ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Controvento
  4. Prima di partire
  5. Legami e battaglie
  6. Distacchi e avvicinamenti
  7. Origini e mutazioni
  8. Attese e ritorni
  9. Lacerazioni e riconquiste
  10. Il libro
  11. L’autore
  12. Dello stesso autore
  13. Copyright