1.
Quel giorno al Comando c’era un’aria sonnolenta. Dadone, dopo il turno di notte, aveva due giorni di permesso e stava raggiungendo i genitori in Piemonte, e i corridoi, senza il frenetico ticchettio della sua macchina per scrivere, sembravano deserti.
Cosí fu a Delle Piane, l’ultimo arrivato, che toccò avvisarli. Fece capolino in ufficio, senza osare mettervi piede.
– Colonnello, – esitò.
– Che c’è, Delle Piane? – Anglesio stava domandandosi se farsi fare dell’altro caffè: il Pigato, bevuto a quell’ora, gli aveva lasciato un senso di vaghezza.
– Un signore che chiede di lei. Con urgenza. È qui da un’ora. Io gli ho detto che non sapevo nemmeno se sarebbe tornato, ma ha voluto aspettarla a tutti i costi.
– E chi è?
– Si chiama Enrigo, Giacomo Enrigo. Lo faccio entrare?
L’uomo era molto alto, quasi un metro e novanta. Torace ampio, larghe spalle da lottatore. S’era seduto di fronte ad Anglesio, mentre Ferrari e Vercesi si sistemavano in piedi alle sue spalle.
– Devono restare anche loro? – domandò. Aveva un viso inaspettatamente fine, dai lineamenti delicati e una massa di capelli biondastri che andavano brizzolandosi sulle tempie. Indossava un cappotto scuro e un vestito a tre pezzi, giacca, gilet e pantaloni, tutto grigio antracite, e sembrava muovercisi con un certo imbarazzo, come se fosse abituato ad altri abiti.
– Le dànno fastidio? – domandò Anglesio.
L’uomo esitò. – È che si tratta di una faccenda delicata.
– Si trova al Comando dei carabinieri –. La voce di Anglesio era pigra. – Di piú riservato c’è solo il confessionale.
L’uomo arrossí violentemente. Un timido, si disse Anglesio, accorgendosi di una sensazione singolare: un misto di simpatia istintiva e al medesimo tempo di rimprovero verso sé stesso, come se una parte di lui s’imponesse di provare rancore. Agnese, si rese conto, era troppo simile, per età e per aspetto, a Letizia. Doveva fare attenzione, rimanere in equilibrio, senza memoria né desiderio. Vuoto, permeabile, come una spugna.
Mentre era assorto, l’uomo aveva continuato a parlare, ma la frase s’era perduta nel gomitolo dei suoi pensieri. – Come ha detto? – domandò.
– Dicevo che… – Scrollò il capo. – Mi scusi. Non volevo mettere in dubbio la riservatezza dei suoi uomini.
– Non si preoccupi. Mi dia intanto le sue generalità.
– Mi chiamo Giacomo Enrigo, nato a Nervi, nel ’20. Trentadue anni, figlio unico. Ingegnere.
– Ecco –. L’uomo diede un’occhiata alle sue spalle. I due carabinieri incombevano su di lui, le braccia incrociate. Tornò a voltarsi verso Anglesio. – In realtà c’è piú di una cosa di cui vorrei parlarle. La piú grave è che da mesi sto ricevendo delle minacce.
– Di che tipo? – Anglesio raccolse il sigaro che aveva lasciato spegnersi nel posacenere. Lo portò alla bocca storcendo le labbra: freddo e irreparabilmente amaro, ormai.
– Fino a qualche anno fa, la mia era una famiglia molto importante. Mio padre aveva fondato dei cantieri, in società con un amico, Ernesto Lunardi. La vedova ha un’erboristeria nei carruggi. Potete chiedere conferma a lei. Prima avevamo solo un negozio. Articoli navali, a Sottoripa. Lo conoscerà: è il piú importante della Liguria, almeno fino a La Spezia –. Nel pronunciare l’ultima frase la voce gli si era colorita d’orgoglio.
Anglesio annuí rovistandosi nelle tasche. Un Toscano, gli ci voleva un Toscano.
– Il negozio l’aveva messo su mio nonno, prima dell’altra guerra. Poi, negli anni Venti, mio padre aveva avuto un’occasione. Un piccolo cantiere a Cornigliano, non lontano dalle acciaierie. Facevano solo gozzi. Da solo non ce l’avrebbe fatta, cosí ne parlò con Lunardi e lo rilevarono insieme. Lasciarono perdere i gozzi e iniziarono a occuparsi di nautica da diporto. Andava tutto bene. Il cantiere s’ingrandí in fretta. Mio padre ci faceva i soldi, a quell’epoca. Soldi veri –. Giacomo Enrigo era arrossito ancora, come se parlare di denaro fosse sconveniente. Stava in punta alla sedia, avrebbe detto Zia Rina. – Lunardi, zio Ernesto lo chiamavo, si occupava direttamente del cantiere, mentre mio padre girava mezza Italia. Era bravissimo a trovare clienti. Io invece dopo l’università me ne stavo in negozio. Mi piace lavorare con la gente. E con le mani. Diventammo una famiglia importante, una che conta, tipo gli Schelher. E le cose andarono ancora meglio quando morí Lunardi, una decina di anni fa. Mio padre rilevò le quote dal figlio. Tutto a gonfie vele –. Enrigo s’interruppe bruscamente, lo sguardo lontano. Chinò il capo e si mise a rovistare meccanicamente nelle tasche fino a trovarvi un pacchetto ciancicato di Nazionali. – Posso? – domandò. Accese, le mani percorse da un tremito leggero, il volto contratto.
Anglesio gli lasciò il tempo di tirare una profonda boccata. – Tutto a gonfie vele, – ripeté. – In mezzo c’è stata una guerra, mi sembra. Lei ha combattuto?
Enrigo arrossí ancora. – No. Mio padre è riuscito a tenermene fuori.
– E lei ne era contento? – Anglesio si rese conto di provare un certo, maligno piacere nell’evidente umiliazione dell’uomo. Si affrettò a riprendere: – Lasci perdere, la guerra è finita. Allora?
– Allora –. Con la punta delle dita Enrigo recuperò dalle labbra un frammento di tabacco. – Allora lui morí, l’anno scorso e lasciò tutto a me –. Gli occhi nocciola s’erano ingranditi. – Sono bravo a vendere, e il negozio funziona. Invece, il cantiere…
– Il cantiere? – Anglesio aveva trovato il Toscano, l’ultimo, e ora lo scaldava rotolandolo tra i palmi delle mani.
– Va male –. Il volto di Giacomo Enrigo lasciava trasparire una certa, inattesa soddisfazione. – Maledetto cantiere. Mio padre c’ha rimesso la pelle a lavorarci notte e giorno.
– Le dispiace venire al punto?
– Sí. Naturale –. Giacomo Enrigo rifletté per qualche istante. – È cominciato a giugno. A Cornigliano erano rimasti in pochi, tre operai e il capocantiere. A quell’epoca avevamo una sola ordinazione, per un motoscafo d’altura. Gente ricca, di Milano. Ci facevo uscire giusto le forniture e la paga per gli uomini. Un giorno mi telefonano mentre sono in negozio. Perché io in cantiere ci vado solo quando mi chiamano, in realtà. Altrimenti un paio di volte al mese, non di piú.
Vercesi aveva sollevato bruscamente lo sguardo, cercando quello di Ferrari.
– In realtà sta andando in malora, sa, come una barca senza governo –. Giacomo Enrigo fece un lungo sospiro. – Mia madre lo ha sempre detto. Lascia perdere il cantiere, tanto non è roba per te. Ma mi sembrava di offendere mio padre. La sua memoria almeno. Comunque, mi telefonano e mi dicono che c’è un guaio. Un guaio grosso. Io arrivo di corsa e trovo uno sfacelo. Avevamo finito lo scafo. Un bel lavoro, tutto in rovere, che piú sta a bagno meglio è. E qualcuno lo aveva sfondato in piú punti con una mazza o una sbarra di ferro. Di quelle pesanti. Tutto da rifare insomma.
Un altro sguardo tra i due carabinieri. Anglesio era impassibile.
– Qualche idea su chi possa essere stato? – domandò.
– Niente. Non ho nemici, io. Non ho mai rotto le scatole a nessuno. Ma quello fu solo l’inizio.
– L’inizio?
– Sí, perché dopo fu peggio. Iniziarono le lettere. Ecco. Questa è l’ultima –. Enrigo tese ad Anglesio un foglio. Carta porosa, da poche lire. Tre frasi battute a macchina. «Questo è l’ultimo avvertimento. Paga se vuoi vivere. Tu e la tua puttana».
– Quando è arrivata?
– Tre settimane fa.
– La busta?
Enrigo strinse la labbra chinando il capo. – Temo di averla gettata. Ero furioso.
– Capisco. Ma lei ha detto che ce ne sono state altre.
– Altre due, simili ma non cosí offensive verso mia moglie. Le ho portate a vedere a mia madre. Mi consiglio sempre con lei. E lei le ha tenute.
– E che cosa le ha suggerito la sua consigliera?
– Mi ha detto di parlargliene. Avevamo letto sul giornale di lei.
– E sua moglie?
Era un’ombra quella che era passata sul viso di Enrigo? – Lei è convinta che vada tutto bene, che il cantiere funzioni. Non le ho mai detto niente. Nemmeno dell’incendio.
– Incendio? Che incendio?
– Due settimane fa. Qualcuno aveva versato del cherosene nel capannone delle attrezzature. Solo che dopo le lettere avevo iniziato ad anticipare i turni di lavoro. Cosí, quando gli operai sono arrivati hanno trovato solo un focolaio e lo hanno spento subito.
– Con cosa?
– Sabbia, secchi di sabbia. Ne abbiamo sempre di pronti. Trattiamo materiale infiammabile, vernici, solventi.
– E lei ha aspettato fino a ora per venire qui?
Enrigo deglutí rumorosamente. – Avevo paura –. Anglesio lo guardava senza parlare. – Ho paura. Non siamo i primi a cui capita.
Anglesio sollevò lo sguardo. Alle spalle di Enrigo, Vercesi aveva allargato le braccia in un segno di stupore.
– Che intende dire?
– Le stesse lettere le ha ricevute Amilcare Schelher. Me ne ha parlato Monaco, il loro ingegnere capo.
Anglesio si passò una mano sul volto, poi, laboriosamente, iniziò ad accendere il sigaro. Nella stanza nessun suono al di là del ticchettio indifferente dell’oro...