Prima di perderti
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Prima di perderti

  1. 152 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Prima di perderti

Informazioni su questo libro

Giuseppe si è ucciso gettandosi dal balcone. C'era da aspettarselo da un frustrato, uno che, dopo le utopie giovanili, si era adagiato a vivere all'ombra del suo ambiente, pur di goderne i privilegi. Cosí almeno la pensa Fausto, il figlio. Un trentenne brillante e di successo, che disprezza lo stile di vita della propria famiglia. Fausto decide di disperdere le ceneri del padre alla periferia di Roma, ma quando versa il contenuto dellurna se lo ritrova davanti, riapparso come il fantasma dell' Amleto. Giuseppe non vuole vendetta, è lí per una sfida a duello con il figlio. Questa è l'ultima occasione che i due hanno per parlarsi davvero, per dirsi tutto ciò che pensano l'uno dell'altro. Con durezza e lealtà. E con amore. Dopo il suo romanzo d'esordio, che lo ha fatto conoscere come una delle giovani voci piú promettenti della narrativa italiana, Tommaso Giagni racconta con una scrittura profondamente realistica l'allucinazione che è al cuore della nostra piú ordinaria quotidianità. «Il romanzo di un giovane che fa sentire vecchi, talmente è impastato nel presente e capace di spiazzare».
Walter Siti, La Stampa «Leggendo il romanzo di Giagni riconosciamo la consistenza purgatoriale del presente».
Giorgio Vasta, la Repubblica

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Informazioni

Editore
EINAUDI
Anno
2016
Print ISBN
9788806228477
eBook ISBN
9788858424391

All’ultimo sangue

[…] facciamo il passo decisivo verso noi stessi soltanto quando non abbiamo piú origine.
EMIL M. CIORAN, Esercizi di ammirazione1.
1 La citazione è tratta da Beckett, in E. M. Cioran, Esercizi di ammirazione, trad. di M. A. Rigoni e L. Zilli, Adelphi, Milano 1988.

1.

È cambiato il vento. Nell’intensità, spaventosamente piú forte, e nella natura, adesso fredda e secca.
Dopo che la madre e Catia sono svanite, di colpo e senza dire nulla, Fausto le ha chiamate con le mani a conca, stupefatto. Si è mosso a cercarle per qualche metro, poi ha preferito non allontanarsi da Giuseppe.
A questo punto non sopporta l’idea di perdere suo padre. Ha bisogno di dare forma ai gesti e alle frasi che sente affiorare dopo tanta attesa sul fondo; sconosciuti eppure familiari, come déjà-vu. Da dove, fisicamente, il vento comincia a soffiare? Deve esserci un confine, tra ciò che viene investito dalla corrente e ciò che ne è al riparo.
A venti passi l’uno dall’altro, Fausto e Giuseppe tacciono. Una sferzata fa ululare la fortificazione poco distante, nel cemento e nelle cavità. Lui e il padre si aspettano, in un’aria giallastra, simile a quella che annuncia un terremoto. Giuseppe quasi chiude gli occhi, a un’altra raffica. Gli odori si sovrappongono, Fausto si sforza di restare vigile, mentre la fatica gli sforma l’espressione.
Si levano avanzi visibili – legni, cartacce, ferraglie, imballaggi – ma anche umori addensati nella corrente, a tempestare loro due in campo aperto. Un crescendo brutale, a colpi irregolari, fa perdere l’equilibrio.
Giuseppe urla parole che sbattono contro la grande recinzione. Fausto abbandona ogni scrupolo sulle distanze, si avvia per andargli incontro. Man mano che avanza, però, capisce che l’unica cosa sensata è resistere con tutto il corpo. Fa segno al padre di abbassarsi, ma quello non lo può vedere, e s’alzano erba e terra a strappi. Il cielo ha un colore malato. Contro la grata si schianta un cerchione d’automobile, la pressione lo tiene lí.
Chino su sé stesso, impotente, Fausto non distingue piú il padre. Scendere la pendenza controvento è troppo rischioso, ma qui non ha rifugio. Fa schermo agli occhi, eppure le palpebre non vogliono andar su. Pensa al sangue dal naso come all’ultima cosa che gli ha dato. La fine senza un addio di nessun tipo.
Bestemmia, grida: – Scusa! Scusami! – e neanche riesce a sentirsi. Un fracasso piú alto ancora, un impazzimento di luce che Fausto intuisce dal variare dei toni neri negli occhi chiusi.
Poi, niente.
Trascorre un tempo indefinibile nella stessa posizione, temendo che il silenzio si riveli sordità. Apre gli occhi ma non distingue bene. Aggrappato all’aria ferma, si convince che la bufera è finita e può uscire allo scoperto.
Tira fuori la testa. Da com’è orientato, verso ovest, localizza per prima cosa la lunga inferriata. Senza ancora mettersi in piedi, si accorge che le sbarre hanno un grigio diverso: liscio, piú tendente allo zinco.
Si leva, stordito. Prova le ginocchia, tenendo il corpo in un modo sbilenco. Anche se vede gli oggetti tremolare come fuochi fatui, riconosce una variazione nella prospettiva: quella griglia è troppo bassa per essere l’inferriata, e non dà sui campi dirupati verso Malagrotta. Un panorama sulle rovine di Roma, invece, sublime e olimpica.
Fausto preme una guancia con le dita, odorose d’erba e terra, mentre osserva la costellazione di cupole, il nero degli alberi ordinati, la cinta di esangui palazzi barocchi. Dove cazzo sono?
Ancora senza equilibrio, si volta a destra per cercare il padre: è sempre alla stessa distanza, in piedi. Tra loro, al posto del campo spelacchiato, c’è una geometria di esagoni in cotto. Fausto abbandona ogni visione periferica per concentrare il fuoco su Giuseppe: la giacca sottobraccio, il labbro ancora bruttato di sangue, la postura irrisolta. Per dare riposo agli occhi che bruciano, il figlio segue la pavimentazione fino alla feritoia di scolo che affaccia sulla città. Non riesce a spiegarsi la luce morbida del pomeriggio. Era ancora mattina quando il vento ha spazzato il Pratone, ne è sicuro, il sole doveva arrivare al mezzogiorno. Ho dormito per cinque, sei ore? Ho perso i sensi, e cosí a lungo?
Le domande sfumano in quella che gli sembra una confusione improvvisa – risate, bicchieri che si toccano, chitarre sul fruscio di vinile. Fausto si volta: non trova il Pratone, né la stradetta polverosa, dietro di sé, ma una grande terrazza. E almeno una decina di persone. Fiori vermigli, bossi a forma di piramidi al rovescio. Chi mi ha portato qui?
Edera che si arrampica, corpi proporzionati che si muovono adagio. Con le mani dietro la schiena, si regge al parapetto dove la terrazza finisce. Nessuno bada a lui, neanche il padre. Lo sguardo barcollante di Fausto attraversa l’intero spazio, fino a una portafinestra in legno, aperta su un interno dai toni soffusi.
Poi torna sul padre. Anche lui se ne sta al parapetto, ma rivolto al panorama, con i gomiti contro la pietra. Intorno non ha nessuno. La balaustra gli arriva alla pancia, basterebbe un lieve sbilanciamento per farlo precipitare. Di nuovo, ma forse per sempre. Se non ci fosse piú questo padre apparso dalle ceneri, riflette Fausto, lui stesso uscirebbe dal duello, dalla resa dei conti.
Basterebbe un lieve sbilanciamento, un abbraccio maldestro. Là, pensoso, Giuseppe nemmeno si accorge che il figlio è in piedi. D’improvviso una voce, appesantita dall’emozione, si mette fra loro: – Sono proprio contento.
Nell’uomo che viene incontro, curvo e quasi senza piú capelli, Fausto riconosce Candido Padula. Lo trova dimesso, quasi cadente, con un’espressione di buona volontà sul viso. Non risponde al sorriso accogliente di Padula, che cammina con le mani aperte come in preghiera e ripete: – Proprio contento, – avvicinandosi al parapetto, dove il padre si volta, stordito.
Candido Padula. Lui e il padre, di fronte, appoggiano le mani l’uno sulle spalle dell’altro. Fausto senza muoversi ricorda che Padula ci teneva a essere chiamato zio, mentre lui già da bambino non gli dava retta; una volta cresciuto e con tutto quello che era successo, neanche gli faceva gli auguri per il compleanno. Era atletico, solido, Padula. Ora sembra non saper cosa fare del suo grosso corpo, pensa Fausto, mentre se lo vede venire incontro. No, non ha piú l’aspetto da medico senza frontiere; e ancora meno lo si immagina, venti chili fa, a lanciare molotov sotto l’ambasciata americana. Uno cosí e uno come il padre, Fausto non sa se considerarli meno ridicoli dei loro compagni che a sessant’anni continuano a occupare le case.
Padula lo raggiunge e gli stringe la mano. La tiene per un po’, come a suggerire che fa sul serio. Quando scioglie la presa, non dice niente, oscillando lo sguardo da Giuseppe al figlio come un turibolo. Intanto un cane prova ad annusare le scarpe di Fausto: solleva e abbassa la testa con furia, ostacolato da un collare postoperatorio, dà strappi al guinzaglio di una signora con le ascelle pelose sotto il vestito a fascia.
Fausto accenna alla portafinestra di legno: – Che dobbiamo fare, – dice al padre, – entriamo? – il tono aggressivo di quando si sente preso in mezzo.
– Certo, se credi, – farfuglia Giuseppe, e si avvia. Con un piede nell’appartamento il figlio mormora: – Che c’è da credere? – mentre Padula li segue a passi timidi, obbedienti. Da bambino Fausto entrava in agitazione, nei posti sconosciuti, se prima non faceva un giro intero con il padre.
La terrazza sbocca in un disimpegno poco illuminato, dove un uomo che sembra Thomas Hart Benton siede a mangiare da un piatto di ceramica difettata. Le pareti intorno ospitano una collezione di maschere africane. Il figlio e il padre si fermano, indecisi, tra un corridoio buio e una stanza piena di gente. Senza parlarsi aspettano Padula, che è stato trattenuto da una donna con una borsa Ikea di plastica. Sul giradischi va un pezzo di Donovan, Giuseppe ne batte il ritmo contro il legno di una maschera appesa. Padula torce un piede sulle graniglie del pavimento, mentre la donna si lamenta: – La Tata ogni giorno ha un guasto diverso, praticamente me la tiene il meccanico. Con l’autista non sono abituata: e chiama, e aspetta, non vivo piú.
Nell’aria ci sono profumi di cannella e burro. Fausto si sporge sul piatto dell’uomo che pare Benton, un assaggio di formaggi e schizzi di marmellata, poi sente una mano sulla schiena. E una voce: – Saranno tipo quindici anni?
Si mette dritto, bruscamente, scrolla via quella mano. Chi può prendersi la confidenza di toccarlo sa pure che odia essere toccato. Ha la mascella serrata quando davanti a sé trova Vittorio, l’amico dell’interrail e dell’età perduta, Vittorio in un completo Principe di Galles. Si gira in cerca del padre, e in quello stesso momento gli viene una domanda che non c’entra: con chi ho davvero confidenza? Poi torna a squadrare Vittorio, come se la prima volta gli fosse sfuggito qualcosa.
Quindici anni. C’è stato un tempo in cui separarsi da lui anche solo per un giorno gli dava nostalgia. Fausto non articola una parola, studia quel corpo come un prodigio venuto da una vita precedente. In terrazza cade una stoviglia. La sensazione piú netta è il fastidio di ricordare, attraverso Vittorio, le proprie ingenuità. Quel fastidio di cui gli parlava Catia, al ritorno da pranzi domenicali dove avevano proiettato un filmino di famiglia. In piú il Vittorio di oggi ha un’espressione di sazietà, non ricorda per niente lo scapigliato che rispondeva ai professori. È davvero lui, comunque, Fausto lo riconosce, anche se ora quello ammicca: – Ho letto sia il primo sia l’altro, sul coatto: simpaticissimo, proprio supercafone! – e scoppia a ridere in un modo cretino, sincopato.
Fausto non è mai stato qui. Può essere la casa di Padula o quella dove Vittorio è andato a vivere, per quanto ne sa. La casa di famiglia la conosceva. Un giorno le loro classi uscivano alla stessa ora, Vittorio gli fece posto nell’Ape Piaggio con cui andava a scuola e lo invitò da lui per la prima volta. La camera aveva un’entrata autonoma, c’erano cartelli stradali appesi, cd di gruppi sconosciuti, pacchi di preservativi a vista; la porta sul soggiorno comune si poteva chiudere a chiave. Fausto ancora non sa che la madre gli ha lasciato quella casa, dopo averla ristrutturata per ricavare due appartamenti, non sa che Vittorio abita in uno e nell’altro ha improvvisato un B&B, La casetta in via Canadà.
Nel disimpegno costellato di maschere, Giuseppe non si intromette fra i due, presi a considerare quanto il loro aspetto sia diverso dal ricordo. Si confonde fra le maschere, i suoi lineamenti non tradiscono un giudizio.
Dopo pranzo, quel giorno, mentre Vittorio era in camera sua al telefono con la ragazza, Fausto si accese una sigaretta. Teneva in mano un posacenere e si sentiva molto adulto, camminando lungo il soggiorno. Raggiunse un piccolo studio e su una mensola notò la fotografia di un bambino insieme a un uomo, entrambi presi da dietro. In una cornice vicino c’era una nuca, con accenni di grigio, poggiata a una piccola testa coi capelli schiariti dall’estate. In basso, un’altra foto: una pellicola imperfetta, picchiettata dai segni della polvere, dove un uomo e una donna non mostravano il volto.
Quando l’amico finí la telefonata e lui la sigaretta, si misero in camera a sfogliare dei manga. La domestica gridò un saluto, Vittorio ricambiò senza aprire la porta. Poi gli raccontò del padre, che era stato latitante all’estero per tutta la sua infanzia, prima dell’arresto. Rapine e omicidi politici, Interpol, clandestinità. Da bambino, Vittorio andava a trovarlo con la madre, senza poterlo dire a nessuno dei suoi amici. Gli raccontò la paranoia che accompagnava il tempo trascorso insieme, il divieto di parlare in italiano se c’era gente attorno, gli occhiali scuri in cui suo padre nascondeva lo sguardo. Gli raccontò delle foto che Fausto aveva visto nello studio, l’unico ricordo di famiglia che in quegli anni potevano immortalare: foto in cui dovevano mettersi di spalle, e che venivano poi stampate in una camera oscura casalinga. Se Fausto non pensò al proprio, di padre, fu per difenderlo dal confronto. E adesso Vittorio è questo piccolo lord stempiato, che lo guarda come se avessero qualcosa in comune.
Un colpo di vento muove la portafinestra, fa pensare al figlio che un’altra tempesta li spazzerà via. Invece arriva Padula a fare strada: – Scusatemi, andiamo pure da questa parte, – si avvia per il corridoio. Fausto è convinto che sia lui la chiave, forse il proprietario qui.
Gli cammina dietro. Dagli infissi socchiusi viene luce giusto per non andare a tentoni. Lo diceva Andrea, degli appartamenti che frequentava per le marchette: «Ce vedi poco». Se Fausto non stesse concentrato a mettere dritti i piedi, si ricorderebbe di un appunto preso nella lavorazione di Esoticoatto: «Forse il ceto medio riflessivo trova che “mostrare” faccia rima con “volgare”. Il contrario dei lampadari sparati a casa di Andrea o di Catia».
Rallenta, lascia che Vittorio lo superi. Poi si accosta al padre, gli cammina accanto, fa uno sforzo per tenere la voce bassa: – Dove sono finite, mamma e Catia? – È il primo momento buono per parlarne, da quando sono qui, ma Giuseppe accenna a Candido e Vittorio piú avanti: – Non ti vanno bene, loro? – e continua a camminare.
Fausto si decide a scansare le domande, per non mollare tutti lí come un bambino viziato. Riprende a seguirli e si sfoga fra i denti: Candido Padula, perdio… Solo il padre può avergli concesso quel ruolo nonostante tutto. Ma poi: è un testimone a sostegno di Giuseppe, o suo?
Dalla direzione inversa vengono persone di mezz’età, il padre saluta senza fermarsi. Gonne sarong, foulard di seta su visi acqua e sapone, toppe su gomiti senza buchi, come cerotti su ferite immaginarie. Una luce si mostra in fondo. I quattro si lasciano dietro una donna col caschetto che parla dell’orto di casa sua, a Park Slope, delle carote che regala ai bambini afroamericani («Ci vanno matti, devo mandarvi i video!»)
Il passaggio si allarga in un’anticamera, fredda che pare una sala d’accettazione. A sinistra, quasi nascosto, c’è il portone di casa. Incavati nell’angolo, tre uomini che dimostrano molto piú della loro età: le barbe arruffate, i corpi sofferti, uno stato di letargia. È il tratto finale del corridoio, le pupille già si restringono al contrasto con la luce.
Si fermano tutti. Padula apre la mano verso una grande stanza e piega la testa in un sorriso buffo, come se cedere l’ingresso fosse tra loro una formalità giocosa.

2.

È il primo salone di una serie imponente. I colori caldi del successivo e la vastità del terzo si indovinano da sotto le aperture a volta, simmetriche. Tra i muri soffia un odore mortifero, in lotta con i profumi della cucina.
Fausto si avvicina al padre. Alle pareti sono appesi falci, roncole, forconi. Ogni punta sembra inoffensiva e la ruggine è levigata. Padula e Vittorio arretrano: il contesto non permette di seguire la regola dei dieci passi e loro cercano di non addossarsi ai duellanti, ma anche di non allontanarsi trascurando la responsabilità.
– Dimmi pure, – comincia Giuseppe.
– Che ti devo dire. Qua ti piace, no? – alza il sopracciglio Fausto.
Gli si appressa Padula: – Abbassa la voce, per favore… – e fa un sorriso confortevole, ma contratto, verso gli ospiti in piedi al tavolo di pietra lavica. Sotto le tre finestre, che ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Prima di perderti
  3. Al primo sangue
  4. All’ultimo sangue
  5. Il libro
  6. L’autore
  7. Dello stesso autore
  8. Copyright