
- 448 pagine
- Italian
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eBook - ePub
L'amante
Informazioni su questo libro
« L'amante è la storia di un doppio inseguimento. Adam avverte nella moglie un mistero: non sa chi sia la donna amatissima che gli giace accanto nel letto, e che sogna continuamente: la insegue senza raggiungerla mai. Insieme a lei insegue il suo amante: un gentile, assente, malinconico spettro ebraico, che forse incarna la perduta anima d'Israele. La figlia, Dafni, cogli occhi scintillanti e infantili, incarna il principio di realtà. Ma anche a lei sfugge qualcosa: il mondo arabo, che vive accanto e dentro Israele». Pietro Citati
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Informazioni
Print ISBN
9788806227173eBook ISBN
9788858425473Parte quarta
NA’IM
Adesso ne ammazzano di nuovo. E quando li ammazzano, noialtri dobbiamo farci piccoli, abbassare la voce, dobbiamo stare attenti a non ridere neanche di una barzelletta che non c’entra per niente con loro. Stamattina in autobus, quando c’era il notiziario, Issam stava parlando ad alta voce e rideva, e gli ebrei che erano seduti davanti hanno voltato la testa e ci hanno dato un’occhiata secca secca. E Hamid che è sempre serio e ha la responsabilità di tutti noi, anche se nessuno l’ha nominato ufficialmente, ha toccato Issam con la punta delle dita, e Issam è stato subito zitto.
L’importante è sapere sempre dov’è il limite, e chi non lo sa è meglio che resti nel villaggio, là può ridere da solo nei campi e maledire gli ebrei finché gli pare, nella vigna. Ma noi, che quasi sempre siamo tra loro, bisogna che stiamo attenti. Non è che loro ci odiano – chi pensa che loro ci odiano, si sbaglia di grosso. Noi siamo all’infuori dall’odio, siamo come ombre per loro. Su, prendi, porta qui, tieni, pulisci, tira su, spazza, smonta, sposta. È questo che pensano di noi. Ma quando cominciano ad ammazzarli, allora si stancano, diventano lenti, non stanno attenti, sono capaci di pigliarsi un’arrabbiatura per nulla, prima del notiziario o dopo. Noialtri, il notiziario non lo stiamo tanto a sentire, è come un ronzio, nulla di preciso, sentiamo le parole, ma non le vogliamo capire. Non è che dicano solo bugie, ma non è neanche la verità, come le stazioni di Damasco, di Amman o del Cairo. Mezze bugie e mezze verità e molta confusione. Meglio quella bella musica che trasmettono da Beirut, musica araba moderna, che ti fa ballare il cuore, come se il sangue scorresse meglio. Quando lavoriamo alle macchine che ci portano per prima cosa spostiamo le stazioni delle radio, niente «Voce d’Israele» o «Trasmittente Militare», e cerchiamo una buona stazione, dove dànno solo buona musica, senza troppe chiacchiere, solo belle canzoni d’amore, di quelle nuove. Quelle non ci stancano mai. E soprattutto basta con le chiacchiere interminabili su questo conflitto schifoso, che non finirà mai. Quando sono sdraiato per terra sotto una delle macchine, a registrare i freni, quella musica è come se mi passeggiasse sulla testa. Delle volte mi vengono le lacrime.
Non mi dà noia il lavoro, anzi, sono anche capitato piuttosto bene. Questo garage è grande abbastanza perché non ti stiano sempre addosso e ti rompano le scatole. Mio cugino, Hamid, mi sta sempre vicino, anche se fa finta di non badare a me, però sta attento che non mi diano troppe noie. Io veramente volevo continuare a studiare, non volevo andare a lavorare in garage. Ho finito le elementari con dei bellissimi voti. Il maestro, un giovane studente, era molto contento di me. Nelle lezioni d’ebraico pensavo persino in ebraico. E sapevo a memoria dieci poesie di Bialík, anche se non ce l’avevano neanche chiesto, ma c’era qualcosa nel ritmo delle parole che mi entrava in testa facilmente. Una volta è venuto a scuola da noi un gruppo di maestri ebrei per vedere che cosa facevamo, e il maestro ha chiamato me, e io mi sono messo davanti a loro e gli ho snocciolato lí per lí due strofe della Città dello Sterminio. Per la sorpresa per poco non gli è venuto un colpo – e forse è proprio questo che voleva il mio maestro, che non si può dire che amasse tanto gli ebrei. Avrei anche potuto continuare a studiare, il maestro è persino andato a parlare con papà, per convincerlo. – Peccato per il ragazzo, – ha detto, – ha del sale in zucca! – Ma papà s’è intestato, ha detto che due figli che studiano gli bastano, come se fossimo legati a una corda, e quando studia uno anche l’altro diventa istruito. Fais tra poco finisce gli studi di Medicina in Inghilterra, è lí da dieci anni ormai, e Adnan l’anno prossimo andrà all’università, studierà anche lui Medicina o Elettronica. E io, che sono il minore, devo lavorare, bisogna pure che qualcuno porti a casa un po’ di soldi. Cosí papà ha deciso di farmi diventare meccanico, come Hamid che guadagna parecchio.
Certo che ho pianto e gridato e supplicato, ma non è servito a niente. Mamma è stata zitta, non vuole litigare per causa mia. Non può neanche dire: perché Adnan e Fais, e non Na’im? – perché quelli sono di un’altra moglie, quella vecchia, che è morta qualche anno fa e papà glielo aveva promesso.
In principio m’era tanto difficile alzarmi la mattina presto. Per paura che non mi svegliassi, papà veniva a svegliarmi lui alle quattro e mezza, e non avevo proprio voglia di tirarmi su. Era ancora buio, e papà delicatamente mi tirava fuori dal letto, e poi rimaneva lí seduto a guardare come mi vestivo, mangiavo e bevevo. Dopo mi accompagnava all’autobus, attraverso il villaggio che si risvegliava, tra luci elettriche e lumi a petrolio, per vicoli pieni di fango e di pozzanghere, tra asini e sacchi. Mi dava in consegna a Hamid, come se fossi un prigioniero. Mi fanno salire sull’autobus freddo, insieme a tutti gli altri operai. Tengo in mano un sacchetto di plastica con le pitot che fa la mamma. Pian piano l’autobus si riempie, e Muhammed l’autista si siede al suo posto e comincia a far scaldare il motore, e intanto suona il clacson per chiamare i ritardatari. Dal vetro appannato vedo papà, seduto sotto la tettoia, tutto curvo – un uomo vecchio, imbacuccato nel suo mantello nero. Fa cenni di saluto a tutti quelli che passano, comincia a parlare con un tale, ma intanto continua a guardare dalla mia parte. Ma io sono arrabbiato con lui, appoggio la testa sullo schienale davanti, chiudo gli occhi e faccio finta di dormire, e quando l’autobus comincia a muoversi e papà picchia sul vetro per salutarmi, io faccio come se non me ne accorgessi.
In principio, anche se dormivo davvero durante tutto il viaggio, arrivavo dagli ebrei che ero stanco morto. Non smettevo di sbadigliare, le chiavi mi cadevano di mano. Continuavo a chiedere l’ora. Ma poi mi sono abituato. Di mattina già mi svegliavo da solo, arrivavo tra i primi, mi sedevo vicino all’autista e non dormivo piú. I primi tempi mi portavo dietro un libro da leggere per strada, ma ho visto che tutti ridevano di me, gli faceva strano che uno andasse a lavorare in garage e si portasse un libro, e per di piú in ebraico. Credevano che fossi matto. Allora ho rinunciato, perché ho visto che non riuscivo neanche a concentrarmi; continuavo a rileggere sempre la stessa pagina, ma nulla mi entrava in testa. È diventata dura, la mia testa. E cosí guardo la strada, vedo che comincia a schiarirsi, vedo le montagne che cominciano a spuntare. Non mi annoio mai per la strada, un’ora e mezza d’andata e un’ora e mezza di ritorno. Usciamo dalla Palestina araba, e poi ci torniamo, e la strada del ritorno è quella che mi piace di piú.
Alle quattro del pomeriggio siamo già alla fermata e aspettiamo che arrivi l’autobus di Muhammed. Da tutto il quartiere vengono gli abitanti del villaggio e dei dintorni – muratori, giardinieri, spazzini, lavapiatti, scavabuche, domestiche e operai di garage. Tutti con sacchetti di plastica vuoti e la carta d’identità nel taschino sinistro, pronta da esibire. Con noi salgono anche ebrei di ogni specie, con delle ceste pesanti, che scendono quasi tutti prima di Acri. Ad Acri salgono altri arabi e anche altri ebrei, soprattutto nuovi immigrati, russi con cappotti pesanti, e qualche marocchino. Non si sente quasi parlare ebraico. Per strada scendono ebrei, e anche qualche arabo, e a Carmel l’autobus si vuota degli ultimi ebrei, rimangono soltanto gli arabi. Il sole dietro la schiena scalda piacevolmente, la strada corre via. Haifa scompare all’orizzonte, Carmel l’hanno inghiottita le montagne, i pali della luce cominciano a diradarsi. L’odore degli ebrei se ne va. Muhammed, per farci divertire, mette la radio su Bagdad, dove trasmettono versetti del Corano. Ci addentriamo fra i monti, passiamo tra frutteti. La strada è stretta, tutta a curve tra i campi, e non c’è traccia di ebrei, neanche una jeep militare. Nei campi si vedono soltanto arabi – pastori scalzi, con le loro greggi. Come se non ci fosse stata la Dichiarazione di Balfour, e neanche Herzl, e non ci fossero state guerre. Villaggi piccoli e tranquilli, tutto come ce lo raccontavano tanti anni fa, magari ancora piú bello. L’autobus risuona dei gorgheggi dell’Imam di Bagdad, la sua voce dolce scivola sui versetti. Al diavolo! Siamo come ipnotizzati, smettiamo di parlottare e pian piano cominciamo a cantilenare insieme a lui.
ADAM
In quelle serate del venerdí, quando si parlava a vuoto, davanti alle ciotole di noccioline e tehina, e si cominciava a discutere di politica, di arabi, del loro carattere, della loro mentalità e cosí via, io m’innervosivo, cominciavo a brontolare. Ultimamente non ho piú pazienza per quelle discussioni. Che cosa ne sapete di loro, voialtri? Da me ne lavorano trenta, di arabi, e credetemi, ogni giorno li capisco di meno.
– Ma quelli sono arabi diversi.
Diversi da chi? Io comincio ad arrabbiarmi, mi alzo in piedi, non so neppure perché mi arrabbio. Asya arrossisce, mi guarda inquieta.
– Perché dipendono da te… di te hanno paura…
– Macché paura? Cosa ne sapete voialtri…?
Non so come spiegarmi, mi s’imbrogliano le idee. Torno a sedermi.
Per esempio, Hamid.
Ha forse la mia età, ma ha un corpo da ragazzo, magrissimo. Solo il viso è pieno di rughe. È il primo operaio che ho assunto, è con me da quasi vent’anni. Taciturno, orgoglioso, un lupo solitario. Non guarda mai nessuno in faccia, ma se riesci a cogliere il suo sguardo scopri pupille nerissime, come fondi di caffè in una vecchia tazza.
Che cosa gli passa nella testa? Per esempio, che cosa pensa di me? Non si riesce a cavargli una parola di bocca, e se parla, è sempre di lavoro, di motori, di macchine. Quando ho cercato di farlo parlare di altri argomenti, si è sempre tirato indietro. Ma è fedelissimo – o forse non si tratta di fedeltà. Da moltissimi anni non ha perso una giornata di lavoro, e non per paura che lo licenzi. Ha un posto fisso, con tutti i diritti. Al primo del mese Erlich gli allunga quattromila shekel e lui se li caccia subito nel taschino della camicia, senza contarli, in silenzio. Che cosa se ne faccia di quei soldi nessuno lo sa, al lavoro viene sempre con vestiti malandati, con scarpe scalcagnate.
È un meccanico di prim’ordine. In questi ultimi anni lavora in uno sgabuzzino che si è costruito in un angolo del garage, e quello è il suo regno. Rimette a nuovo vecchi motori. È un lavoro di concetto, che richiede precisione, immaginazione, mani d’oro e pazienza infinita. Smonta vecchi motori completamente andati, trapana, tornisce dei pezzi nuovi e li fa tornare in vita. Lavora in continuazione, non ha la radio, non prende parte alle chiacchiere e alle barzellette degli altri operai, non scherza coi clienti. Nell’intervallo della colazione lui finisce per primo, ma quando è l’ora di terminare il lavoro smette subito, non ha mai fatto un’ora di straordinario. Si lava le mani, prende il sacchetto di plastica vuoto e se ne va.
Improvvisamente, due o tre anni fa, è diventato osservante. Si è portato da casa un tappetino sporco, e a volte interrompe il lavoro per qualche minuto, si toglie le scarpe, spiega il tappeto per terra, s’inginocchia e si prosterna verso sud, di fronte al tornio e alla parete dove sono appesi gli attrezzi. E lancia infuocati appelli a se stesso, al profeta, lo sa il diavolo a chi. Poi si rimette le scarpe e torna al lavoro. È una religiosità tenebrosa, persino gli altri arabi che lavorano nell’officina lo guardano con timore e rispetto.
Per quanto sia cosí solitario, per loro è una specie di capo, anche se non dà tanta confidenza. Passa fra di loro in silenzio, è diverso. Ma quando mi occorre qualche operaio nuovo, dopo due o tre giorni lui mi porta un giovanotto o un ragazzo, come se avesse ai suoi ordini un reggimento intero. Poi è venuto fuori che la maggior parte degli arabi che lavorano nel garage sono parenti suoi, cugini di primo o di secondo grado.
Una volta gli ho chiesto: – Ma quanti cugini hai?
Molti, dice lui, ma non li ha mai contati.
– E quanti ne lavorano qui?
– Quanti? – ha cercato di evadere. – Ce n’è qualcuno…
Ma finisce per indicarmene almeno una diecina, senza contare i suoi due figli. Mi sono meravigliato di non aver mai pensato che quelli fossero figli suoi, non pareva che avesse con loro rapporti particolari.
– Quanti figli hai?
– Perché?
– Cosí… mi piacerebbe saperlo…
– Quattordici…
– E quante mogli?
– Due…
Quell’interrogatorio lo faceva soffrire, lo innervosiva. Continuava a giocherellare con un cacciavite, cercava di voltarmi la schiena, di liberarsi di me e di tornare al lavoro.
Devo dire, a suo onore, che dopo che mi aveva portato i nuovi operai, non s’immischiava di quello che succedeva, e se mi trovavo costretto a licenziarne qualcuno, lui non diceva parola, ma dopo qualche giorno mi procurava un altro cugino o parente dalla sua inesauribile scorta.
Anche il primo giorno della guerra, naturalmente, lui è venuto a lavorare, ma con lui ce n’erano pochi. Avevano paura di uscire dai villaggi, non sapevano che cosa stava succedendo. Io l’ho subito acchiappato:
– Dove sono gli altri?
Non ha risposto, non mi ha neanche guardato. Che volevo da lui? Ma non l’ho lasciato andare: – Tu, Hamid, devi dire a tutti che vengano a lavorare. La nostra guerra non è mica vacanza per voi. Qui ci sono delle macchine da riparare. La gente tornerà dal fronte e vorranno trovare le macchine riparate. Mi senti?
Ma lui non rispondeva, mi guardava ostilmente, teneva le mani in tasca, com...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- L’amante
- Parte prima
- Parte seconda
- Parte terza
- Parte quarta
- Parte quinta
- Glossario
- Il libro
- L’autore
- Dello stesso autore
- Copyright