Quarantuno colpi
  1. 464 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub

Informazioni su questo libro

Nella Cina dei primi anni Novanta, il giovane Luo Xiaotong decide di rifugiarsi in un tempio abbandonato e diventare il discepolo del Grande monaco Lan. In un monologo irrefrenabile, viscerale, violentemente comico, Luo Xiaotong racconta al maestro il passaggio dal pauperismo maoista all'ingordigia dell'economia di mercato, dipingendo un affresco straordinario della modernizzazione cinese. Per espiare i suoi peccati e pervenire, attraverso l'adesione al buddhismo, alla suprema saggezza, il giovane Luo Xiaotong racconta, costantemente distratto dall'arrivo di una fantasmagoria di persone e dalla rutilante Sagra della carne che si sta organizzando all'esterno del tempio, la propria vita al Grande monaco Lan.
È in primo luogo la storia della rovina della sua famiglia, con il padre che, dopo essere scappato con un'altra donna, torna a casa pentito ma finisce per uccidere la moglie quando scopre che è diventata l'amante di Lao Lan, il capo villaggio. Ma è al contempo, e soprattutto, la testimonianza del degrado morale che ha comportato il passaggio, in Cina, dall'economia socialista a quella di mercato. Il mito della prosperità ha trasformato la macellazione, un'attività tutto sommato artigianale e tradizionale alla base dell'economia del posto, in una carneficina industriale che non si ferma nemmeno davanti a metodi illegali e atrocemente crudeli.
E Luo Xiaotong, benché ancora bambino, è parte attiva in questo processo, perché l'idea di rendere accessibile a tutti la carne, di cui è patologicamente ingordo, gli stimola uno spirito imprenditoriale che fa di lui l'eroe della zona, osannato come un santo, elevato a divinità. Ma quando la madre muore, il padre finisce in prigione e la fabbrica è messa sotto processo per frode, è costretto a vagare per le campagne chiedendo l'elemosina. Nel momento in cui però trova i proiettili di un vecchio mortaio nasce in lui il desiderio di vendetta nei confronti di Lao Lan, l'artefice dell'arricchimento degli abitanti (oltre che della sua rovina).
Partendo da suoi temi fondanti - la fame, il sesso, la mutazione della società contadina e lo stravolgimento dello stato di cultura e natura che ha comportato - Mo Yan inscena, con ironia e senso del grottesco, l'esito della modernizzazione cinese, carnevalesco contrappasso di un pauperismo estremizzato dalle dissennate politiche maoiste.

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2017
Print ISBN
9788806218560
eBook ISBN
9788858425510

Trentaseiesimo colpo

L’immane mole del figlio di Lan il gran dignitario era adagiata sul catafalco, circondata da fiori freschi. Sembrava sdraiato su un’aiuola. Alcune persone in nero gli giravano intorno, accompagnate dai toni lugubri della marcia funebre. Il padre era fermo alla testa della bara, curvo sul figlio ne fissava il volto. Poi drizzò la schiena e alzò la testa, un sorriso gli illuminava il viso. Disse ai presenti: «Mio figlio, sin dalla nascita, è vissuto nell’agio. Non ha conosciuto crucci né dolori. Il suo unico interesse era nutrirsi di carne e, in questo, è stato pienamente soddisfatto». Posando lo sguardo sulla collinetta torreggiante del suo ventre, continuò: «Dopo averne mangiata a sazietà, se n’è andato tranquillo nel sonno, senza la minima sofferenza. La sua è stata una vita felice e io sento di essere stato un buon padre. Ciò che maggiormente mi consola, è che ero qui quando lui ci ha lasciato, cosí ho potuto organizzare le esequie nel miglior modo possibile. Se davvero esiste un aldilà, lui sta portando con sé tutto quanto gli serve. Ora che non c’è piú, non ho altre preoccupazioni. Stasera nella mia residenza terrò un grande ricevimento, siete tutti invitati. Indossate i vostri abiti migliori, portate le vostre donne piú belle e venite a bere liquori di marca e a mangiare cibi pregiati». Nello splendido salone dei Lan, tra le fragranze di piatti elaborati, Lan alzò il calice di brandy di qualità superiore. Il liquido dai toni ambrati ondeggiava nel bicchiere. «Bevo a mio figlio che è vissuto negli agi e ci ha lasciato senza soffrire!» Non sembrava provasse il minimo dispiacere. Davvero.
La mia sfida con i tre uomini si svolse all’aperto, nello spazio davanti alla cucina dello stabilimento.
In seguito, mi è capitato spesso di ripensare a quell’episodio. E ogni volta che mi succede mi distraggo, dimentico ciò che sto facendo e mi sembra di tornare a essere lí, anima e corpo.
L’incontro era fissato per le sei del pomeriggio. A quell’ora gli operai del turno di giorno avevano appena staccato e quelli del turno di notte stavano per cominciare. Era l’inizio dell’estate, il periodo in cui le giornate sono piú lunghe. Il sole era alto nel cielo, i contadini ancora nei campi a lavorare. La mietitura era appena terminata e nell’aria aleggiava un profumo di avena tagliata. Sulla strada davanti alla fabbrica, il grano nuovo era sparso a seccare. A tratti, soffiava una brezza che portava gli odori delle attività agricole. Vivevamo nel villaggio ed eravamo registrati come contadini, ma da tempo non coltivavamo piú la terra. Di giorno pompavamo liquido nelle bestie, la sera, quando erano gonfie d’acqua, le scannavamo. Nella prima metà della notte le squartavamo e gli addetti dell’ufficio d’ispezione sanitaria ci mettevano il timbro blu. Il resto della notte serviva per trasportarle in città. I primi giorni, un subordinato di Han Dashu veniva a fare il suo turno con l’aria formale di chi pensa: «Niente concessioni, sono in missione ufficiale», ma si stancò subito. Lasciò il timbro e la pasta d’inchiostro nel laboratorio e noi ci mettevamo il timbro da soli. Per evitare che l’acqua uscisse dalla carne riducendone il peso o rovinandone la qualità, cospargevamo la pelle di colla impermeabilizzante. Non faceva bene alla salute, ma neanche cosí male. Non avevamo ancora un magazzino frigorifero, e le bestie dovevano essere macellate e trasportate la notte stessa. Avevamo tre camion modificati appositamente, al volante c’erano tre soldati smobilitati, autisti provetti, dei duri con un’aria fredda e impassibile, che mettevano soggezione. Alle due di notte, il portone di ferro si apriva cigolando sotto la spinta dei due vecchi custodi e i tre camion pieni di «carne che ispirava fiducia» uscivano in fila indiana, furtivamente, facevano una curva per arrivare alla strada asfaltata e, dopo aver preso fiato, si lanciavano in avanti come cavalli selvaggi, la luce bianca dei fari che illuminava a giorno il loro cammino verso la città. Anche se sapevo che avevamo usato acqua limpida di pozzo per mantenere la freschezza della carne, quando vedevo i camion uscire di nascosto e, appena sulla strada, accelerare lanciandosi in una corsa folle, dentro di me sentivo che non era cibo sano quello che trasportavano, ma qualcosa di proibito, come droga o esplosivi.
È necessario che ora mi occupi, una volta per tutte, del malinteso persistente nell’opinione pubblica che la carne con l’acqua faccia male. Certo, sarà stato anche vero quando nel Villaggio dei macellai si macellava privatamente e contro la legge, senza rispettare l’igiene ambientale e le norme sanitarie per l’utilizzo dell’acqua, immettendo sul mercato una gran quantità di prodotti scadenti. Ma la tecnica applicata nel nostro stabilimento di immettere acqua prima della macellazione rappresentava una rivoluzione storica, per dirla con le parole di Lao Lan, «una riforma che non si sarebbe mai apprezzata abbastanza». Un altro elemento importante rendeva la nostra carne piú fresca e piú tenera di qualsiasi altra. Noi non utilizzavamo acqua corrente, come avremmo potuto tranquillamente fare. Perché quella conteneva candeggina e altre sostanze chimiche. La nostra carne era un prodotto di agricoltura civile, ci rifiutavamo di immettere qualsiasi prodotto chimico. Per questo usavo l’acqua del pozzo di profondità, che si trovava sui terreni della fabbrica. Era limpida e dolce, meglio dell’acqua distillata o quella di sorgente che trovi nelle bottiglie. Nettare prezioso, paragonabile al vino della migliore qualità. Bastava un lavaggio e gli occhi rossi e gonfi, provocati dal calore interno ridiventavano limpidi all’istante. Due ciotole della nostra acqua e l’urina troppo gialla tornava a essere cristallina come spillata dalla fonte. Pensate che alta qualità poteva avere della carne infiltrata con quest’acqua. E se ciò non basta a mettervi il cuore in pace, beh, allora nulla lo potrà. Tutti dicevano che la nostra carne era buona. I grandi magazzini della città avevano voluto l’esclusiva. Vorrei che smetteste di pensare alle lordure della macellazione illegale, all’immondo fetore della corruzione, la nostra era carne deliziosa e vivace, che mandava un olezzo di gioventú. Peccato che non possa mostrarvela, i miei risultati ormai non esistono piú, soltanto attraverso il racconto posso rivivere le mie glorie e quelle dello stabilimento.
Tutti avevano saputo della gara e un centinaio di persone si raccolsero davanti alla cucina per godersi lo spettacolo, quelli che avevano finito il turno non se ne erano andati e quelli che stavano per iniziarlo erano arrivati prima. A questo punto non posso esimermi dal fare una divagazione, come direbbero gli affabulatori del passato: «I rami si biforcano, ognuno con il suo fiore in boccio, le storie si moltiplicano, ognuna con la sua trama».
Raccontano che, al tempo delle comuni popolari, durante una pausa dal lavoro collettivo, nel nostro villaggio ci fu una gara a chi mangiava piú peperoncini, in palio c’era un pacchetto di sigarette. Era stato il capo della brigata di produzione a decidere il premio e i concorrenti erano mio padre e Lao Lan. Avranno avuto quindici o sedici anni, non erano ancora adulti ma nemmeno ragazzini. Non gareggiarono con peperoncino comune, ma con una varietà particolarmente piccante del «corno di capra». Quaranta per uno, grossi e lunghi, di un rosso brillante. Chiunque, dopo averne mangiato uno, si sarebbe retto la guancia urlando: – Oh, mamma! – Quel pacchetto di sigarette del capo brigata non era una conquista facile. Non ero presente alla scena e posso solo immaginarmi la situazione. Erano amici ma anche rivali e ce la misero tutta. Spesso facevano la lotta e ogni volta era difficile decidere il vincitore. Potete provare a immaginarveli che mangiano quaranta peperoncini a testa, ma non è poi cosí facile. Messi a terra formavano un mucchietto degno di considerazione. Saranno stati almeno un chilo, no? Finirono di mangiarli piú o meno nello stesso momento, il primo round si concluse alla pari. Nel secondo round ce n’erano venti per ciascuno e anche in quel caso non ci fu un vincitore. Allora il capo brigata, vedendo che avevano cambiato colore, cominciò a preoccuparsi e disse: – Ragazzi, basta cosí, vi do un pacchetto di sigarette per uno –. Ma i concorrenti non erano d’accordo. Terzo round, ancora venti peperoncini. A metà del diciassettesimo, Lao Lan gettò a terra il mezzo peperoncino che gli era rimasto in mano e dichiarò: – Mi arrendo –. Si piegò in due reggendosi la pancia, era diventato verde, in un bagno di sudore. Dicono che gli colasse dalla bocca un liquido rosso scuro. Mio padre aveva finito il suo diciottesimo peperoncino, ma quando si infilò il diciannovesimo in bocca gli uscí un fiotto di sangue dal naso. Il capo brigata mandò uno dei membri della comune allo spaccio a comprare le sigarette, due pacchetti della marca migliore. Fu uno degli eventi piú importanti nel mio villaggio al tempo delle comuni popolari e, quando si parlava di gare di mangiate, tutti lo citavano. Non era passato molto tempo e nel ristorante vicino alla stazione ci fu una gara a chi mangiava piú youtiao, le strisce di pasta fritte, i concorrenti erano uno scaricatore chiamato Wu Daduzi, Wu il Panzone, per la sua capacità di ingozzarsi, e mio padre. All’epoca aveva diciotto anni e, insieme agli altri della brigata di produzione, era andato a portare le barbabietole alla stazione. Wu Daduzi stava sulla piattaforma a darsi pacche sulla pancia, lanciando la sua sfida: – Chi vuole battersi con me? – Il capo brigata, infastidito da quel fracasso, gli aveva chiesto: – A far che? – Lui gli aveva risposto: – A mangiare! Ho la pancia piú grossa del mondo! – Il capo brigata si era messo a ridere: – Non ti pare di esagerare? – Uno vicino a lui gli aveva detto di nascosto: – Attento a non cascarci, quello è Wu Daduzi, passa i giorni qui a sfidare la gente, è il suo modo per sbarcare il lunario. Si rimpinza un giorno e, per tre giorni, può stare senza mangiare –. Il capo brigata lanciò uno sguardo a mio padre, poi ridendo si rivolse a Wu: – Compare, non esagerare, al mondo c’è sempre qualcuno migliore di te, con tutte le arie che ti dai non vorrei che finissi per esplodere –. Wu gli rispose: – Non mi credi? Mettimi alla prova –. Il capo brigata, uno che amava stare al gioco, gli chiese subito: – In che modo? – Wu indicò il ristorante della stazione: – Là fanno baozi imbottiti di carne, youtiao, spaghetti in brodo, mantou di farina bianca, decidete voi. Chi vince mangia gratis e chi perde paga –. Il capo guardò mio padre e gli disse: – Luo Tong, te la senti di fargli abbassare la cresta? – Mio padre bofonchiò: – Per me non c’è problema, ma se perdo che si fa? Guarda che non ho un soldo in tasca –. Quello gli rispose: – Non perderesti mai e, anche se fosse, niente paura. I soldi li sborsa la brigata –. Mio padre disse: – Allora ci provo, è un po’ che non mi faccio una spanciata di youtiao –. Wu accettò: – Vada per le strisce di pasta –. La combriccola schiamazzante si avviò verso il ristorante. Wu Daduzi tirava mio padre per la mano, sembravano una coppia di vecchi amici che andavano a pranzo ma in realtà lo teneva stretto per paura che si defilasse. Quando entrarono nel ristorante, la cameriera li accolse ridendo: – Ecco di nuovo il Panzone, stavolta che ci giochiamo? – Mocciosa impertinente, come ti permetti di chiamarmi in quel modo? Vista la differenza di età dovresti chiamarmi nonno. – Puah, allora stai fresco, – gli rispose lei. – Tu piuttosto chiamami zia –. Le altre cameriere, sentito che ci sarebbe stata una gara, corsero fuori per godersi lo spettacolo. Gli avventori si girarono tutti a guardare. Arrivò uno dei capetti del ristorante e, pulendosi le mani sul grembiule, chiese: – Lao Wu, cosa ti preparo? – Wu, con lo sguardo fisso su mio padre, gli rispose: – Strisce di pasta, prima daccene un chilo e mezzo per ciascuno. Ragazzo, un chilo e mezzo ti va bene? – Come vuoi, – borbottò mio padre, – tanto quello che mangerai tu lo mangerò anch’io. – Che sfacciataggine! – esclamò Wu. – Ragazzo, sono oltre dieci anni che bazzico la stazione, avrò sfidato un centinaio di persone e non ce n’è stata una che mi abbia battuto. – Oggi l’hai incontrata, – gli rispose il capo brigata. – Una volta il ragazzo si è fatto fuori cento uova e ci ha messo sopra anche una gallina. Con un chilo e mezzo di youtiao si riempie la pancia solo per metà, giusto, non è cosí Luo Tong? – Mio padre, a testa bassa, gli rispose: – Prima cominciamo e poi si vedrà, non ho l’abitudine di fare sparate. – Ottimo, benissimo, – disse Wu tutto eccitato. – Ragazze, portate le youtiao e datemele fresche –. Il capetto disse: – Frena, Lao Wu, prima vediamo i soldi. – Chiedili a loro, – gli rispose lui, – tanto alla fine saranno loro a pagare –. Il capo brigata chiese: – Non ti sembra di correre troppo? In tutto fanno tre chili, i soldi li avremmo ma, come si dice, «a mangiare merda c’è sempre tempo». Come fai a essere tanto sicuro che saremo noi a perdere? – Wu Daduzi allora alzò il pollice in segno di approvazione: – Va bene, va bene, sto andando troppo in fretta e non voglio farti arrabbiare. Facciamo cosí, ognuno mette i soldi di tre chili sul banco del ristorante, il vincitore si riprende i suoi e l’altro li lascia lí. Che ne dici? Cosí ti va bene? – Il capo brigata ci pensò su un attimo e disse: – Cosí può andare! Noi del villaggio siamo un po’ rozzi e non sappiamo parlare, preghiamo i presenti di portare pazienza –. Wu tirò fuori dalla tasca alcune banconote unte e bisunte, le mise sul bancone. Il capo brigata fece altrettanto, posò i soldi vicino a quelli di Lao Wu. Una delle cameriere prese due ciotole, le capovolse e ci coprí i mucchietti, come se avesse paura che mettessero le ali e volassero via. Wu disse: – Signori, ora possiamo cominciare? – Il capo diede istruzioni alla ragazza dietro al banco: – Presto, vai a pesare le youtiao, un chilo e mezzo a persona, mi raccomando non lesinare sul peso –. Wu si mise a ridere: – Bastardi, di solito fregate i clienti, ora che c’è una scommessa, le chiedi di abbondare col peso. Statemi a sentire, ragazzine, quelli che si sfidano qui non sono mammolette, come si suol dire «bisogna avere le budella storte, per mandare giú una falce». Pensi che ci preoccupiamo se il peso è abbondante oppure scarso? Dico bene, ragazzo? – Lo chiedeva a mio padre ma lui non rispose. La cameriera portò i tre chili di youtiao in due piatti di metallo smaltato e li mise sul tavolo. Erano appena fritte, morbide e soffici, il vapore fragrante assaliva le narici. Mio padre guardò il capo brigata e chiese, in tono solenne: – Cominciamo? – Quello non fece in tempo a rispondere che Wu aveva già afferrato una striscia di pasta e, con un morso, ne aveva staccato metà. Le guance gonfie, gli occhi lucidi, non vedeva piú nessuno, teneva lo sguardo fisso sul piatto. Evidentemente stava morendo di fame. Mio padre si mise seduto e, rivolgendosi al capo e agli altri del villaggio raccolti ad assistere, disse: – Con il vostro permesso, io comincio –. Si era scusato perché nello sguardo di tutti aveva notato un interesse profondo per le strisce di pasta. Mangiava con moderazione, una decina di morsi per ogni striscia di quaranta centimetri. E ogni boccone lo masticava varie volte. Wu non masticava, non stava mangiando, stava riempiendo una voragine. Le due ciotole si svuotarono a poco a poco. E gradualmente anche la velocità diminuí, quando nella ciotola di Daduzi rimasero soltanto cinque strisce e in quella di mio padre otto, rallentarono ancora di piú, cominciavano ad avere qualche difficoltà. I loro visi riflettevano la sofferenza. Nel piatto di Wu erano rimaste due strisce, ormai era lentissimo. Anche in quello davanti a mio padre ce n’erano due. La gara stava giungendo all’epilogo. Mangiarono l’ultima striscia nello stesso momento. Wu fece per alzarsi in piedi, ma ricadde seduto. Il suo corpo si era fatto estremamente pesante. La gara si stava concludendo alla pari. Mio padre disse: – Potrei mangiarne ancora una –. Il capetto del ristorante tutto eccitato ordinò alla cameriera: – Presto, il ragazzo ce la fa a mangiarne un’altra –. La cameriera arrivò di corsa reggendo la youtiao con le bacchette, aveva un’espressione esultante. Il capo brigata chiese: – Luo Tong, tutto a posto? Altrimenti lasciamo perdere, non c’importa di quei quattro soldi –. Mio padre non gli rispose, prese la striscia di pasta, la spezzò, ne fece alcune palline e lentamente se le mise in bocca. Wu disse: – Ne voglio una anch’io –. Il padrone del ristorante urlò: – Forza, anche Lao Wu ne vuole un’altra –. Quando la cameriera gliela porse, lui la prese e se l’avvicinò alla bocca, ma non riuscí a infilarla dentro. Con un’espressione sofferta e le lacrime agli occhi, gettò la youtiao sul tavolo e, ormai spossato, dichiarò: – Ho perso –. Provò ad alzarsi, per un attimo sembrò riuscirci, ma subito ricadde pesantemente a sedere, la sedia non resse, scricchiolò e si spaccò. Sotto le sue chiappe, una sedia di massello sembrò fatta di fango.
Lo portarono all’ospedale, gli aprirono la pancia e i dottori impiegarono un mucchio di tempo per svuotarla di tutte le youtiao mezze masticate. Mio padre non finí in ospedale, ma passò la notte a camminare avanti e indietro sull’argine del fiume, faceva qualche passo e vomitava una striscia, seguito da una decina dei cani del villaggio, con gli occhi che sprizzavano una luce blu per la fame. Poi arrivarono anche i cani dei villaggi vicini, si litigavano le youtiao vomitate, prendendosi a morsi, dalla spalletta del fiume rotolavano fino alla riva e poi risalivano, sempre azzuffandosi. Non sono stato testimone della scena di quella notte, ma l’ho vista con gli occhi della fantasia. Fu una nottata terribile. Per fort...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I quarantuno colpi
  4. Primo colpo
  5. Secondo colpo
  6. Terzo colpo
  7. Quarto colpo
  8. Quinto colpo
  9. Sesto colpo
  10. Settimo colpo
  11. Ottavo colpo
  12. Nono colpo
  13. Decimo colpo
  14. Undicesimo colpo
  15. Dodicesimo colpo
  16. Tredicesimo colpo
  17. Quattordicesimo colpo
  18. Quindicesimo colpo
  19. Sedicesimo colpo
  20. Diciassettesimo colpo
  21. Diciottesimo colpo
  22. Diciannovesimo colpo
  23. Ventesimo colpo
  24. Ventunesimo colpo
  25. Ventiduesimo colpo
  26. Ventitreesimo colpo
  27. Ventiquattresimo colpo
  28. Venticinquesimo colpo
  29. Ventiseiesimo colpo
  30. Ventisettesimo colpo
  31. Ventottesimo colpo
  32. Ventinovesimo colpo
  33. Trentesimo colpo
  34. Trentunesimo colpo
  35. Trentaduesimo colpo
  36. Trentatreesimo colpo
  37. Trentaquattresimo colpo
  38. Trentacinquesimo colpo
  39. Trentaseiesimo colpo
  40. Trentasettesimo colpo
  41. Trentottesimo colpo
  42. Trentanovesimo colpo
  43. Quarantesimo colpo
  44. Quarantunesimo colpo
  45. Il libro
  46. L’autore
  47. Dello stesso autore
  48. Copyright