Ai giovani pensosi
circondati dagli occhiali.
Piante e animali sono condannati alla vita.
L’uomo è condannato alla storia, e trascina
gli altri sistemi con sé, in un mondo politico.
Una cosa ho potuto apprendere a Berlino:
la storia, non solo non è maestra della vita;
non è neanche bidella.
1981. Luglio.
Parto di martedí, casello di Reggio Emilia.
Cerco uno strappo per la frontiera, dove dovrò procurarmi un passaggio su qualche tir in viaggio verso il grande Nord. Con il classico pennarello Grinta punta larga ho scritto in nero su un rettangolo di cartone: Brennero. Espongo il cartello, mi metto in attesa: il mondo che mi aspetta di là da quelle sbarre autostradali irradia un’elettricità che conosco. Compagni cittadini coraggio, voglio arrivare presto a Berlino.
Certo che centosettanta fermati sono un bel numero. Piú o meno conosco tutti quei centosettanta e se non li dico proprio amici li chiamo almeno conoscenti, sapendone il nome o piú spesso il nome d’arte, conquistato su qualche strada o in qualche battaglia. Frequentazioni peggiori non potrei avere, pare, ma sono gli unici con cui si possono spartire le sere d’inverno nelle piazze e nei parchi di una piccola città emiliana, là dove i cittadini sono consegnati alle televisioni e a noi soltanto appartengono le vie deserte. A noi. A chi – come me, come noi – vuole muoversi, incontrare, contarsi, pensare che ci sia un luogo, un modo, suonare una chitarra, un tamburo, calciare un pallone in piazza San Prospero. Esserci, insomma: vivere. Se io non sono tra quei centosettanta fermati è solo perché alcuni preparativi per Berlino mi hanno trattenuto dall’Osteria del Cavallo Zoppo la notte della retata, che so essere stata come tutte le altre: notte estiva di calma collina sdraiati sul prato a guardar su tra le lucciole e i profumi, dove ognuno pensa ai fatti suoi entrando in stato di pace intanto che l’erba medica si affiena nel secondo taglio. Queste sono le notti terrestri senza zanzare dove si galleggia come le isole, e le luci che tremano per il troppo caldo disegnando la pianura la dicono piatta e distesa come mai capita di pensarla. Luci bianche; luci gialle: sembra di poterle stringere nelle mani, come le lucciole. Schiudendo le dita, ogni luce che filtra racconta una storia. Ogni storia un’astronave a sé, separata dalle altre, ma se troveremo la forza di mescolarle assieme ecco che il panorama si compone in immagini perfettamente sopportabili. Reggio, Modena, Scandiano, Sassuolo, sembrano quasi città normali. Per queste visioni si viene volentieri alle Tre croci sul Monte Evangelo. Quasi per amore. Anche le coppie si appartano volentieri quassú, in qualche modo libero si amano, si appartengono, aumentando il numero dei generati per disattenzione, tra panni a scacchi e sedili ribaltati.
Preferisco uno sguardo di odio, bello diretto, a questo guardarmi in trasparenza come se fossi vetro. Quando un automobilista incolonnato al casello dà mostra di non vedermi e sembra perso a considerare il panorama alle mie spalle, mi si conferma tutta una serie di pregiudizi: sui vestiti indossati, sulle auto comprate, anche sui partiti votati. Comunque in questi anni ho cumulato un’esperienza collaudata nell’arte dell’autostop – nazionale, continentale, addirittura transoceanica – e raggiungere la frontiera non dovrebbe essere complicato. Pollice in fuori, pollice destro, tra un tubo di scappamento e un qualche insulto devo approfittare dell’attimo sovrappensiero in cui si ritira il biglietto.
Ma sono ancora appesantito per quella notizia che da un paio di giorni rimbalza in cronaca cittadina, e che ho dovuto rileggere in caratteri maiuscoli sulle locandine davanti alle edicole. Maxi fumeria al Cavallo Zoppo. Il titolo mi stringe nei pensieri, raddoppiando il peso dello zaino. E ancora, al bar – nemmeno una pausa tranquilla per un ultimo caffè – leggo di quei centosettanta giovani «sorpresi a bucarsi, a fumare e sniffare, un po’ sotto le stelle, un po’ dentro l’osteria alternativa». Il giornalista insiste reclamando per il mancato impiego di polizia femminile, la qual cosa avrebbe consentito la perquisizione intima di tutte le femministe stese sull’erba, e raddoppiato il totale dei fermati. «Grossa operazione antidroga condotta dai carabinieri in grande stile, – si legge in cronaca, – cinquanta carabinieri in tenuta da campagna e alcuni giovani militi in borghese». Come sarà, la tenuta da campagna: stivali di gomma, guanti da lavoro, pratiche salopette? Cinquanta giardinieri a istituire i posti di blocco, un rastrellamento concentrico che stringe i giovani in una morsa verso la sommità del Monte delle Tre croci, la retata. La «brillante operazione delle forze dell’ordine» dà una scossa di avvertimento ai centosettanta e a tutti i loro simili che quella sera casualmente non stavano lassú, come è capitato a me. Tutti devono saperlo giú in città, questa è una generazione da multare per eccesso di gioventú.
L’auto rallenta. Il vetro si abbassa, una mano si allunga verso il biglietto. La mia domanda; il suo sguardo. Tre secondi per decidere, l’uno dell’altro. Decidiamo per il sí, riconoscendoci per reggiani, senza che questo significhi granché. Lo immagino rappresentante di qualcosa, per essersi obbligato alla cintura di sicurezza, per la giacca appesa al finestrino posteriore, per la sicurezza dipinta in volto. Comunque una frase da dire troveremo che ci lega, un cibo, una strada, una stagione. E anche se per la troppa cilindrata la sua auto non si adatta a me, almeno fila via veloce.
«Berlino è una palla dentro la DDR, e di questa palla Berlino Est è soltanto uno spicchio». «In questa città accerchiata ci sono soprattutto vecchi, turchi e giovani strani». «Frigidaire» è la rivista di questo momento. Come noi, suoi coetanei, detesta tutto e tutti. Diseducatamente spietata, bollente contro il freddo del mondo, gelida verso il caldo. Se ama, non ama soltanto: adora. Se odia, lo fa con un bruciore divorante. Fumetti musica arte, vita vita vita. Poche ottime idee. Disegnatori prodigiosi. Filippo Scozzari. Andrea Pazienza, gioventú e saggezza, genio della nostra generazione.
È uscito lo scorso giugno su «Frigidaire» un articolo di uno sconosciuto Franz Tunda che racconta di Berlino. «Da qualche mese però la “vetrina del mondo libero” ha i vetri sporchi: casini continui per una ventata di occupazioni, tante, quasi centocinquanta». «Hausbesetzer, occupante di case, è il termine nuovo di moda».
Ammetto, sono sempre stati i difetti ad attirarmi.
«Kreuzberg, uno dei quartieri piú colorati dalle occupazioni». «Prospera il circuito alternativo: Kneipen, circoli culturali, librerie, teatrini, piccole attività teatrali, gruppi di ricerca…»
Uno scenario da sogno, visto da questa asfissiata città d’Emilia. E se io andassi?
«… Friedrichstraße è illuminata, le altre stazioni no; nel buio totale appare ogni volta, per riflesso delle luci del metrò, un Vopo, una sentinella dell’Est, un fantasma in divisa col mitra a tracolla…»
Vado.
Quello che non posso immaginare è quanti miei coetanei da tutta Europa stiano convergendo sopra Berlino. Rasati, capelloni, isterici, gioiosi, intossicati: piccole schegge sconclusionate che vengono senza sapere dove, in cerca di qualcosa che non sanno, in prossimità della bocca dello stomaco. Qualcuno perfino – oltre me – parte da Reggio Emilia.
Brennero.
Ci si sente in svantaggio a razzolare tra i tir parcheggiati in dogana. La sproporzione delle dimensioni è schiacciante, per la mole di quelle presenze che sembrano dotate di ragioni superiori. Tanto piú che, contravvenendo alle abitudini consolidate, sono partito da solo. Una scelta di getto, la percezione indefinita che quella città mi vorrà imporre un tu per tu. O forse mi devo solo sperimentare, rinunciando alla tutela dei compagni fraterni con cui ho sempre viaggiato.
Giusto per passare inosservato, indosso calzoni militari, camicia colorata senza indecisioni, un paio di medaglie leniniste, souvenir di una sezione della Fgci lontana migliaia di chilometri: l’immagine che vorrei dare di me. Mi metto in giro tra i crocchi degli autisti che si scambiano battute e insinuazioni in una qualche lingua. Siamo razze differenti, sono sudati, loro, muscolosi, eternamente maladattati. Hanno spaccato molti ponti dietro sé, questo lo puoi sentire, e tutto quello di cui hanno bisogno per vivere è nella cabina. Solo la strada vale, e quella geografia esistenziale che a noi deriva da letture e cognizioni a loro è scesa in corpo giorno dopo giorno, chilometro per chilometro e in fine piú profonda. Zoccoli di legno con la copertura in pelo di vacca raso, sandali di cuoio, giacche di pelle nera senza maniche sulla pelle nuda, bandane da pirati. Hanno pance gonfie, sazie, capelli a zero o lunghi e forforosi, si radono negli specchietti laterali, ammiccano tra loro, spacciano avventure, millantano una foia inestinguibile. La loro giovialità è iniettata di sonno, che combattono con le stesse pastiglie rosa pastello che usano i miei amici per star su, quelle anfetamine che tolgono la fame e sciolgono la lingua; ma anche i denti. Con volontà isterica scrivono sui camion: La tua invidia è la mia forza. Mai agganciarli, quando sono assieme.
Ma eccolo, il tipo giusto. Italiano, quindi ci capiamo e ci possiamo fidare. Solo, quindi resterà libera per me la cuccetta posteriore per dormire. Porta un tir di mele del Trentino, quindi lo scarico sarà unico e veloce. Mi bastano cinque secondi per decidere: sí, no. Lo saluto. Sta ispezionando le gomme battendole con un martello, un’operazione quasi scaramantica, si china a guardare sotto, indugia prima di rispondermi fingendo un impegno, valuta in realtà i pro e i contro di quello scocciatore che gli si è presentato. Un compagno in chiacchiere vale comunque come antidoto alla noia del viaggio e può alleggerire lo slittamento dei pensieri. Lui non sa ancora quanto poco parli io, e come i motori mi trasportino verso il sonno. Né so io, d’altra parte, alcuni piccoli segreti suoi: quanto sia logorroico, ad esempio, insonne pure, e che lui andrà sí ad Hannover – quindi a lato di Berlino – allungandosi prima però verso Colonia, sull’altro lato della Germania per un saluto al fratello cameriere, aggiungendo cinquecento chilometri al viaggio.
– Dài. Monta su.
Veder partire un tir, esserci sopra, sentirlo addosso, sapersi alti e forti, inarrestabili, ha qualcosa di ciclopico e di solenne. Anche di malsano. Basta girare una chiavetta e la massa di metallo si risveglia con un brivido di fumo. Si stira, si riscalda, si mette nell’assetto di partenza. I camionisti amano il battito dei loro motori in folle, un borbottio domestico sotto la pancia e attorno. Quella vibrazione contagia i portafortuna appesi, le lattine, le monete sul cruscotto, tutto vibra assieme, tutto collabora, tutto simpatizza. Le mani inseriscono nella tasca del volante il dischetto del tachigrafo, la «scatola nera» del camion, quella scheda che a un eventuale controllo della polizia stradale rivelerà le coordinate del percorso, la velocità tenuta, le ore di guida continuata. Niente di piú facile da manomettere, niente di piú necessario che manometterla per non irritare l’Europa che reclama merci. A questo rito preliminare di riscaldamento seguono la selezione delle musicassette, la sintonia della radio, l’inserto del CB. La prova dei fari, infine, lo scatto delle frecce, antinebbia a posto, stazionamento ok. Le luci d’arredamento in alto sottolineano la carrozzeria incorniciando da sipario teatrale ogni cristallo anteriore o a lato. È la casa del camionista, la cabina, è un obbligo rendersela personale e cara. Foto di nudi porno, stinti dal sole. L’adesivo Non piangere che parto, prega che ritorno. Pensa a noi, in cornicetta d’oro, la moglie con i bambini, che si rivede al sabato e si saluta la domenica prima di sera. L’immancabile Non correre, da ignorare.
Il tir s’è scosso e segue i pensieri dell’uomo. All’avvio compie un passo deformato, goffo come un coleottero sopra un vetro. Poi non si ferma piú, e scaracolla un chilometro dopo l’altro, decollando verso un nuovo trans-Europa nella notte.
Il camionista spinge sul pedale destro.
Acceleriamo.
È una autostrada prodigiosa e nuova questa che parte come Modena-Brennero e si infila al Nord. Usando le parole scritte da un ragazzo di qua, è «l’autobahn piú meravigliosa che c’è perché se ti metti lissú e hai soldi e tempo in una giornata intera e anche meno esci sul Mare del Nord, diciamo Amsterdam, tutto senza fare una sola curva, entri a Carpi ed esci lassú». L’anno scorso è stato pubblicato il suo primo libro, non l’ho ancora letto ma tutti ne parlano, a Reggio. Conosco la sua faccia – gentile, sorridente, fuori luogo –, la copertina del libro. Conosco le vicende giudiziarie che l’hanno accompagnato, sequestro e dissequestro, tutti mi consigliano la lettura ma temo che quelle pagine siano tanto simili al nostro vivere quotidiano da non aver voglia di guardarmi da cosí breve distanza.
Sbagliavo; non avrei trovato la fotocopia di tante vite che conosco – come sospettavo. Avrei trovato senso, invece, e uno sguardo dall’alto, assieme a una spinta incondizionata al viaggio, ai sogni. Ma è stato un bene non conoscere Pier Vittorio Tondelli tramite i suoi libri. Arriverà quell’incontro e porterà con sé fortuna senza essere stato inquinato da precedenti convivenze concittadine.
«Io ci sono affezionato a questo rullo d’asfalto», afferma in Altri libertini, interpretando i rimuginii di tutta una razza di viaggiatori sentimentali. È cosí, tutti noi eradicati amiamo quel rullo per le vie di fuga che offre, per lo sbocco a un altro mare opposto all’Adriatico delle vacanze, lontano dalle masse in festa, scontroso, accogliente mai, incapace di confortare al sole. Non abbiamo bisogno di piadine, di grigliate sulla spiaggia, o stare assieme sotto all’ombrellone. Manca una decina d’anni alla prima abbronzatura. Abbiamo bisogno soltanto di poterci muovere, scampare alla ghigliottina del lavoro e agli indennizzi conseguenti, per una connaturata voglia fredda e austera, per quell’odore che da quel mare discende e invade la provincia mescolandosi al greve dei maiali, che pure adoriamo. Si complica quell’identità cui siamo consegnati, per la quale io sarei quello a posto, bravo e intelligente, l’unico dieci in condotta di tutta la scuola elementare Sant’Agostino, mai avuto un pensamento strano prima di questi ultimi anni che tutto hanno spazzato via con sé. E ora son qua, sopra a un tir carico di mele e gloria, diretto a un Nord di cui quasi nulla so.
Questo avrei trovato in Tondelli, se solo lo avessi letto: «… succede il Gran Miracolo, cioè arriva su quel rullo l’odore del Mare del Nord che spazza le strade e la campagna e quando arriva senti proprio dentro la salsedine delle burrasche e dell’oceano e persino il rauco gridolino dei gabbiani e lo sferragliare dei docks e dei cantieri e anche il puzzo sottile delle alghe che la marea ha gettato sugli scogli, insomma t’arriva difilato lungo questo corridoio l’odore del gran mare, dei viaggi, l’odore che sento adesso come un prodigio…»
Strana, questa sensazione di fame inappagata. Per la quale tutto ci manca. Eppure, figli del Boom, nati per caso, tutto abbiamo già, tutto ciò che precede il desiderio senza completarlo, case di soprammobili e cose, il Gran Miracolo dei genitori. Quello che per loro è: «benessere», per noi è: «morbida sofferenza», una asfissia da combattere con una serie di reclami urgenti, una visione di noi con il bavero rialzato e soli. Sfuggire le cadute del periodo, che vedono i nostri amici ammalarsi e contagiarsi gli uni agli altri con le nuove malattie di cui nessuno pronuncia la sigla, il nome; e le vecchie afflizioni, le epatiti, la pazzia, le militanze isteriche, le nuove religioni. Sfuggire bisogna piú che mai l’autocoscienza in voga, il suo sapore officinale, io sono sano, non voglio migliorare, anni ventiquattro, me ne vado al Nord. A espellere la cronaca di un consegnato quotidiano. Ad annusare storia. Sulle tracce del prodigio.
Ditemi, non andreste in pellegrinaggio a Danzica, a contare i colori dei container? Sopra un molo, che so, a Rostock?
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