È podalico. Lorenzo deve nascere tra un mese, ma è podalico e non ha nessuna intenzione di girarsi. Solo che Valeria il cesareo non lo vuole fare. Non vedo alternative, le ho detto. E lei ha scosso la testa. Non è una di quelle cose che puoi decidere tu, Valeria: sii ragionevole. Anzi, pensa alla fortuna di non doverlo partorire per via naturale, un feto podalico, ho insistito. Ma lei ha continuato a scuotere la testa. È una maternità mutilata, che inaugura un rapporto con tuo figlio mediato dalla tecnica: me lo ha ripetuto piú volte, provando a convincermi. Lei il parto lo vuole naturale. Probabilmente anche senza anestesia, con tutto il dolore che, le hanno detto, deve accompagnare una maternità completa. Si è anche informata su come partorire in casa, ma lí Merlo, il suo compagno, si è opposto: «Non fare stupidaggini, hai trentanove anni, quel bimbo è podalico e soprattutto è anche mio!» Sul no al cesareo, comunque, non transige: non lo vuole fare.
E quindi? Quindi le stiamo provando tutte. Abbiamo parlato a Lorenzo, lo abbiamo manipolato delicatamente attraverso la pancia di Valeria, per convincerlo a mettersi in posizione. Quando è toccato a me, ho cercato di nascondere il ribrezzo nel sentire quegli ossicini del ginocchio, o forse del gomito, oltre la pelle della mia amica, e li ho spinti con delicatezza maldestra verso il basso.
Ma, ovviamente, parlare a un feto di otto mesi e ciancicare la pancia di Valeria non è servito a niente. E Lorenzo è ancora lí, a testa in su.
La sua storia comincia cosí, con due piedi nel posto sbagliato. La mia, con me che una mattina di giugno mi faccio convincere, e mi faccio portare al mare. Ma come potevo dire di no a Valeria? E poi lo volevo o no il titolo di zia?
Siamo andati a Marina, una cittadina costruita tra Otto e Novecento sulla foce paludosa del nostro fiume. È un posto di casette basse sul lungomare: i locali le riferiscono allo stile Liberty, mentre Wikipedia le liquida attribuendo loro solo «timidi accenni di». Tra la strada e il mare, un’esile striscia di sabbia e una breve cortina di cubi di roccia che chiamiamo scogli e, a pochi metri dalla riva, piccoli frangiflutti di rocce grigie, che delimitano piscinette basse di acqua salata.
Quando siamo arrivati, il Merlo ha steso i teli da mare sul nostro pezzetto di spiaggia, si è tolto la maglietta e si è sdraiato. Accanto a lui, in piedi, in pantaloncini e camicia a scacchi e con una rivista letteraria americana sotto il braccio, Dario, il fratello taciturno di Valeria: un paio di Converse ai piedi coi calzini bianchi bene in vista, e la ferma intenzione di non togliersi né le une né gli altri.
Valeria e io abbiamo lasciato entrambi a riva e siamo entrate in acqua, solenni.
Lei era uno spettacolo: aveva una pancia tesa, abbronzata, enorme. Sembrava una balena. Io le camminavo accanto, vestita solo di uno slip a righe, pallida e intirizzita, ed eseguivo in silenzio i suoi ordini. Ci siamo accucciate, abbiamo preso confidenza con l’acqua freddina. Abbiamo salutato il Merlo e Dario a riva strizzando gli occhi. Poi abbiamo cominciato a fare le capriole. Una, due, dieci capriole in acqua.
Valeria era incredibilmente leggiadra. Ruotava intorno a sé, nell’acqua bassa, e a momenti ne vedevi emergere la testa bagnata, gli occhi chiusi e una specie di sorriso, o le gambe che si teneva strette sul pancione, coi piedi incrociati all’altezza delle caviglie. Mi ricordo un silenzio surreale, e noi che giravamo in acqua, come le foche, come i leoni marini, come grossi mammiferi in armonia con la natura. Piú lei di me, a dire il vero, in armonia con la natura. Io tenevo il naso chiuso con due dita, e palpebre e guance strizzate forte, ogni tanto respiravo e poi rientravo in acqua, a girare perplessa sotto il cielo di Marina. E intanto pensavo a Lorenzo. Me lo immaginavo costretto dentro quella pancia, aggrappato al cordone ombelicale, a farsi domande sulla gravità che lo stava aspettando sul pianeta Terra, e forse anche sulla strana famiglia che gli era capitata.
D’un tratto Valeria si è fermata. Ha deciso che era sufficiente e mi ha fatto cenno di uscire dall’acqua. Dario intanto si era seduto sul telo, sempre vestito e con le sue scarpe ai piedi ma ritto sulla schiena, e ci osservava da lontano con espressione ansiosa.
– Valeria, li hai contati i giri? – ho chiesto io, ingenua.
– Sí, vabbè, piú o meno. Ne avremo fatti una decina, tipo. Forse venti –. Ho taciuto. Forse venti? Mi sono attardata sul bagnasciuga e ho insistito: – Ma Lorenzo come dovrebbe girarsi? Cioè: le tue capriole in che modo dovrebbero… – Con le mani ho imitato una sfera dentro un’altra, per farle capire che non mi tornava tanto il fatto che… cioè non mi tornavano i gradi di rotazione, il verso, poi con la placenta e il cordone… la dinamica, proprio, della rotazione di Lorenzo: come dovrebbe essere?
– Ma dài…! Non essere cosí tecnica. Si dice che lui senta la tua rotazione, che la senta, e la imiti. E cosí si gira.
La sente? Si dice?
Ha scosso la testa di lato, si è allontanata dagli occhi le ciocche di capelli gocciolanti, e mi ha sorriso con il suo nuovo sorriso sognante. Io ho preso un respiro e, senza rendermi conto del ridicolo, l’ho quasi rimproverata: – Valeria, ma prima di venire qui a fare le capriole in acqua, l’hai fatta o no una Medline?
Il Merlo non lo sapeva cosa fosse una Medline, ma deve averlo intuito dal mio sguardo. Ed è scoppiato a ridere. Dario invece è rimasto serio, quasi corrucciato.
Valeria, come se mi stesse dicendo la cosa piú ovvia del mondo, ha allargato le braccia: – Macché Medline! Ma secondo te ci sono articoli scientifici sulle capriole in acqua? È una cosa cosí.
– Valeria, hai una laurea, un dottorato in biologia molecolare, un master in non mi ricordo cosa: che cos’è adesso questo disprezzo della statistica, del metodo… della razionalità?
Valeria sa tutto sulle percentuali di giramento spontaneo all’ottavo mese, e le sa anche il Merlo. Sanno tutto su come vadano le cose nelle ultime settimane di gravidanza.
– Allora se tra due settimane scoprirai che Lorenzo si è girato, non dirai che è per via delle capriole in acqua, vero?
– No, che c’entra, vabbè dài. Ci stiamo provando in vari modi. L’importante è che si giri. Alla fine non mi interessa come.
Vari modi. Vabbè dài.
Un istante dopo il Merlo ha aggiunto: – Perché la tua amica non ti ha ancora detto della torcia. Ma soprattutto di quella cosa che mi ha fatto fare ai suoi piedi.
Dario, sempre in silenzio, ha girato la testa e ha guardato lontano. Avrei voluto poterlo fare anch’io.
La torcia, o meglio il metodo della torcia, mi ha spiegato Valeria, consiste nell’immaginare che il feto sia una falena, che segua la luce, sfarfalli nell’utero fino a girarsi grazie a un sapiente gioco di illuminotecnica. In pratica, consiste nel mettersi in una stanza al buio con una torcia puntata sul pube.
– Non avrai mica fatto anche questa cazzata, Valeria?
– Certo che l’ho fatta! Che ne sai, magari funziona.
Intanto Valeria e io ci asciugavamo la schiena, in mutande l’una di fronte all’altra come due pugili sul ring.
– E la faccenda dei piedi?
Ho buttato sulla sabbia il mio asciugamano e ho tentato di interpretare un ascolto rispettoso. Valeria ha cominciato a farfugliare qualcosa di vago sulla Cina, ma il Merlo l’ha scavalcata e ha dato la seguente versione: – Un giorno mi ha allungato un sigaro e mi ha detto di non fumarlo. Si è sdraiata e me lo ha fatto accendere e poi mi ha ordinato di ruotarglielo sotto i piedi. Puzzava anche. Piú dei piedi –. La pratica è durata una mezz’ora buona. Durante la quale il Merlo è eroicamente riuscito a non ridere.
– Qui la letteratura scientifica immagino che sia dettagliata, – ho detto sarcastica.
– Sí, internet! – ha rintuzzato il Merlo.
Valeria si è accucciata con cautela sull’asciugamano accanto a lui. E poi, seria: – Guardate che è piú difficile di come la fate voi tre. Una donna che decida di fare un figlio si trova sommersa di informazioni. E ogni cosa è un tiramolla tra naturalità presunte e tecniche mediche fredde, – insiste: fredde. Le ho chiesto perché le tecniche mediche dovrebbero essere calde: si tratta di tecniche, che significa fredde?
Dario ha cominciato a grattare la gomma delle sue Converse con un’unghia ed è tornato tra noi, puntando gli occhi alla fronte della sorella. Lei ha preso a lisciare il telo da mare con le mani. Poi ha proseguito, ancora piú seria: – Ci ho messo tre anni a restare incinta e tre mesi fa ho avuto una minaccia di aborto. Ho seguito tutte le indicazioni dei medici finché si è trattato di questioni delicate. E continuerò a farlo. Non vi preoccupate: non ho intenzione di mettere a rischio questo bambino. Ma quando sei incinta sei circondata da gente, siti internet, pubblicità, libri e riviste di tutti i tipi, che ti dicono che il momento chiave di tutta la tua vita di donna è il parto, e che è anche giusto che tu soffra perché si tratta di un’iniziazione alla vita e la sofferenza fa parte della vita. Ti caricano di attesa. E ti fanno sentire in colpa se non lo aspetti sorridente e forte, come se fosse il compimento unico della tua femminilità. A me per di piú tocca anche questa cosa del podalico. Lo so che non è un dramma, ma vedeste su internet quante cose girano sull’influenza del tuo pensiero nella posizione del bambino… Un po’ finisci per crederci… Un po’ ti chiedi come ti sentiresti a non provare anche quelle, a non fare tutto il possibile…
Valeria e io siamo cresciute insieme, nella stessa città e nelle stesse scuole, nelle stesse piazzette e negli stessi giardini pubblici. Siamo figlie della stessa borghesia intellettuale di sinistra e dei suoi cascami anni Ottanta, tirate su a lezioni di musica, nuoto, judo e gite nei boschi in autunno. Solo che oggi lei è diventata una strega. Una che crede alle pozioni magiche e ai massaggi miracolosi.
Ma perché deve vivere un parto cesareo con il senso di colpa? Che cosa le è successo, a lei e al suo dottorato in biologia molecolare, per finire ad associare a un sentimento come la colpa una tecnica chirurgica a cui milioni di donne e di bambini devono la vita?
Non è capitato solo a lei: d’un tratto tutte le mie amiche sono diventate streghe. Sono ancora mie amiche, ma sono diventate incomprensibili.
Per esempio, si affidano a pozioni misteriose per la cura di strane malattie della modernità dai sintomi tanto generici che, per me, nemmeno esistono. Semmai, ti dicono, l’invisibilità del problema è prova del fatto che la modernità uccide in silenzio. Anche «coi farmaci». Se obietto che sono piú le persone che vivono grazie ai farmaci rispetto a quelle che muoiono, per colpa dei farmaci, si insinua in loro il dubbio che io sia un po’ ottusa.
Tra l’altro le mie amiche ci tengono proprio ad avere un qualche problema di salute della modernità, da curare con un qualche rimedio alternativo.
– Alternativo a cosa? – chiedo io, simulando stupore ma vivendo fastidio. E loro, in coro: – Alternativo a quelli della modernità!
Come alghe secche da diciassette euro al barattolo e bacche cinesi («Ma il tuo contadino a chilometro zero non potrebbe farsi mandare i semi dalla Cina e coltivare le bacche qui?», ho chiesto un giorno a Valeria. E lei: «Ma no, dài, sono bacche cinesi tradizionali…»)
A volte le mie amiche trovano il mago che con qualche seduta le mette a dieta, ma una dieta che se la prende insensatamente con qualche alimento di quelli con cui siamo cresciute («Perché proprio i pomodori?» «Perché il campo magnetico del pomodoro interferisce con il mio plesso energetico solare»).
In ogni caso, nella straordinarietà dei propri disturbi trovano un po’ della propria identità. Per questo mettere in discussione le loro magie è come mettere in discussione la loro identità.
«E allora tu che cosa sei?»
È da quando sono bambina che mi sento fare questa domanda. In genere seguiva alla mia compita spiegazione sul perché non seguissi le ore di religione a scuola e sul perché non facessi la comunione. Il semplice «Non sono battezzata», che mi avevano suggerito i miei genitori, non bastava mai, e nemmeno il «Non siamo cattolici», che un giorno mi era stato spiegato essere piú preciso. E un’infanzia passata a definirsi al negativo e a sentirsi incalzare «Sí, ma allora che cosa sei?» ti esercita a dare risposte arroganti, presuntuose, inappropriate, ridicole («Sono atea» a otto anni non regge). Soprattutto, ti esercita alla rassegnazione che serve a capire che non lo sai bene, che cosa sei. Che certe questioni identitarie è meglio che tu non te le ponga, perché comunque non le risolvi. Tanto si può vivere anche lasciandole aperte, spalancate, con tutti quanti che ci ficcano il naso dentro e tutti quanti che poi lo tirano fuori, alzano le spalle e ti mostrano che per loro la spiegazione è chiara. Ecco che cosa sei. Ed è chiara per tutti, tranne per te.
Quello che so è che sono una che ha poco meno di quarant’anni, ha paura dei gabbiani, mangia a orari regolari, ha gli stessi amici dai tempi delle elementari, e un bel numero di nipoti tra biologici e no. E che fa la giornalista. Ma la giornalista scientifica, cioè il massimo del rischio professionale lo vivo in un orto botanico, se ci sono le zanzare tigre.
Significa anche che mi pagano per studiare. E per pensare, leggere, a volte viaggiare, fare domande e raccontare. Mi sono perciò abituata a essere considerata da amici e colleghi una privilegiata, e comunque una clamorosa rompiscatole, a cui la vita concede di poter avere piú domande che risposte.
Quindi, la domanda «E allora tu che cosa sei?» mi sento autorizzata a eluderla, prima di tutto con me stessa.
Anche perché, ho spiegato di ritorno dal mare a Valeria agitando le m...