È mezzanotte. La pioggia sferza i vetri. Sono calmo. Tutto dorme. Tuttavia mi alzo e vado alla mia scrivania. Non ho sonno. La lucerna mi rischiara con luce dolce e ferma. L’ho regolata. Mi durerà sino a giorno. Sento il gufo reale. Che terribile grido di guerra! Una volta lo ascoltavo impassibile. Mio figlio dorme. Che dorma. Notte verrà in cui anche lui, non riuscendo a dormire, si metterà al suo tavolo da lavoro. Io sarò dimenticato.
La mia relazione sarà lunga. Forse non la finirò. Mi chiamo Moran, Jacques. È questo il mio nome. Sono fottuto. Anche mio figlio. Non deve sospettarlo. Probabilmente si crede alle soglie della vita, della vera vita. Cosa d’altronde esatta. Si chiama Jacques, come me. Ciò non può prestarsi a confusione.
Ricordo il giorno in cui ricevetti l’ordine di occuparmi di Molloy. Era una domenica d’estate. Stavo seduto nel mio giardinetto, in una poltrona di giunco, con un libro nero chiuso sulle ginocchia. Dovevano essere circa le undici, ancora troppo presto per andare in chiesa. Mi godevo il riposo domenicale, pur deplorando l’importanza che vi si annette, in certe parrocchie. Lavorare, e anche giocare di domenica, non era necessariamente riprovevole, secondo me. Secondo me tutto dipendeva dallo stato d’animo di chi lavorava, o giocava, e dalla natura dei suoi lavori, dei suoi giochi. Riflettevo con soddisfazione sul fatto che questo modo un po’ libertario di vedere stava guadagnando terreno anche tra il clero, sempre piú disposto ad ammettere che il sabbat, una volta che si va a messa e si versa il proprio obolo, può essere considerato un giorno come gli altri, sotto certi aspetti. La cosa non mi toccava personalmente, a me è sempre piaciuto non far nulla. E mi sarei riposato volentieri anche nei giorni lavorativi, se ne avessi avuto i mezzi. Non che fossi propriamente pigro. La questione era un’altra. Guardando fare ciò che io avrei fatto meglio, se avessi voluto, e che facevo meglio ogni volta che mi ci mettevo, avevo l’impressione di adempiere a una funzione alla quale nessuna attività avrebbe potuto innalzarmi. Ma a questa gioia mi potevo abbandonare solo di rado durante la settimana.
Il tempo era bello. Guardavo distrattamente le mie arnie, l’uscire e il rientrare delle api. Sentivo sulla ghiaia i passi precipitosi di mio figlio, rapito in chissà quale fantasia di fughe e inseguimenti. Gli gridai di non sporcarsi. Non rispose.
Tutto era calmo. Neanche un alito. Dai comignoli dei vicini il fumo saliva dritto e azzurro. Rumori rassicuranti, un tintinnare di mazze e di palle, un rastrello sulla sabbia d’arenaria, un lontano tagliaerba, la campana della mia cara chiesa. E uccelli, s’intende, merlo e tordo in testa, i cui canti s’estinguevano a malincuore, vinti dalla calura, e che lasciavano i rami alti dell’aurora per l’ombra dei cespugli. Respiravo con piacere gli effluvi della mia verbena cedrina.
Fu in questa cornice che trascorsero i miei ultimi momenti di felicità e di calma.
Un uomo entrò nel giardino e avanzò in fretta verso di me. Lo conoscevo bene. Che un vicino, la domenica, venga a darmi il buongiorno, se cosí gli va, al limite posso ammetterlo, pur preferendo non veder nessuno. Ma l’uomo in questione non era un vicino. I nostri rapporti erano esclusivamente d’affari, ed era venuto apposta da lontano per disturbarmi. Ero dunque predisposto a riceverlo piuttosto freddamente, tanto piú che si permetteva di venire direttamente nel posto dov’ero seduto, sotto il mio melo. Perché vedevo molto di cattivo occhio le persone che si prendevano questa libertà. Se uno desiderava parlarmi non aveva che da suonare alla porta di casa. Marthe aveva le sue istruzioni. Mi ritenevo sottratto alla vista di tutte le persone che fossero entrate da me e avessero seguito il breve vialetto che unisce il cancello del giardino alla porta di casa, e dovevo effettivamente esserlo. Ma al rumore dell’uscio sbattuto mi girai irritato e vidi, addolcita dalle foglie, quella lunga figura che puntava direttamente su di me, attraverso il tappeto erboso. Non mi alzai, né l’invitai a sedere. Si fermò davanti a me e ci squadrammo in silenzio. Indossava un pesante, cupo vestito della festa, il che mi indispose del tutto. Questa grossolana osservanza esteriore, mentre l’anima esulta negli stracci, mi è sempre sembrata una cosa abominevole. Osservai gli enormi piedi che schiacciavano le mie pratoline. L’avrei scacciato volentieri a scudisciate. Disgraziatamente non si trattava solo di lui. Si accomodi, dissi, ammorbidito dal pensiero che dopotutto egli non faceva che il suo mestiere di intermediario. Sí, d’un tratto ebbi pietà di lui, pietà di me. Si sedette e si asciugò la fronte. Scorsi mio figlio che ci spiava da dietro un cespuglio. Mio figlio aveva tredici o quattordici anni, a quel tempo. Per la sua età era grande e robusto. La sua intelligenza sembrava raggiungere a tratti quella media. Insomma, mio figlio. Lo chiamai e gli ordinai di andare a prendere della birra. Io mi trovavo molto spesso costretto a dei comportamenti da guardone. Mio figlio m’imitava istintivamente. Tornò in un tempo notevolmente breve con due bicchieri e una bottiglia di birra da un litro. Stappò la bottiglia e ci serví. Gli piaceva molto stappare le bottiglie. Gli dissi d’andarsi a lavare, di mettersi in ordine, in una parola di rendersi presentabile in pubblico, perché mancava poco all’ora della messa. Può rimanere, disse Gaber. Non voglio che rimanga, dissi io. E rivolgendomi a mio figlio gli ripetei d’andarsi a preparare. Se c’era una cosa che mi dava fastidio, a quel tempo, era arrivare in ritardo alla messa di mezzogiorno. Come vuole, disse Gaber. Avevamo provato a darci del tu. Inutilmente. Quanto a me, do, davo del tu solo a due persone. Jacques s’allontanò brontolando e con il dito in bocca, abitudine detestabile e poco igienica, ma secondo me preferibile, tutto considerato, a quella del dito nel naso. Se il mettersi il dito in bocca evitava a mio figlio di metterselo nel naso, o altrove, in un certo senso aveva ragione di farlo.
Ecco le sue istruzioni, disse Gaber. Trasse dalla tasca un taccuino e si mise a leggere. Di tanto in tanto chiudeva il taccuino, avendo cura di lasciarvi dentro il dito, e si abbandonava a commenti e considerazioni di cui non sapevo che fare, perché conoscevo il mio mestiere. Quando finalmente ebbe terminato, gli dissi che questo lavoro non m’interessava e che il padrone avrebbe fatto meglio a rivolgersi a un altro agente. Vuole che sia proprio lei, Dio sa perché, disse Gaber. Immagino che v’abbia detto perché, dissi io, fiutando l’adulazione, della quale ero abbastanza ghiotto. Ha detto, rispose Gaber, che c’è solo lei in grado di fare questo lavoro. Era piú o meno quello che volevo sentire. Tuttavia, dissi, l’affare mi sembra di una semplicità puerile. Gaber si mise a criticare con stizza il nostro datore di lavoro, che l’aveva fatto alzare nel cuore della notte, proprio nel momento in cui stava mettendosi in posizione per fare all’amore con sua moglie. Per una sciocchezza del genere, aggiunse. E le ha detto che aveva fiducia solo in me? dissi. Non sa piú quello che dice, disse Gaber. E aggiunse, Né quello che fa. Si asciugò la fodera della bombetta, guardandovi dentro attentamente, come se vi cercasse qualcosa. Dunque mi è difficile rifiutare, dissi, pur sapendo benissimo che in ogni caso rifiutare mi sarebbe stato impossibile. Rifiutare! Ma noialtri agenti ci divertiamo spesso a recalcitrare, tra noi, e a darci delle arie da uomini liberi. Partirà oggi, disse Gaber. Oggi! esclamai, ma è fuori di testa! Suo figlio l’accompagnerà, disse Gaber. Stavo zitto. Quando la cosa si faceva seria stavamo zitti. Gaber abbottonò il taccuino e lo rimise nella tasca, che abbottonò a sua volta. Si alzò, si passò le mani sul petto. Berrei volentieri un altro boccale, disse. Vada in cucina, dissi, la domestica la servirà. Salve Moran, disse lui.
Era troppo tardi per andare a messa. Non avevo bisogno di consultare l’orologio per saperlo, sentivo che la messa era incominciata senza di me. Io che non perdevo mai la messa, averla persa proprio quella domenica! Quando ne avevo tanto bisogno! Per intraprendere il viaggio! Presi la decisione di chiedere un’ammissione particolare nel corso del pomeriggio. Avrei saltato il pasto. Con il buon padre Ambroise c’era sempre il modo di aggiustarsi.
Chiamai Jacques. Senza risultato. Mi dissi, Vedendomi ancora in colloquio è andato a messa da solo. Questa spiegazione in seguito si dimostrò giusta. Ma aggiunsi, Avrebbe potuto venirmi a trovare prima di andar via. Ragionavo volentieri per monologhi, e allora mi si vedevano muovere le labbra. Ma senza dubbio aveva avuto paura di disturbarmi e di farsi sgridare. Perché quando sgridavo mio figlio m’accadeva di oltrepassare la misura, e quindi aveva un po’ paura di me. Di me che non sono mai stato punito a sufficienza. Oh, non che m’abbiano viziato, mi hanno semplicemente trascurato. Da qui cattive abitudini alle quali non c’è piú rimedio, e che nemmeno la piú meticolosa devozione è mai riuscita a correggere. Speravo di risparmiare a mio figlio questa disgrazia dandogli ogni tanto un buon ceffone, con ragionamento di sostegno. Poi mi dissi, Avrà la faccia di dirmi che torna da messa se non c’è stato, se ad esempio non ha fatto altro che correre dai suoi compagni di giochi, dietro il mattatoio? E mi ripromisi di far cantare in proposito padre Ambroise. Perché bisognava che mio figlio non pensasse di essere in grado di mentirmi impunemente. E se padre Ambroise non avesse saputo dirmelo, mi sarei rivolto al sacrestano, al quale era impensabile che la presenza di mio figlio alla messa di mezzogiorno fosse passata inosservata. Perché sapevo per certo che il sacrestano aveva una lista dei fedeli e che, appostato vicino all’acquasantiera, faceva la spunta al momento dell’abluzione. Particolare da sottolineare, padre Ambroise non sapeva niente di queste manovre, proprio cosí, tutto quello che sapeva di sorveglianza riusciva esecrabile al buon padre Ambroise. E avrebbe cacciato in tronco il sacrestano se l’avesse creduto capace d’una tale soperchieria. Doveva essere solo per propria edificazione che il sacrestano teneva aggiornato questo registro con tanta assiduità. Io sapevo solo come andavano le cose alla messa di mezzogiorno, questo sia chiaro, non avendo alcuna personale esperienza delle altre funzioni, alle quali non mettevo mai piede. Ma avevo sentito dire che veniva esercitato esattamente lo stesso controllo, se non dal sacrestano in persona, evidentemente occupato altrove, da uno dei suoi numerosi figli. Strana parrocchia in cui le pecorelle la sapevano piú lunga del pastore su una circostanza che sembrava competere piú a lui che a loro.
Ecco a cosa pensavo mentre aspettavo il ritorno di mio figlio e la partenza di Gaber, che non avevo ancora sentito andar via. E stasera trovo strano che io abbia potuto pensare a mio figlio, alle carenze della mia educazione, a padre Ambroise, al sacrestano Joly col suo registro, in un momento simile. Dopo quello che avevo appena sentito, non avevo cose piú utili di cui occuparmi? Il fatto è che non avevo ancora incominciato a prendere sul serio quest’affare. E ne sono tanto piú stupito in quanto una leggerezza simile non era nel mio carattere. Oppure era per godermi ancora qualche istante di quiete che evitavo istintivamente di pensarci? Anche se, alla lettura del rapporto di Gaber, il caso non m’era parso degno di me, l’insistenza del padrone per avere me, Moran, piuttosto che un altro, e la notizia che mio figlio m’avrebbe accompagnato, avrebbero dovuto farmi sospettare che si trattava di un lavoro fuori dall’ordinario. E invece di concentrarvi senza indugi tutte le risorse della mente e dell’esperienza, fantasticavo sulle debolezze della mia progenie e sulle stranezze di chi mi stava intorno. Ma intanto il veleno mi tormentava, il veleno che mi era stato appena propinato. Mi agitavo senza posa nella poltrona, mi passavo le mani sul viso, accavallavo e disaccavallavo le gambe ecc. Il mondo stava già cambiando colore e peso, ben presto avrei dovuto ammettere di essere in ansia.
Mi ricordai con disappunto della birra che avevo appena ingerito. Mi sarebbe stato concesso il corpo di Cristo dopo un boccale di Wallenstein? E se non ne dicevo niente? È a digiuno, figliolo? Non mi si sarebbe chiesto niente. Ma Dio l’avrebbe saputo, prima o poi. Forse mi avrebbe perdonato. Ma l’eucarestia produce lo stesso effetto presa dopo la birra, fosse pure leggera? Potevo sempre provare. Qual era su questo punto l’insegnamento della Chiesa? E se stavo per commettere un sacrilegio? Risolsi di succhiare qualche pastiglia di menta, strada facendo verso la canonica.
Mi alzai e andai in cucina. Chiesi se Jacques fosse rientrato. Io non l’ho visto, rispose Marthe. Sembrava di cattivo umore. E l’altro? dissi. Quale altro? disse lei. Quello che è venuto da parte mia a chiederle un bicchiere di birra, dissi. Non m’ha chiesto niente nessuno, disse Marthe. A proposito, dissi senza scompormi, oggi non pranzerò. Mi chiese s’ero malato. Il fatto è che per natura ero piuttosto un mangione. E in particolare il pranzo della domenica lo volevo sempre molto abbondante. C’era un buon odore in cucina. Oggi pranzerò un po’ piú tardi, ecco tutto, dissi. Marthe mi rivolse uno sguardo furibondo. Diciamo alle quattro, dissi. Sapevo cos’era che galoppava e s’impennava dietro quella fronte angusta e ingrigita. Oggi non uscirà, dissi freddamente, mi spiace. Lei si buttò sulle pentole, ammutolita dalla collera. Mi terrà tutto al caldo, meglio che potrà, dissi. E, sapendola capace d’avvelenarmi, aggiunsi, Avrà tutta la giornata di domani, se le può far comodo.
Uscii e andai in strada. Dunque Gaber se n’era andato senza prendere la birra. Eppure ne aveva avuto una gran voglia. È una buona marca, la Wallenstein. Aspettai al varco l’arrivo di Jacques. Arrivando dalla chiesa sarebbe comparso alla mia destra, a sinistra invece se fosse arrivato dal mattatoio. Passò di là un vicino, libero pensatore. Toh, fece lui, oggi non si adora? Conosceva le mie abitudini, le mie abitudini domenicali, intendo. Tutti le conoscevano, e il padrone forse meglio d’ogni altro, nonostante la sua lontananza. Ha l’aria sconvolta, disse il vicino. È lei a sconvolgermi, dissi io, ogni volta che mi capita di vederla. Rientrai con quel sorriso coscienziosamente laido sulla schiena. Lo vedevo già correre dalla sua concubina a dirle, Sai quel povero coglione di Moran, avresti dovuto vedere come l’ho preso in giro! Non sapeva piú cosa dire! È scappato via!
Jacques rientrò poco dopo. Non mostrava tracce di monellerie. Disse che era stato in chiesa da solo. Gli posi qualche domanda pertinente circa lo svolgimento della cerimonia. Rispose senza cadere in fallo. Gli dissi di lavarsi le mani e di mettersi a tavola. Ritornai in cucina. Non facevo che andare e venire. Può servire in tavola, dissi. Aveva pianto. Diedi un’occhiata alle pentole. Dell’Irish Stew. Piatto nutriente ed economico, un po’ indigesto. Onore al paese di cui ha reso popolare il nome. Io mi metterò a tavola alle quattro, dissi. Non avevo bisogno di aggiungere in punto. Amavo la precisione, e la dovevano amare tutti quelli che stavano sotto il mio tetto. Salii in camera mia. E là, disteso sul letto, con le tende chiuse, feci un primo tentativo di aprirmi al caso Molloy.
Dapprima non volevo considerarne che le seccature immediate, i preparativi ai quali esso mi costringeva. Al nocciolo del caso Molloy evitavo tuttora di pensare. Mi sentivo invadere da una gran confusione.
Sarei partito in ciclomotore? Cominciai da questo quesito. Ero uno spirito metodico e non partivo mai in missione senz’aver riflettuto a lungo sul modo migliore di partire. Era quello il primo problema da risolvere, all’inizio d’ogni investigazione, e non mi muovevo mai senz’averlo risolto in modo soddisfacente. A volte prendevo il ciclomotore, a volte il treno, a volte l’autobus, e m’accadeva anche di partire a piedi, o in bicicletta, silenziosamente, di notte. Perché quando si è circondati da nemici, come lo sono io, non si può partire in ciclomotore, nemmeno di notte, senza farsi notare, a meno di servirsene come di una semplice bicicletta, il che non avrebbe senso. Ma, se le mie abitudini erano di dare un taglio anzitutto a questa delicata questione del trasporto, ciò non avveniva mai senza avere, se non approfondito, almeno preso in considerazione i fattori dai quali dipendeva. Perché come decidere in che modo partire se non si sa tanto per cominciare dove si va, o almeno cosa si va a fare? Ma nella circostanza in questione mi attaccavo al problema del trasporto senz’altra preparazione che la conoscenza distratta che avevo preso della relazione di Gaber. I dettagli minori di questa relazione, li avrei saputi ritrovare quando avessi voluto. Ma non me n’ero ancora dato la pena, avevo evitato di farlo, dicendomi, È un caso banale. Voler decidere la questione del trasporto in queste condizioni era pura follia. Era nondimeno ciò che facevo. Stavo già perdendo la testa.
Mi piaceva molto partire in ciclomotore, ero affezionato a questa forma di locomozione. E, nell’ignoranza in cui versavo circa le ragioni contrarie, mi risolsi a partire in ciclomotore. Cosí, alle soglie del caso Molloy, s’inscriveva il funesto principio del piacere.
I raggi del sole passavano attraverso la fessura tra le tende, rendendo visibile il sabba del pulviscolo. Ne dedussi che il tempo volgeva ancora al bello, e ne fui lieto. Quando si parte in ciclomotore è preferibile che faccia bello. Mi sbagliavo, il tempo non era piú al bello, il cielo si stava coprendo, presto sarebbe piovuto. Ma al momento il sole brillava ancora. Era su questo che mi basavo, con incredibile leggerezza, senza disporre d’altri elementi di valutazione.
Poi, seguendo l’abitudine, affrontai la questione capitale degli oggetti personali da portare. E avrei preso anche a tale proposito una decisione del tutto oziosa se mio figlio non avesse fatto irruzione perché voleva sapere se poteva uscire. Mi dominai. Stava asciugandosi la bocca col dorso della mano. È una cosa che non amo vedere. Ma ci sono gesti piú sconvenienti, lo so per esperienza.
Uscire? dissi, per andare dove? Uscire! Che detestabile indeterminatezza. Cominciavo a sentire una gran fame. Agli Olmetti, rispose. Chiamano cosí il nostro piccolo giardino pubblico. Eppure di olmetti non se ne vedono, me l’hanno assicurato. A far cosa? dissi. A ripassare la botanica, rispose. C’erano momenti in cui sospettavo che mio figlio fosse un simulatore. Fu uno di questi. Avrei quasi preferito che mi dicesse, A prender aria, o, A guardare le ragazze. Il guaio era che sulla botanica la sapeva molto piú lunga di me. Altrimenti avrei potuto porgli qualche domandina, al suo ritorno. A me i vegetali piacevano, e basta. A volte vi vedevo anche una prova superfetatoria dell’esistenza di Dio. Vai, dissi, ma devi esser qui per le quattro e mezzo, devo parlarti. Va bene papà, disse. Va bene papà! Ah!
Dormii un poco. Abbreviamo. Nel passare davanti alla chiesa, qualcosa mi fece fermare. Guardai il portale, in stile gesuitico, molto bello. Lo trovai orrendo. Allungai il passo fino alla canonica. Il signor curato dorme, disse la perpetua. Aspetterò, dissi io. È urgente? disse lei. Sí e no, dissi io. Mi fece entrare nel salone, spaventosamente spoglio. Padre Ambroise entrò strofinandosi gli occhi. La disturbo, padre, dissi. Fece schioccare la lingua contro il palato, in segno di protesta. Non starò a descrivere i rispettivi caratteristici modi di fare. M’offrí un sigaro che accettai con buona grazia, e mi misi in tasca, tra la stilografica e la matita a pulsante. Si lusingava di saper vivere, padre Ambroise, di conoscere gli usi del mondo, lui che non fumava mai. E tutti dicevano di lui ch’era un uomo di larghe vedute. Gli domandai se avesse notato mio figlio alla messa di mezzogiorno. Certo, disse, abbiamo anche conversato. Dovetti apparire sorpreso. Sí, disse, non vedendola al suo posto, nella prima fila dei celebranti, ho temuto che lei fosse ammalato. Allora ho fatto chiamare quel caro bambino, che mi ha rassicurato. Ho avuto una visita molto intempestiva, dissi, da cui non ho potuto liberarmi in tempo. È proprio quello che m’ha spiegato suo figlio, disse lui. Aggiunse, Ma sediamoci dunque, non ci insegue nessuno. Rise e si sedette, rialzandosi la pesante sottana. Posso offrirle un digestivo? disse. Ero perplesso. Forse Jacques s’era lasciato scappare un’allusione alla birra. Capacissimo. Sono venuto a chiederle un favore, dissi. Accordato, disse lui. Ci guardammo. Ecco, dissi, una domenica senza viatico, per me è come... Alzò la mano. Soprattutto niente paragoni profani, disse. Forse pensava al bacio senza baffi o all’arrosto senza senape. Non mi piace essere interrotto. Mi imbronciai. Vedo dove vuole arrivare, disse, lo dica subito che desidera comunicarsi. Chinai la testa. È piuttosto irregolare, disse. Mi chiesi se avesse mangiato. Sapevo che si dedicava spesso a digiuni prolungati, evidentemente per spirito di mortificazione, e poi perché il medico glielo aveva consigliato. Cosí prendeva due piccioni con una fava. Non dica niente a nessuno, disse, che questo resti tra noi e... S’interruppe nell’alzare il dito, e gli occhi, al soffitto. Toh, disse, cos’è quella macchia? Guardai a mia volta il soffitto. È una macchia d’umidità, dissi. Ohibò, disse lui, che seccatura. La parola ohibò mi sembrò d’una demenza senza pari. Ci sono delle volte, disse, in cui si è tentati di abbandonarsi allo scoraggiamento. Si alzò. Vado a prendere la mia attrezzatura, disse. La chiamava la sua attrezzatura. Solo, con le mani giunte da far scricchiolare le falangi, chiedevo consiglio al Signore. Senza risultato. Era già qualcosa. Quanto a padre Ambroise, visto come s’era precipitato a prendere l’attrezzatura, mi sembrava certo che non nutrisse ...